Alfredo Passadore

Pynchon hard boiled

Thomas Pynchon: VIZIO DI FORMA. Einaudi, 2011

In fondo, è un po’ come se Philip Marlowe, impegnato nel labirinto delle indagini descritte in Addio mia amata, si fosse fumato uno degli spinelli che Anne Riordan gli chiede di nascondere e, guidando nella nebbia lungo la freeway che da Santa Monica scende verso la Sud Bay, avesse inavvertitamente imboccato un tunnel spazio temporale, ritrovandosi all’uscita di Gordita Beach una trentina d’anni dopo, nei panni di uno strafatto detective, altrettanto marginale ma molto molto più sconclusionato e inconcludente. In effetti Larry “Doc” Sportello, protagonista dell’ultimo romanzo di Thomas Pynchon Vizio di forma, ha con il suo antenato chandleriano molti punti in comune: stessa idiosincrasia per le forze dell’ordine, incarnate da un Los Angeles Police Department intasato da poliziotti corrotti e malevoli, portati ad allacciare oscuri legami con le forze del male e ad ostacolare ogni onesta indagine investigativa, salvo arrivare sempre al momento opportuno distribuendo manette e annettendosi eventuali meriti. Stessa propensione ai casi difficili, intricati e mal pagati, stessa debolezza a cedere al sentimento e al fascino sinuoso di dark ladies tanto belle quanto eternamente sfuggenti. Ma esternamente ogni somiglianza viene subito meno: nessuna parentela con l’eleganza demodè di un Marlowe o di un Sam Spade, e nemmeno con quella più pacchiana del Gittes di Polanski; se mai, restando sul grande schermo, qualche parallelo potrebbe esserci con il Lebonski dei fratelli Cohen, di cui Doc condivide l’aria eternamente svagata e leggermente strafatta.

Vizio di forma in effetti è davvero una sorta di tardo hard boiled californano, una satira grottesca e psichedelica dei classici pulp della detective story made in LA, dotato di tutti i crismi del caso: una trama complessa e spesso incongruente, un folla dickensiana di personaggi emarginati e perdenti, avvolti in un’atmosfera crepuscolare e maledetta, sperduti in un eterno conflitto con diabolici complotti orchestrati da oscure potenze nascoste. Ma, in quache modo, è anche un libro autobiografico, in cui Pynchon celebra gli anni trascorsi a Manhattam Beach, sulla costa losangelina, a scrivere quello che tutti considerano il suo capolavoroi assoluto, “L’arcobaleno della gravità”.

Il periodo è lo stesso: Vizio di forma si svolge tra il marzo e il maggio del 1970, proprio quando Pynchon abitava a Manhattam Beach nella South Bay di Los Angeles, di cui Gordita Beach è una chiara trasposizione romanzesca. Poche come sempre le testimonianze di quel periodo: Pynchon viveva più o meno da recluso e al solito evitava ogni contatto con il mondo esterno, secondo il cliché che ha fatto di lui lo scrittore più elusivo dell’intera letteratura americana. Ma la Gordita del romanzo è una descrizione vivace e coerente del periodo. Siamo a uno snodo cruciale della recente storia statunitense: Ronald Regan è governatore della California e si appresta alla scalata che lo porterà presto a Washington. Alla Casa Bianca nel frattempo abita Richard Nixon, quel Tricky Dick che si ripromette di allargare il conflitto vietnamita a Laos e Cambogia e non si perita di affermare che una certa dose di fascismo “può far bene alla libertà”. Un’atmosfera di plumbea paranoia avvolge gli ultimi tramonti su quell’isola felice che è ancora, ma per poco, Gordita, popolata di tardi freakketoni strafatti e di surfers temerari alla ricerca dell’onda perduta, un sottobosco alieno che si aggira lungo le strade in discesa che portano all’oceano, fatte di case fatiscenti e polverose, in cui ruggine e stucco cadente si mischiano ai vapori salini del mare e all’umidità della nebbia, ai miasmi dell’incessante traffico delle freeway e al rombo dei jet in partenza dal vicino aereoporto.

