Lo studio che
pubblichiamo è dovuto a Pietro Pucci, della Cornell University di Ithaca, N.Y.
Riguarda Ithaca per sempre di Luigi Malerba ed
è stato pubblicato nel volume Ulisse
nel tempo (Marsilio,
Venezia, 2003).
Pietro
Pucci
Tanto per cominciare
Omero gli dà vari nomi, Odusseus, Outis, Aithon , e poi , prima ancora di
nominarlo, a aperture di poema, lo definisce
polutropos, l’uomo dai molti
giri e raggiri, con un significato sia proprio (l’uomo che ha molto errato come
dice al verso 2: mala polla plankhthê)
sia metaforico (l’uomo dai molti raggiri). Infatti ha installato questo
significato metaforico sulla parola, polutropos,
che significa “dai molti tropi” dunque anche tropi retorici. Suggerendo o
lasciando intendere che polutropos
può essere inteso come un tropos, cioè come una metafora, l' Odissea si mostra cosciente della
propria politropia, del proprio potere retorico, del piacere testuale che essa
produce[1].
La tentazione è forte
per il poema di continuare da quel primo verso a produrre pathos e piacere per
il suo pubblico di ascoltatori e lettori creando un incanto, una magia (come
costantemente dice il poema attraverso il verbothelgein[2]): tenere la vita dell'eroe sempre sospesa e in pericolo, ma complottarne
sempre la sopravvivenza grazie alla sua astuzia, al suo valore, all'aiuto
divino. Quale maggior piacere per noi che identificarci con un eroe che sempre
sconfigge l'imbattibile nemico nostro, la morte? E che ritorna a casa e la
riconquista suggerendo l' immagine metafisica del ritorno all'origine,
dell'identità dell'io a se stesso e della scrittura pienamente in controllo di
se stessa?
Ma l'Odissea
non è un triviale romanzo d'avventure: l'impero della necessità non è
mai dimenticato e si manifesta duramente attraverso la presenza non sempre
controllata della morte (Ulisse discende nell'Ade), attraverso la dimenticanza
di se stesso (per es., presso Circe) e la perdita dell'io (nei travestimenti)
che affliggono l'eroe in varie stazioni del suo peregrinare. Il suo Io si
frammenta e si lacera. Ma il termine che soprattutto impedisce la chiusura
narcisistica del romanzo è che il ritorno dell'eroe è solo temporaneo, non è un
vero ritorno. Il ritorno a casa come immagine della riconquista dell'io,
dell'identità dell'io, della domesticazione dell'altruità, rimane interrotta, e
ribalta: Ulisse deve ripartire e continuare l'erranza con tutte le sue
inquietudini e lacerazioni fino a quando morrà. Non diventerà il re giardiniere
come suo padre Laerte, ma continuerà a peregrinare fidando sui talenti di
Ermete e sulla mêtis di Atena[3].
La scrittura stessa
dell'Odissea si espone per quello che
è, movimento che non chiude mai definitivamente, che non domestica mai
l'altruità in se stessa. La politropia resta pluralità, indeterminazione e
surdeterminazione di significati, eccedenza retorica, dipendenza dai testi e
paradossalmente gesto verso l'originalità. I suoi effetti, coerentemente si
stendono lungo una continuità che va dall' incanto e magia all' oblio della
morte, e dunque alla perdita della coscienza di se stessi.
E'
a questa scrittura che non chiude, a questo ritorno non-ritorno, a questa
erranza continua che l'Ulisse del mondo occidentale deve la sua vitalità, da
Virgilio a Dante a Joyce agli scrittori dei nostri giorni. Nelle pagine che
seguono toccherò brevemente questo tema del peregrinare esistenziale d'Ulisse
in alcuni episodi della cultura odierna, ma mi soffermerò più a lungo a
esaminare la scrittura del viaggio come erranza della scrittura, autonomia
della scrittura rispetto al mondo che essa attraversa e mette in atto.
In
un articolo recente[4],
Piero Boitani illustra la maledizione di questa erranza o la sua funzione
salvifica nei filoni della cultura contemporaea, tra Joyce e Levinas per il
quale "l'intero itinerario del pensiero ocidentale'resta quello di Ulisse,
la cui avventura nel mondo non è stata che un ritorno alla sua isola natale, une complaisance dans le Même, une
méconnaissance de l'autre."
