Pubblichiamo la presentazione di Pietro Pucci a Parola estrema di Lucio Mariani (Crocetti, milano 2008)

Pietro Pucci

ridurre a cosa umana il silenzio

Critici acuti hanno riconosciuto che uno dei temi principali della poesia di  Lucio Mariani è “il silenzio”, ma questo motivo è ben più centrale di quanto si sia suggerito. Infatti il “silenzio” entrando  in rapporto con “il senso” crea una linea di tensione che sta alla base della  scrittura di Mariani ed informa la sua intera poetica. Cercheremo qui di definire le aree di forza di questi due termini, di  precisare il loro rapporto e di mostrare come la loro tensione, il loro equilibrio instabile, in altri termini la differenza che li unisce e li distingue, costituisce ciò  che sollecita l’incredibile potere della sua poesia.

    Il passo che ci illumina su questo rapporto si trova in “Crisi di scriba” dove l’alta figura della Verità lo descrive in modo grafico come un ponte:

                    sul grande ponte dal  silenzio al senso.

   Questo transito dal silenzio al senso è descritto in termini sinonimici all’inizio della stessa poesia, dove la differenza s’insinua nell’unità originale e minima del discorso,  nella “parola”:

E ancora vanverare sulla parola, una figlia

che a noi non appartiene, la figlia dalla chioma

che doveva allegare cielo e terra e che fu assunta

umana per conto delle tombe e dell’ordine! (“Crisi di  Scriba”)

    La parola è figlia di Apollo, il mousegetes (che dirige e conduce le Muse), e le Muse sono la fonte della poesia. Apollo è menzionato per ardita metonimia attraverso la sua “chioma”, perché essa è il segno distintivo della sua bellezza e giovinezza: ha i capelli tagliati al modo dei ragazzi, dei giovani.

    L’epanalessi di “figlia” rafforza l’idea che la parola è creatura, “carne” -  si potrebbe dire con il linguaggio di  Mariani - di Apollo. Tuttavia, questa definizione nel nostro passo è una metafora (si noti “figlia dalla chioma”) e non corrisponde, nel mito greco, a una personalità divina: solo nell’India vedica la Parola è dea. Ma questa definizione rende l’ossimoro palese: divina ed umana, la parola in Mariani è già essa stessa scissa in due nature opposte, l’indicibile del divino e il senso umano, il  mistero dell’essere e il varco sul mondo.

    Figlia di Apollo la parola doveva allegare, cioè fondere insieme cielo e terra, ma questo fine d’una fusione o convivenza pacifica non è stato raggiunto e la parola è stata “assunta/umana per conto delle tombe e dell’ordine”, dunque in vista di stabilire la struttura gerarchica, burocratica e punitiva della società umana. Ma anche qui l’ossimoro affiora.

serví per proclamare costanti ed invariati

statuti di violenze fortunate e a decretare giusti,

furti e tiranni.

    L’enjambement “giusti/ furti” potrebbe rafforzare il sarcasmo dell’ossimoro. E già il lettore identifica la scissione interna alla parola come ciò che carica la forza, la ricchezza dei toni e dei temi della poesia.

    Al termine dell’apologo c’è un’epifania onirica, utopica:

Mi disse in sogno l’alta figura della Verità:

tuoi pari, o scriba, hanno predato il monumento

all’unica vittoria sulla morte,

sul grande ponte dal silenzio al senso

dove…

   “Il monumento” è la parola che si erge a presidiare la memoria delle cose, è il verbo divino della grande poesia che vince la morte: ora poeti e  scrittori d’ogni risma (“scribi” evoca i farisei, gli scrivani e gli autori mediocri) hanno rubato, sequestrato, il monumento dalla parola: le hanno dunque sottratto l’arma con la quale ella conduce la sua lotta contro la morte e, togliendole il potere divino, il silenzio, hanno appiattito la sua ambivalenza, hanno soppresso la sua differenza interna.

    Dunque, questa violenza è avvenuta “sul grande ponte dal silenzio al senso”.   

    Sì, proprio su questo arco di transito che connette il silenzio al senso - ma si noti dal silenzio al senso, e non all’incontrario - è avvenuta la depredazione: non si poteva dare immagine più eloquente che questa del ponte per indicare l’essere in bilico della parola, in bilico tra il divino e l’umano, tra il silenzio, l’abisso, il mistero delle cose, e il senso che l’uomo dà alle cose del suo mondo.