Sono le ultime vestigia di quell’estate dell’amore che aveva travolto la California dei tardi anni ’60, ormai inacidite dall’approssimarsi inarrestabile di un’apocalisse prossima ventura che sembra destinata a mangiarsi tutto. “Vizio di forma” condivide scenari e personaggi dell’altro romanzo dedicato da Pynchon al periodo, quel “Vineland” che descriveva la migrazione degli hippies al nord, verso la terra delle grandi sequoie, in fuga da una rivoluzione svanita a cui non credeva più nessuno, trasformatasi nello spazio di un mattino da anelito di libertà assoluta in oscuro complotto di provocatori e infiltrati. Chi allora ha preferito rimanere vive ora a Gordita e cerca di sfuggire alla realtà che romba minacciosa giusto oltre la spiaggia e le dune, facendo ricorso a un miscuglio eterogeneo e pittoresco di droghe o allontanandosi a bordo di fragili tavole da surf su un mare eternamente ribollente e inquietante, su cui le esili sagome dei cavalieri dell’onda sembrano moai in sedicesimo di una Rapa Nui capovolta, intenti a scrutare perplessi la costa caliginosa del continente.

Vizio di forma rappresenta, nella bibliografia pynchionaniana, sicuramente un record di popolarità: è il primo romanzo dello scrittore a raggiungere le classifiche dei best sellers, il che per un autore molto più citato che letto, rappresenta sicuramente una sorprendente novità, ed è pure il primo di cui già si annuncia una versione cinematografica. E in effetti il romanzo si rivela un libro “divertente”, apparentemente di facile lettura, vuoi anche per una mole, poco più di quattrocento pagine, abbastanza inusuale per chi è abituato a scriverne spesso ben oltre le mille. Per di più la forma adottata, la detective story, aiuta a superare certi scogli tipici della letteratura postmodern, agganciando il lettore a una trama che, se pur intricata e spesso opaca, resta comunque sempre dotata di una certa dose di thriller.

In superficie in effetti seguiamo le avventure del detective Doc Sportello, incastrato dalla solita ex di turno, bella e seducente, in un caso di tradimento extraconiugale con un magnate dell’edilizia e della devastazione ambientale, complicato da un rapimento e dalle oscure manovre di una moglie fedifraga, evidentemente interessata più alle sostanze del consorte che al suo fascino appassito. Fin qui nulla di strano, tutto secondo i canoni del genere. Ma le cose, come nel più classico dei trip, assumono quasi da subito aspetti inusuali e prospettive inconsuete. Sportello, cui l’uso massiccio e continuo di quantità industriali di marijuana non garantisce certo una asettica lucidità, più che seguire un’indagine, sembra perdersi in un viaggio psichedelico del tutto personale, dove è difficile distinguere tra realtà e allucinazione. Come in ogni classico “viaggio”, la realtà comincia a debordare da ogni lato, compaiono ad ogni passo percorsi collaterali, si aprono prospettive incosuete, la pista, ammesso che ne esista una, sembra la tela di un ragno in preda all’LSD. Anche la cronologia gioca brutti  scherzi: dopo una scrupolosa meticolosità iniziale, a metà del romanzo l’orologio si ferma e si apre un tunnel extratemporale in cui Sportello compie non a caso le scoperte più rivelatrici sul caso.