Levinas legge l'Odissea nella sua direzione metafisica e
non in quella decostruttiva che ho cercato di delineare. Ma è significativo che
per illustrare la tendenza della metafisica occidentale a riuscire a
controllare la differenza, la perdita, e l'altruità, si serva appunto dell'immagine
di Ulisse, dell'Ulisse Omerico che ritorna in patria. Non per nulla Dante ha
messo il suo Ulisse in inferno, proprio perché non s'arresta al ritorno, ma
continua il suo viaggiare sull'onda d'una curiosità inquietante, al limite,
dissacrante.
L’erranza ha
acquistato nel mondo d'oggi una fisionomia ontologica nuova: essa non è più
determinata dal desiderio del ritorno all'origine con la sua metafisica come
nell'Odissea, né dalla curiosità
dell’Ulisse dantesco, nè dalla mira di una terra promessa come per Enea: essa dice oggi il disorientamento
esistenziale dell’uomo di fronte al viaggio della vita che non ha meta, un
viaggio di ritorno che non ha avuto una andata e gira per così dire su stesso.
Questa immagine della peregrinazione senza meta emerge con la crisi dei
fondamenti che permea oggi il pensiero occidentale
Emblematica di
questa esperienza dell'erranza moderna è l’ossessione di un viaggio che non va
da nessuna parte. Giorgio Caproni è il poeta di questo incubo:
Se non dovessi
tornare
Sappiate che non
sono mai
partito.
Il mio viaggiare
è stato tutto un restare
qua dove non fui
mai.
Geno Pampaloni,
commentando questa tema di Caproni scrive[5]:
Il tema del viaggio
si dipana come viaggio all’ultimo borgo, ai limiti della ragione, quando Enea
si trasforma in un Ulisse impossibile, ne v’è luogo per porre in salvo i
Penati; quando il futuro è inafferrabile come è irrepetibile il passato; così come il presente è il discrimine, forse inesistente, tra due
insistenze (si può in un bicchiere vuoto bere il ricordo del vino?) L’essere si
rivela nel vuoto del non-essere.
Mario Nicolao e
Vincenzo Consolo puntano sulla forza poetica e fantasica del racconto sull’erranza di Ulisse. Notando
l’identità fra viaggio e racconto del viaggio, Consolo scrive (Il viaggio di Odisseo, Milano,1999, p. 64 ):
E diventa Ulisse
ahi! L’aedo e il poema, il cantore e il canto, il narrante e il narrante,
l’artefice e il giudice, diventa l’inventore di ogni fola, menzogna,
l’espositore impudico e coatto di ogni suo terrore, delitto, rimorso.
Questa
rappresentazione tragica di Ulisse narratore dipende dal fatto che il suo
viaggio è catarsi della sua responsabilità d’essere l’uomo della tecnica:
L’Odissea
d’espiazione, di catarsi, è nata dall’orrore della guerra, dal senso di colpa
per le morti, per le distruzioni narrate nell’Iliade. Non poteva compiere quel
viaggio che Ulisse, il più astuto,
paziente e tenace, il più umano degli eroi greci, perché egli aveva inventato
il mostro tecnologico, il cavallo di legno, arma estrema sleale e dirompente
che aveva segnato la sconfitta di Troia, la fine della guerra.
In questa
prospettiva Ulisse, il polumêchanos,
diventa l’emblema della profonda inquietudine heideggeriana verso la tecnica,
perché, in parole semplici, “la tecnica nella sua essenza è qualcosa che l’uomo di per sè non è in
grado di dominare.”
Il
tema dell’erranza e quello della tecnica che l’uomo non può completamente
controllare si trovano combinati nel film di Stanley Kubrik, 2001 Odissea
nello spazio (Space Odysssey 2001). Già Beckett aveva letto il film
come metafora dell’erranza e dello spazio disorientato proprio della cosmologia
della modernità. Difatti i rapporti umani in questo film si attuano tutti attraverso immagini televisive
o apparecchi elettronici, i quali finiscono per diventare autonomi come nel
caso del computer e inviare l’uomo alla morte. Il disorientamento si dipana
anche in un turbinio di immagini di
colori vivi e accecanti che richiamano
l’alterazione della percezione, la disparizione dei contenuti, in una parola
l’esperienza psicadelica[6].