    Arrestandoci un istante a dare uno sguardo d’insieme a questo apologo, già il titolo “Crisi di Scriba” con il suo forte gioco allitterante e il doppio senso di Crisi suggeriscono il sarcasmo verso i  predatori del monumento sul grande ponte e insieme la nostalgia per la bella funzione, ahimé inattuata, della parola apollinea; entrambi i moti poetici si uniscono nell’inattesa parola di Verità che presenta appunto l’immagine di questo incontro “sul grande ponte”.

    E’ certo la scissione della parola tra silenzio e senso che costituisce il principio scritturale che dà propulsione sia alle immagini sia ai temi e ai modi di questa poesia. In un qualche modo una risoluzione senza resti non sarà mai possibile: qui per esempio le porte consentite “solamente” per “l’uso” della “frode” contrastano con le “violenze fortunate” e i “giusti,/furti” dei versi precedenti. Ma questa irresoluzione, questo scontro sul ponte coi i modi nostalgici, sarcastici, ironici e polemici è ciò che crea la tensione allegante e che salva la poesia di Mariani dall’essere la poesia della nostalgia.

    L’arco gettato tra il divino e l’umano, questo ponte è detto “grande” perché è lì sopra che si giocano tutti i termini della condizione umana. Il lettore però sa che non si troverà nel groviglio di speculazioni filosofiche di carattere fenomenologico ed esistenziale, benché sia cosciente che esse marcano la nostra modernità. Le varie forme di scissione tra essere e le manifestazioni dell’essere, la caduta dei principi fondamentali, la solitudine dell’uomo di fronte all’essere, al mondo e al suo stesso linguaggio, sono presupposte nella poesia di Mariani, ma, come è già chiaro dai versi della poesia che stiamo commentando, sono elaborate attraverso una virtuosità linguistica e retorica che gli permette di rimettere la sua parola poetica su questo ponte, di ridonarle la sua ambivalenza in atto, di riallacciare ad essa il monumento e farla parlare attraverso la sua scissione interna, tirandola ora di qua, ora di là, ma mai interamente solo da una parte.

   Si dirà che questa è la posizione che prende tanta parte della poesia moderna, da Mallarmé a Beckett, da Ungaretti a Montale, per fare solo i grandi nomi. E’ vero, ma il modo in cui questa posizione è vissuta poeticamente non è mai lo stesso. E come il ponte è riguadagnato dai poeti non implica lo stesso percorso. A cominciare da questa immagine del ponte.

    Fare confronti ci allontanerebbe da questo breve sguardo sulla poesia di Mariani. Ma solo per esemplificare, il silenzio di Mariani non gode della connivenza dell’umano e del divino che, attraverso la magia, si attua con più o meno successo in Montale:

                    Vedi, questi silenzi  in cui le cose

s’abbandonano e sembrano vicine

a tradire il loro ultimo segreto…

Sono i silenzi in cui si vede

in ogni ombra umana che si allontana

qualche disturbata Divinità.  (“I limoni”)

    Qui il tono è elegiaco. In Mariani invece silenzio e senso si incontrano sul ponte che unisce violenza, enigma e perfino il sospetto di una collaborazione, producendo soluzioni retoriche e poetiche diverse. Ma senza allentare mai la forza, la tensione, la concretezza dell’incontro.

    La grande parola poetica, quella che conserva il monumento, quindi prossima al silenzio,  paradossalmente graffia, ferisce, insanguina il silenzio:

Senza scrittura

senza questa ferita persistente

nel corpo del  silenzio………

……………

tenue sapere ti accompagnerebbe (“Lo stilo”).

    L’immagine non è una erudita reminiscenza del graffio implicito nel senso di grafein come “scalfire, incidere”; no, è proprio rivelatrice di una violenza che il testo vuole farci soffrire, come la fine della poesia mette in luce:

“…E’ da quei segni

che fu inflitta la caccia ai regni oscuri

nel cielo profondo

dove oggi sfiori e offendi l’infinito.” (“Lo stilo”)

dove questo tu “sfiori e offendi” non è solo la voce del poeta che si indirizza a sé stesso, ma coinvolge anche il lettore. Sono i  segni  della poesia e dell’arte in generale.