In un vero e proprio delirio psichedelico, Vizio di forma diventa ben presto una satira corrosiva non solo del romanzo di genere, un vero classico americano, ma a suo modo anche una critica davvero “acida” di un’intera società. Il racconto si popola rapidamente di “mostri”: bande di motociclisti nazisti affiliati a Fratellanze Ariane, gang nere legate ai Fratelli di Soledad e alla rivolta di Watts, surfisti solitari alla ricerca di cavalloni impossibili in mare aperto, laddove sembrerebbe stia riemergendo un contiente scomparso, gruppi di surf rock alla Beach Boys, installati in sfarzose ville su canyon lussureggianti in cui si aggirano groupies depravate ed eroinomani zombies, centri di riabilitazione in cui si compiono perverse mutazioni e si manipolano cervelli, organizzazioni di Vigilantes che appoggiano manovre controrivoluzionarie, dedite al culto di Nixon e pronte al lavoro sporco che anche una polizia corrotta si rifiuta di fare. E a dominare su tutti l’ombra del nemico assoluto e sempre indefinibile, la Golden Fang, una sorta di P2 di cui è difficile anche distinguere i contorni, che può essere di volta in volta uno scooner su cui effettuare il contrabbando di eroina dal Triangolo d’oro, ma anche ripulire soldi sporchi scambiandoli con dollari con l’effige di Nixon al posto dei soliti Franklin e Lincoln, ma è pure un’organizzazione di dentisti sadici che ha come sede un grattacielo dorato a forma di zanna, o un gruppo di benpensanti che intesse rapporti indicibili con le lobbies più segrete del potere.

Sono gli anni in cui Charlie Satana Manson e la sua banda, appena catturati, infestano ancora i sonni dei buoni borghesi asserragliati nelle loro ville di Bel Air e Beverly Hills, in cui una paranoia densa e irrespirabile raggiunge anche gli avamposti più remoti dell’immensa metropoli, mostrando i segni inequivocabili di un incubo che va materializzandosi collettivamente, il peccato originale di un’intera società che è il “vizio di forma” che ne sancisce la condanna. Il romanzo diventa così il malinconico controcanto di addio di una generazione che, appollaiata sul bordo dell’oceano, assiste impotente al declino dei propri sogni e all’alba di un giorno che si annuncia con toni apocalittici.

Ossessivo domina, lungo lo scorrere delle pagine, l’accompagnamento sonoro di centinaia di canzoni, ironica colonna sonora che Pynchon assembla, con la consueta maestria postmodern, in un testo che mischia al solito rock, cartoons, cinema e tv, in una scrittura magmatica che costruisce la propria diversità proprio a partire dai materiali più ordinari. Emblematica, nell’incupirsi dell’atmosfera del racconto, l’ossessione televisiva dei protagonisti per le serie tv, le cui trame si intersecano con quelle della narrazione, fino a diventarne una sorta di specchio rovesciato. Nella società dello spettacolo che annuncia ormai il suo completo dominio, mentre l’attore Regan si appresta a cavalcare da sceriffo anche la scena politica, i serials tv incarnano l’invertisi della realtà in cui ciò che esiste realmente è ormai solo ciò che appare, sullo schermo appunto. C’è una scena molto significativa del racconto, emblematica a questo proposito. Doc nasconde un pacco di venti chili di eroina nella scatola vuota di un televisore. Denis, suo vicino e compagno di sballi, lo trova e si mette a guardarlo, come fosse davvero una tv. Perché la neve non è solo la “roba”, ma anche l’effetto pixelato di un schermo acceso ma privo di segnale. La droga, insomma, a cui milioni di americani, ma non solo, si apprestano a delegare il proprio cervello.

Nel chiaroscuro crepuscolare di un tramonto comunque paranoico, non mancano però barlumi di libertà che ancora resistono. Come la rete, quella Arpanet che nel romanzo muove appena i primi passi, ma che qualche antesignano hacker alle prime armi sembra già capace di stravolgere dall’originale scopo militare a un futuro molto più gravido di promesse. La storia si chiude con Doc alla guida sulla freeway di Santa Monica perso in una nebbia fittissima che, salita dall’oceano, ha coperto l’intera città chiudendola in una realtà priva di spazio e spessore. Nel nulla assoluto, inquietante metafora del vuoto che ci aspetta, unico modo per viaggiare è agganciasi alla luci posteriori della macchina che precede. Si forma così una catena umana, in cui ognuno serve da guida al proprio vicino, l’unico servizio veramente gratuito in tutta Los Angeles, commenta acido Doc. Una solidarietà “inevitabile” che forse ci salverà…

“Fogli di Via”, luglio 2011