L'aspetto
esistenziale dell'erranza di Ulisse si
presenta dunque in vari schermi della cultura contemporanea, e queste mie
citazioni non sono che richiami. Mi concentro invece sull'immagine della
scrittura come erranza e come rapporto all'altruità, un tema che ho creduto di
poter illustrare nell'Odissea essa
stessa.
Nell'
interpretazione di Lacoue Labarthe, l'erranza di Ulisse passa attraverso la morte e
simboleggia la relazione che la scrittura ha con la morte:
L’esperienza di
Ulisse non è quella di una semplice navigazione e neppure di un accanimento al
ritorno. Culmina nella traversata della morte…Attraversa Stige, Acheronte. Ritorna.
Ritorna, ma è per non tornare dall’essere tornato. Per questa ragione dice,
racconta, scrive, sa che è morto e questa è la scienza stessa. Il mito di Orfeo
non significa altro ed è il mito dell’origine della poesia vale a dire
dell’arte.
Questo "non
tornare dall'essere tornato" è appunto l'impossibilità del ritorno che ho
messo in evidenza nel mia interpretazione dell'Odissea. Contrariamente a Levinas, Lacou-Labarthe, interpreta
Ulisse come figura della scrittura nel suo rapporto con la morte: linearità e
temporalizzazione, tempi morti e dilazione della presenza.
Poiché il segno
linguistico e con esso la scrittura non producono una presenza, poiché il
significato si costituisce sempre anche attraverso i vuoti, le
separazioni, e lungo la temporalità e la
linea della scrittura, il significato emerge
sempre anche con una faccia costituita dai vuoti, dalla
temporalità, dall’assenza e dunque dalla
morte.
Ho elaborato alcuni
di questi aspetti scritturali nel mio libro citato e in uno più recente[7]. Nella messa in scena di continui
mascheramenti e riconoscimenti di Ulisse, la scrittura odisseica perde traccia
dell'io di Ulisse; nel continuo gioco dell' intertestualità, la scrittura
odisseica confonde la sua identità a sé e il lettore non sa più se il testo
debba leggersi come parodia dell'Iliade
o come passiva ripresa dall'Iliade; e infine il piacere che essa prooduce è
definto thelhein cioè un incanto che
è allo stesso tempo una paralisi mortale dello spirito. La scrittura dell'Odissea naturalmente è stata a un certo
punto oralità e non sa nulla dei tempi morti del segno linguistico, ma segnala
attraverso il significato di thelgein
gli effetti che tale segno produce nella sublime produzione che tende a
reprimerne l'erranza e la deriva.
Altri critici hanno
sottolineato il piacere del racconto odisseico senza preoccuparsi del suo
risvolto negativo. Cito qui il giudizio di Tzvetan Teodorov :
Se Ulisse impiega
tanto tempo a ritornare a casa è perché la casa non costituisce il suo
desiderio più profondo: quel che davvero desidera è raccontare.[8]
Lontano
dall'inquietudine esistenziale, lontano dalla drammaticità dell'inventare
tecnico di Ulisse, questo narrare dell'Ulisse Odisseico fa cenno al piacere testuale,
all'interesse testuale che i suoi racconti producono. Perché è vero che Ulisse
in mezzo al suo lungo racconto ai Feaci dichiara: "Potente Alcinoo,
illustre fra tutte le genti, se mi
comandaste di restar qui persino per un anno, e mi concedeste il ritorno a mi
deste doni brillanti, io pure lo vorrei e sarebbe per me profitto maggiore
rientrare nella mia cara patria con la mano più piena." (Od. xi. 355-59).
L'Odissea è sornionamente complice con i
ritardi prolungati del suo eroe a ritornare a casa. Ritornato a casa che ha più
da raccontare se non le avventure del passato? E infatti Ulisse comincia subito
a reinventarsele, cominciando da suo padre Laerte, che a sentirlo raccontare
della propria morte, sviene (Od.
xxiv, 244-314).