    La violenza della scrittura ritorna in “Granpadri”(Il Sandalo di Empedocle). Qui i grandi poeti e scrittori dell’antico passato, interpellati come “….da voi, schiume/ di suono e senso, venti del fuoco delfico ed eroi/ delle lingue che traversaste tutto l’olio nel lume/ per consultare ogni silenzio armati con l’arpione d’una  penna/ sanguinante sui fogli”.

L’arpione è tra l’altro un chiodo che si ficca nel muro per appendervi qualcosa, ma è anche strumento di caccia: qui, probabilmente nel primo senso, esso si identifica con la penna, ed inchioda il corpo o i brandelli insaguinati del silenzio sulla pagina bianca.

La violenza della scrittura si specchia qui nella violenza della scrittura di Mariani: queste ferite, lacerazioni e graffi inflitti al silenzio sono i gesti aggressivi che la parola, là sul ponte, compie nell’atto di rinfacciargli il mistero, di tener nascosto il divino e l’essere, e dunque di lasciare la condizione umana senza ragioni, inesplicata. Come si comprende facilmente, questi gesti si rivolgono all’indietro verso il silenzio contraddicendo il movimento dal silenzio al senso. C’è qualcosa di abrasivo nel rimproverare la figlia di Apollo di non darci la sua parola diretta.

     Solo i grandi sondano e consultano i confini del silenzio; gli scribi, come abbiamo visto,  hanno tolto alla parola i suoi mezzi di vincere la morte, hanno barrato il ponte, ne hanno chiuso le porte e ne consentono l’uso solamente alla frode. Gli  scribi non sono più in rapporto con il silenzio. Essi fanno dunque un senso ridicolo, scandaloso della condizione umana.

     Ma Mariani è in rapporto con il silenzio. E non lo è solo nell’invadere l’area  o lo spazio del silenzio per cogliere il modo e la misura in cui il suo mistero getta un’ombra sul senso delle cose del mondo, ma anche nel comporre il suo linguaggio, il ritmo dei suoi versi e le sue strofe.

    Si consideri l’abisso, l’annegamento e il silenzio prodotto dalle audaci immagini della sua poesia. Abbiamo riconosciuto “la parola” come “la  figlia dalla chioma”, in cui “chioma” tace, pur richiamandolo, la presenza di Apollo e produce una specie di enigma. L’enigma è un graffio al silenzio. Nella serie di immagini che evocano i grandi scrittori: “schiume/ di suono e di senso, venti del fuoco delfico ed eroi/ delle lingue”, gli scrittori sono schiume, cioè esuberanti creatori di suoni e di sensi; ma la metafora della schiuma li fa mistura d’aria e di liquido, incongrui con i suoni e i sensi. La metafora, ponendo in silenzio il termine letterale, evoca forse il riso, le schiume del mare, il traboccare del vino dai vasi. I grandi del passato sono ancora “venti del fuoco delfico”, dove “venti” è metafora per soffi di voce e “fuoco delfico” è metonimia per ispirazione di Apollo; fuoco perché il divino è fuoco per Eraclito e in generale per i Greci. Queste immagini tacciono, pur evocandoli, sui singoli creatori, poeti, prosatori, filosofi, forse artisti, convocano effetti che appaiono solo nella figura: un silenzio, un enigma che caricano di conseguenze la chiamata in causa di questi grandi e gettano dunque un’ombra piena di suggestioni sull’assenza dei termini letterali. In più, incontriamo un’ossimoro (schiume/ venti del fuoco), un gioco di prestigio eracliteo. Questa creazione retorica complessa non è gratuita, ma si situa anch’essa sul ponte della poetica di Mariani: infatti la forma enigmatica che abbraccia i contrari, l’allusione che rinvia a tutto un carteggio storico, configurandone uno spazio (vd. “Le lamine di Vulci”), sono modi di sondare i confini del silenzio, di graffiarlo, come vedremo ancora.

     Il rapporto tra silenzio e senso, tuttavia, non è sempre sanguinoso o abrasivo, perché la natura della parola è doppia, il suo essere è in bilico, e nel gioco che si rischia sul ponte la parola riceve anche aiuto dal silenzio. Essa infatti si forma e si dipana sondandone i confini, e, poiché discende dal silenzio ed è nata da Apollo, in qualche modo conserva qualcosa di quel  potere originale. Questo ci dice la bellissima meditazione di “Ospiti”.

Cominceremo a leggerla dalla sua chiusa per tenerci attaccati al nostro filo conduttore:

Queste parole stesse sono zattere

prese a nolo sul lago del silenzio

rapide a scomparire nel gran salto.

   Il poeta ha noleggiato le zattere, cioè le parole della  poesia, da tutta la tradizione poetica che lo precede; le ha noleggiate per navigare con i rischi propri delle zattere - come non pensare ad Ulisse - sulla superficie del silenzio, cioè fuori da quell’indicibile, da quell’essere, da quell’infinito, che racchiude e conserva il mistero dell’uomo. Questo mistero è messo a nudo dalla metafora del ”prestito”: nulla del vissuto, passioni, pensieri, amori, esultanze, pianti è “proprio” dell’uomo; niente  gli “appartiene”, nulla fa parte organica, fissa di lui (vedremo che anche l’io è instabile). Le nuvole occupano il cielo e vi scorazzano,”malgrado la presenza degli dèi.” Tale rappresentazione si enuclea da un rapporto negativo con il silenzio: certo essa è pensabile a partire dal  mistero del cosmo, da questo cielo infinito dove abitano gli dèi, ma è pensata proprio per accusare quel silenzio di indifferenza e per inchiodarlo al muro come responsabile del nostro essere senza ragioni e consistenze. Questa rappresentazione stessa non è propria dell’uomo, nemmeno del suo autore, né sopravvivrà dopo di lui. 

    La negazione del “proprio” dell’uomo è un’asserzione forte, sostenuta, e scandalosa: essa, se presa nel suo senso più radicale, contesta un concetto su cui la metafisica ha costruito i suoi più cari castelli in aria, a cominciare da quelli che si chiamano umanità e  umanesimo. Questa negazione del “proprio” dell’uomo evoca, attraverso la metafora commerciale del prestito e quella sociale dell’ospitalità, quello che si chiama anche alienazione:

…In prestito

l’amare, in prestito ogni storia traversata

e la nuvola che balla allegra

nel  cielo  di  giacinto,

malgrado la  presenza degli  dèi.

    La presenza degli dèi dovrebbe assicurare un cielo immoto e non colorato in modo diverso in ogni momento del giorno, come “giacinto”, implicando molti colori,  suggerisce.

    In relazione negativa con silenzio, il motivo del “prestito” produce un “senso” -  il senso che frantuma ogni proprietà e appartenenza della vita umana e dunque la lascia inspiegata e senza ragioni. Perfino l’emozione che prende la voce narrante di fronte alla pittura di Piero:

…in uso

…………….…

e la soglia di estatica emozione

che sfioriamo senza capire

contemplando la Maestà di Piero.

non è piena (“sfioriamo”), né spiegata (“senza capire”) e neppure del tutto posseduta (“la soglia”). Il testo raggiunge un attimo di pathos, ma solo un rapido brivido per via di un tocco d’ironia che si accompagna allo stento e all’alienazione di questo vivere a nolo:

Prendemmo in uso transitorio

il pianto per i visi perduti nei cassetti

                    in uso colpe e affanni reperiti per via, in uso

la scena madre al freddo d’un lampione

e la soglia …

    Che poi la nuvola danzi leggera malgrado la presenza degli dèi suggerisce che il cielo dove gli dèi abitano non è più governato da loro; ma questo principio del “dio è morto o indifferente” è espresso in modo tanto leggero quanto il ballo della nuvola. Epperò la presenza degli dèi è proclamata: sarà inefficace, o indifferente, non sappiamo, ma questa nostra ignoranza lascia un vuoto inesplicato. Il silenzio sta silenzioso.

La parola è veramente scissa e traccia un verso teso dove se “perduti” si attacca a ”visi” crea pathos, ma se si attacca a “nei cassetti” produce derisione cinica: siamo così in bilico, in entrambi i casi, colpiti dal fatto che questi “visi” cari diventino fotografie dimenticate nei cassetti.

    Anche “gli affanni reperiti per via” come ciottoli cui si può dare un calcio perdono in parte il peso emotivo che la voce leopardiana produce a inizio di verso. Come tutto il resto, non hanno”ragioni”, proprietà e non appartengono all’uomo.