Ma lascio questa rassegna
un po’ frammentaria di richiami che hanno lo scopo di suscitare spunti di
lettura piuttosto che illustrare un quadro, e concentro l'attenzione su un
romanzo di Gigi Malerba che si presenta come una riscrittura dell'ultima parte
dell'Odissea, Itaca per sempre.
Con
uno stratagemma che ricorda un poco quelli di Borges, Malerba immagina che
parte del testo che stiamo leggendo --
cioè la sua riscrittura dell'Odissea ---
sia parte del racconto che Ulisse fa dopo il suo rientro e dopo il
riconoscimento da parte di Penelope al suo poeta Terpiade. E' Terpiade che alla
fine scrive l'Odissea sotto la
dettatura di Ulisse. Malerba non lo dice ma
lo sa, Terpiade significa o "Figlio di Terpios (piacere) o
"che dà piacere". L'iscrizione del nome del poeta già indica il
proposito della scrittura.
L’opportunità di
riscrivere parte della favola odisseica non poteva sfuggire a Luigi Malerba la
cui poetica s’è costituita sia
nell’appropriarsi come suo spazio narrativo la dimensione della favola, sia nel
constante smontaggio e rimontaggio, ludico e serio, degli ingranaggi propri del romanzo. Ed è proprio
in risposta a un cantare popolare udito a Corfù che Malerba, come rivela a p.
183, si sente indotto a riscrivere quella favola, la favola di Ulisse e
Penelope, ed eccolo inserire nell’intreccio disegnato da Omero un dispositivo romanzesco moderno, l’
orgoglio ferito di Penelope. Si, perché prima di arrivare a Ulisse narratore
incontriamo la caparbia resistenza di Penelope a riconoscere il marito. La
fedelissima sposa di Ulisse non accetta che Ulisse arrivato a Itaca si confidi
con Telemaco e poi con la nutrice Euriclea, prepari con loro la vendetta e
diffidi invece di lei, la ignori, pretenda di restarle incognito, a lei che
l’ha dolorosamente atteso per vent’anni, a lei che naturalmente l’ha
riconosciuto subito al primo incontro, ma ha dovuto fingere per ottemperare
alla sua strategia. Offesa, adirata da questa diffidenza di Ulisse, essa
brandisce la vendetta: rifiuta di riconoscere Ulisse dopo che questi ha ucciso
i Proci, nega che questo vendicatore sia Ulisse, e lo taccia di impostore.
Poiché Penelope è la sola che possa veramente accertare l’identità di Ulisse, e
poiché ella continua a negarla, egli è costretto a ripartire e a riprendere il
mare. Solo alla fine, quando il lettore ormai pensa che Ulisse partirà da
Itaca, Penelope cessa la finzione, lo riconosce e lo fa rientrare; ma allora
Ulisse, offeso a sua volta, è talmente sedotto dall’idea di riprendere la vita
errante sul mare, che il lettore fino all’ultima parola del romanzo non sa se
Ulisse resterà a Itaca. o se, come Tiresia aveva predetto, salirà sulla nave e
sparirà con essa.
L’intento ludico e
serio di scompaginare l’ingranaggio romanzesco con una Penelope inconsciamente
femminista, è ovvio e non ha bisogno di illustrazione: ma i risultati di questa
torsione del racconto, di questo giro politropico sono tanto inaspettati quanto
profondi e inquietanti.
Lo smontaggio
dell'ingranaggio romanzesco è applicato proprio a quel congegno romanzesco che
nell'Odissea è più ripetuto e più vulnerabile come abbiamo
suggerito, cioè al congegno del mascheramento e del riconoscimento di Ulisse.
Nella lettura edificante e romantica dell'Odissea
come Bildungsroman, ogni riconoscimento non farebbe che asserire e inverare l'
identità di Ulisse che si sta costruendo e solidificando nel corso delle sue
esperienze. L'ultimo, o penultimo riconoscimento, quello da parte di Penelope
coronerebbe questo processo: nel letto della sposa da lui stesso costruito
tutte le identità desiderate si avverano, tutte le possessioni che determinano
l'io si consolidano. Venti anni sono passati e niente è cambiato: la ipseità,
l'identità si manifestano là, si concretizzano su quel letto.