    Insomma, la voce narrante racconta tutta questa alienazione spoglia del vivere a nolo e sa di navigare in trabiccoli sul lago del silenzio. Che questo lago se ne stia pur chiuso in sé, noi raccontiamo il nostro vivere, che non ha ragioni con una voce che non si ingrossa di pathos, perché si modula in screziature, in graffi contro quel cielo indifferente. La voce è tutta dentro la rappresentazione cruda e spoglia della vita, e il tono aumenta la crudezza delle cose .

    Ma le cose non sono così semplici quando il vivissimo istinto del poeta è lanciato dalla giostra che gira sul ponte del silenzio e del senso.

    Il lettore giunge alla fine della poesia, e dopo l’immagine delle parole come zattere c’è il silenzio nel bianco del testo, e questo silenzio comincia a parlare improvvisamente con lo scioccante messaggio degli ultimi due versi.

Sii salda e stammi accanto. Ogni cosa

abbiamo già pagato con la vita.

    Dove l’imperativo allitterante “sii salda e stammi accanto” contesta la transitorietà dell’ospitalità, del prestito e del noleggio, confuta  il movimento del fiume e della nuvola, ed è dunque detto da una voce che sta al di fuori del rapporto transitorio. E’ una voce senza pathos e senza sarcasmo. Con l’asserzione perentoria: “Ogni cosa/ abbiamo già pagato con la vita” si nega che vi siano debiti da saldare (siamo“ospiti a pagamento”). Ogni gesto del vissuto è sempre pagato al momento di viverlo perché é doppio, pianto e conforto, segno di un’assenza e segno di una presenza.

    Questa voce non viene dal di dentro del vivere spoglio del noleggio, ma proviene da una sponda ben precisa, come dichiara la prima lassa della poesia :

Gli occhi di questa casa lungo Ripa

si ostinano sul fiume

che procede caracollando

per onde e strie di  melme verdibrune

e più celere appare….

    E’ dunque dalle finestra della casa situata sulla riva immobile del Tevere che gli occhi del narratore e  della sua donna guardano lo scorrere delle acque. Si noti che il nome stesso della strada “Ripa” sottolinea proprio la sponda del fiume, quello spalto fisso da cui guardare il movimento delle onde. Le finestre della casa sulla sponda costituiscono il varco, l’accesso, il palco da cui osservare lo spettacolo delle “strie di melme verdibrune”, un composto bimembre, un tipo di aggettivo spesso in Montale, ma già modulo dannunziano. Comprendiamo che anche la descrizione della vita presa a prestito è lo  spettacolo che si  offre agli occhi degli osservatori, ed infatti troviamo  subito le metafore teatrali:

Prendemmo in uso transitorio

il pianto...

in uso…….

la scena madre al  freddo d’un lampione

Puri accidenti da rendere alla svelta

quinte precarie…

    E’ dunque da un palco protetto dall’immobilità, da uno spalto che sullo scorrere delle onde, la voce narrante ripercorre la vita del passato. La voce proviene dunque da una zona all’ombra del silenzio, come una eco di uno spazio sicuro e fisso e può finire la meditazione su questa vista spoglia della vita con un imperativo: “Sii salda e stammi accanto”, in cui ascoltiamo anche il timbro del maschio che si dissocia dalla donna assieme alla quale ha invece condiviso quel vissuto: “Siamo ospiti, mia donna…”. Ma come stare saldi in questo “uso transitorio” di tutto? Come? Il testo non lo dice, ma questo imperativo produce un fortissimo effetto comandando alla donna l’impossibile, mettendo in scena una voce che non ha avuto finora alcuna presenza. Essa scoppia da un silenzio.

    Ma le sorprese non sono finite. Il testo non si accontenta di un solo varco da cui penetrare il movimento delle cose, ne produce un secondo descrivendo ancora il fiume:

e più celere appare dagli squarci

nel fogliame dei platani concordi

che ci affrontano armati di alabarde

come grigi guerrieri marezzati

 beccheggiando alla cima sotto il vento.

Ci scherniscono i passeri dai rami.

    I platani costituiscono un'altro spalto attraverso i cui squarci osservare l’acqua del Tevere scorrere più veloce quasi per contrasto. Ci ricordiamo dell’inizio di “Efeso”:

A tre ore dall’alba, ancora stenta il sole a farsi varco

tra i pini di  Aleppo, estatici  guardiani del silenzio.”

    Il grande occhio del sole stenta ad aprirsi un varco fra i pini di Aleppo. Questi pini proteggono, preservano l’alba, che nella poesia di Mariani è una figura del silenzio. Anche i platani del Tevere offrono resistenza allo sguardo sul mondo del movimento, dello scorrere, dell’uso transitorio e del riuso. I passeri sui loro rami sono gli effimeri doppi degli occhi del poeta e della sua donna.

    Il motivo di  uno squarcio, di un varco attraverso il quale la poesia  si  apre a una visione delle cose è frequentissimo: “una successione da guardare alla finestra” (“Lamine di Vulci”); “Dalla finestra guardo sul  proscenio” (“Linea di orizzonte”); “sipario/ del  piccolo teatro che si chiude” (“Sul Fondale”) ecc. Persino in “Sulla lettura di poesia in carcere”,  la poesia “varca la porta dei destini arresi” portando dentro il carcere un po’ del maggio romano descritto nella prima  strofa.

    Ritornando a “Ospiti”, abbiamo riscontrato due voci e due fonti di queste due voci: una voce icastica deride la presenza silenziosa e indifferente degli dèi e traccia una visione spoglia del vissuto, non senza tocchi sarcastici, ed un'altra, che proviene da una prospettiva superiore, arcana,  protetta, aggiunge a quella visione il carattere di una scena teatrale e  ne smentisce la necessità con un violento ordine finale.

    Ci troviamo di fronte alla posizione privilegiata della voce tipica della poesia classica?  La voce che proviene da una fonte divina, certa, e dunque parla da una prospettiva superiore, arcana che le assicura una vista unica, un giudizio sicuro, pietoso sulla miserabile condizione umana?  Se apriamo la domanda è perché la situazione descritta sembrerebbe autorizzarci a dare risposta positiva, ma la tensione nella poetica di  Mariani ce lo impedisce. In primo luogo, la descrizione del vissuto nel suo spoglio transitare acquista i toni sarcastici che abbiamo messo in luce, proprio anche apparendo come ripetizioni di un copione teatrale. Non c’è contraddizione fra le due voci, ma sovrapposizione di toni diversi e non incongrui. In secondo luogo, anche la contemplazione di un luogo immobile, sicuro e privilegiato da cui osservare lo scorrere delle cose, è inficiato da ironia: i passeri che “ci scherniscono…..dai rami” sono copia auto-ironica del poeta, che ovviamente guarda dalla finestra insieme alla sua donna. Copia ironica perché essi sono segno dell’effimero (vedi “Passero I” e “Passero  II”), ma soprattutto perché qui non appaiono quali spettatori del fiume e della scena teatrale, bensì come osservatori dei due osservatori alla finestra. L’osservazione dagli spalti dell’ombra del silenzio è diventata doppia e la seconda, quella dei passeri, preme sulla  prima, questionandone la serietà e l’autonomia…  Adesso siamo proprio noi che non sappiamo da che parte e chi guardare, se i passeri che scherniscono i due osservatori o gli osservatori che si sanno derisi dai passeri.

     Il discrimine tra le due voci c’è, la tensione esiste,  gli effetti sono diversi, il rapporto con l’arcano diverso, ma tutti questi  aspetti convergono anche, transitano l’uno nell’altro e combinano un tessuto pieno di sorprese e di toni marezzati. Soprattutto creano un’ espressione fortissima: la sorpresa dei salti di voce, lo sfiorare il pathos e il sarcasmo, l’opulenza del dettato sempre legato in modo negativo o positivo all’ombra dell’arcano, del mistero, del silenzio. L’evento biografico acquista un’eco che trascende l’immediatezza del bios e diventa grande teatro, mito, restauro della certezza.

     Gli aspetti qui disegnati per la poesia “Ospiti” caratterizzano tutta la poesia di  Mariani: la mescolanza dei toni e delle voci crea grande varietà di modi espressivi; la polemica contro coloro che hanno barrato il ponte e che intellettualmente o moralmente non sono in ascolto o non cercano l’eco del silenzio è forte ( in “Orbis unus”, per esempio con un doppio taglio come in “Ospiti”); altrove l’eco del  silenzio (spesso “l’ombra” ne è il corrispondente ottico) avvicina l’uomo al vero ( “Democrito di Abdera”); questo acquisto si attua specialmente attraverso lo sforzo di sollevarsi dalle brume della terra, dove ancora un sipario nuovo è intuito (vedi per esempio “Il  dono”,  “Nell’alto”).

Si  dirà:  dunque è grazie a una virtuosissima manipolazione retorico-poetica che questa scrittura fa giostrare sul ponte della sua poetica i termini antagonisti che abbiamo illustrato. Il testo sembra assicurarci che è così:

…In verità

noi vecchi parliamo con noi stessi per essere ascoltati

al buio del giudizio. Quando il gelo  s’accosta

ci scaldano nei suoni conosciuti soltanto

quei giochi di prestigio che sanno ridurre

a cosa umana il silenzio.  Meritiamo destino

se ancora lavoriamo la parola, misura d’esistenza.

 (“Parlano con se stessi”)

     Il brano s’oppone a quanti parlano  con se stessi e cercano di occupare “il silenzio che li opprime” coprendolo con molta voce, con ogni  sorta di  motti, frasi rotte,  parate verbali, chiacchiere. A questi incalliti chiacchieroni, scribi, conferenzieri che il silenzio opprime, la poesia oppone “noi vecchi “, che riducendo il silenzio a cosa umana lo rendono parte dell’esistere e per questo meritano futuro e gloria (vedi “Orfeo”). Il  silenzio, il  mistero dell’essere deve diventare il compagno della conversazione, della ricerca e della vita morale. Anche se non comunica, il silenzio del mistero ci parla. Sappiamo però che anche così non apparterrà all’uomo. Dunque lo diventerà solo attraverso un trucco, un gioco di prestigio? Sembrerebbe proprio così: il vecchio poeta che lavorando la sua lingua riduce il  silenzio a cosa umana  si  scalda al calore del virtuosismo retorico poetico, al calore  di creazioni che appaiono magiche, arcane ai  lettori ai quali sfugge il trucco della loro  costruzione.

    Naturalmente la nozione  di ”gioco di  prestigio” sfiora l’ironia (ci viene in mente per omofonia  il “prestito”), ma lascia anche intendere sotto quel velo ironico che la resa famigliare del silenzio è solo l’effetto di un virtuosismo, di una infinita destrezza,  non di  una vera magia, non di un vero miracolo.

    E qui ancora la  parola rivela i  termini  opposti  su cui stanno in bilico, il silenzio e il  senso:  qui il  gioco  di prestigio è detto anche “lavoro” sulla parola, ma questo lavoro è molto prossimo alla frode se produce un gioco di prestigio. Sappiamo che gli scribi  tengono aperto il ponte solo consentendo l’uso della frode.  Nel nostro passo invece,  pur in un arco di straordinaria inquietudine, il transito è ancora aperto, transito fra lavoro e frode, transito tra il potere della parola apollinea e la simiglianza a questo potere realizzata dal trucco. La simiglianza potrebbe forse custodire una eco di quel mistero, di quel vero. Allarme ed angoscia si stendono sul quieto tono elegiaco del brano e fanno chiaro che, per i lettori e il poeta, il  rischio della grande poesia è molto serio. Ci ricordiamo di Esiodo, Teogonia 27, quando le Muse dicono al poeta:” Sappiamo  dire molte menzogne identiche a verità”.

     Siamo  al punto dove non possiamo più dire se il velo dell’ironia copre e sostiene tale ambivalenza, o se la giostra sul ponte della poetica non può mai chiudersi completamente e non lasciare resti o irrisoluzioni.  Perché se l’ombra del silenzio è indicibile, come può passare al senso?  E’ solo dunque un gioco di prestigio, una frode, che permette a questa poesia di far credere che riduce il silenzio a cosa umana? E che vuol dire “cosa umana”? Ridurlo a una voce transitoria o a una ripetizione di scene già scritte?

    Oppure, come abbiamo cercato di dire, l’ombra del silenzio si intravede sì nella retorica, ma attraverso questa anche nella costante tensione che evoca e allontana il silenzio, lo ferisce e ne riceve aiuto, lo descrive e non sa dire cos’é. Che qualche parola in qualche tratto della poesia non compia il transito sul ponte della poetica è inevitabile, e il poeta lo sa. Tutta la grande poesia non può sempre effettuare felicemente il transito tra i termini in  bilico che l‘animano e ad essa le danno forza.

    Nel delineare l’ordito retorico che si sviluppa attorno ai termini di silenzio e senso ho illustrato come questo rapporto si concreti in immagini e momenti poetici di grande forza e intensità. Vorrei accennare a come l’allusione possa evocare il silenzio e il senso attraverso le sfumature serie,  ironiche, parodiche, che intersecandosi creano un tessuto ricco, enigmatico, intensissimo. Penso a “La Luna e l’onda”, dove l’allusione all’ Infinito di Leopardi è palese. Comparando l’infinito allo stormire delle fronde al vento, Leopardi si sovviene dell’eterno e della viva e presente stagione, e il naufragare gli è dolce in questa immensità.

    In Mariani l’onda - che sta per il vento leopardiano - avanza e preme  come il reale vivo e presente, e forza le questioni sull’io, un io che nella poesia stessa si frammenta in “i vivi”, in una voce sarcastica, in un “noi” che unisce gli uomini. La luna - vecchia pastiglia consumata -  e il  cielo - simboli del  silenzio -  assistono indifferenti  all’affanno  vano di queste questioni. L’affanno è voce leopardiana, a lui legato dall’antica natura,  come già allusivo a Leopardi é quel passeraccio solo e rimbambito, che con un occhio  guarda il  mare - il  silenzio, l’infinito. Ma qui il mare è richiamato attraverso il colore azzurro - “azul  y azul,  inmenso azul ridondo” -  ricordando forse l’azzurro mallarmeano, e in spagnolo per sottolinearne l’estraneità, la distanza, l’incomunicabilità. Sorriso sarcastico sulla luna e il suo tradizionale poetico pallore, e su questo infinito silenzio che diventa straniero, ma allo stesso tempo è reso umano ( un fatto di lingua, un colore preciso, un elemento naturale), pur restando da sapere cos’è esattamente l’uomo (“Ospiti”) e l’io dell’uomo, e pur sapendo bene che queste domande trovano risposta solo nell’involucro del silenzio.

    L’ordito retorico che ho delineato, e che potrebbe continuare per ogni verso della raccolta,  ha come corrispondente l’ordito tematico che dà un profilo narrativo  alla raccolta Parola estrema. Essa comincia con la rappresentazione diciamo universale del binomio silenzio e senso, sia nello svolgersi della storia (“Le lamine di Vulci”) sia nell’elemento fisico astronomico del nostro pianeta (“Orbis unus”). Con “Pietas” e “Quali barbari” si toccano temi etici che abbracciano tutta una nazione e le famiglie. La gioventù, il  tirocinio poetico muovono verso il bios personale e si ricollegano a meditazioni sulla poesia: anche “Ospiti” partecipa del bios e dell’analisi sulla natura della poesia. Il vero, la scienza, l’illusione della tecnica occupano le poesie “Democrito di Abdera”, “Il dubbio” con l’immagine eloquentissima del momento dello stare in bilico, “Umana vita” in cui il graffio scritturale è parallelo al graffio indistinto che la vita umana fa al tempo. Si viene poi alla maturità della voce poetica e del bios: si attendono consigli  di saggezza , si  riscontrano ricordi  di  gioventù:  una pace maggiore si stende sul verso che sa di non potere se non tentare il vero e ne ha la speranza (“Il dono”,  “Nell’alto", “Esiodea”, “Une saison en enfer”), e infine le poesie che alludono al termine della vita: Parola estrema.

     La poetica originale che qui ho cercato di descrivere si articola e si dipana attraverso il ricchissimo istinto poetico, il fuoco dell’ispirazione e l’erudizione letteraria vastissima di Mariani. I semplici eventi del suo bios privato e quelli dell’umanità si allargano sotto la pressione del silenzio e si arcuano nelle direzioni accennate, dando ad esse la forza di mito e di mistero, e allo stesso tempo facendole orfane di quel silenzio e di quel mistero. Lucio Mariani è il grande poeta della parola la cui eco risuona fortissima tra l’effetto salvifico e la rovina.