Odisseo seminare
finzioni, inganni, e giochi di parole,
ma lui stesso è sempre certo dei segni che lo definiscono e che gli permettono
di rapportarsi al mondo. Attraverso Ulisse, dunque, il poeta rivela l’integrità
semantica dei segni, e gioca su
mascheramenti, finzioni e simulazioni sempre tenendo fisso un termine,
il controllo che Ulisse sa di avere dei segni.
Ma tutto questo non
è che un risvolto di una scrittura oltremodo doppia e raffinata. Una volta,
quando è una dea che lo inganna, Ulisse perde controllo di questi segni e dice ad Atena: “E’ difficile,
dea, anche per un uomo molto astuto
riconoscerti all’incontro, perché tu ti fai simile a tutto!” (xiii, 312-13). Il
potere divino distrugge il potere discriminante dei segni: la dea può essere
tutto quanto uno può incontrare in questo mondo, una ragazzina, un bel
giovanotto, una bella donna. E allora come fidarsi dei segni?
E il lettore? Forse
che il lettore sa se l'immagine della bella donna nella quale Atena si presenta
a Ulisse è la sua vera, propria immagine--come alcuni critici asseriscono-- o
una delle tante apparenze che ella può assumere? Che segni ci dà il poeta per
dirimere?
Se si considerano
questi aspetti e se si esaminano i congegni ripetuti di queste scene di
riconoscimento[9] l'edificante sicurezza dell'interpretazione romantica svanisce.
Ora Malerba s' attacca proprio a questo
congegno capitale dell'interpretazione romantica e lo smonta. in accordo con
una lettura retorica e decostruttiva del poema, ma andando ben al di la di
quanto il testo omerico lascia timidamente trapelare. Ulisse, accusato da
Penelope d’essere un impostore, cessa di essere certo di se stesso. E Penelope dopo aver negato persuasivamente
tutte le evidenze della identità di Ulisse non sa più se quell’uomo che si dice
Ulisse sia veramente Ulisse.
In Malerba il momento
favoloso – per es. che Odisseo non s’accorga che Penelope l’ha riconosciuto --
distrugge l’integrità semantica dei segni, delle parole, dei marchi sul corpo e
lascia il personaggio interdetto incapace di riconoscersi. Malerba traveste il
travestimento di Ulisse rendendolo ovvio agli occhi di Penelope, e traveste il
riconoscimento che Penelope fa di Ulisse rendendolo incompreso da Ulisse.
Gli incontri di
Ulisse con Penelope durante la preparazione della vendetta diventano per lui
croci di angoscia e di perdita di sé. Lei, offesa dalla sua diffidenza, gli
ostenta una completa freddezza verso la
memoria di Ulisse, gli mostra disinteresse per la possibilità del suo ritorno,
fa aperti gesti di seduzione che lo ingelosiscono. Ulisse non sa leggere, non capisce
e rimane senza risorse:
A questo punto
(dice) non so più se il sogno delle oche
e dell’aquila esprima un timore o un desiderio. Navigo al buio in acque ignote,
e i venti mi portano ora in una direzione ora in un’altra e rendono sempre più difficile il mio
rapporto con Penelope. Ogni suo gesto, ogni sua parola lascia un segno ambiguo
nella mia memoria…Non so come difendermi da Penelope….” (p. 75)
E ancora:
E` così cambiata. In
meglio? In peggio?
Si noti come Ulisse
abbia perduto perfino il senso della realtà. Essa non può essere cambiata in
meglio perché sotto la furia dell’orgoglio ferito, ella si industria a renderlo
geloso. Poi Ulisse continua:
Ogni tanto mi
dimentico di essere Ulisse e mi sento anch’io un estraneo in questa casa,
vicino a questa donna. Ma il pensiero fisso di Antinoo non mi dà pace.. (p. 78)
Si dirà che questa
angoscia di Ulisse è semplicemente
patetica e non solleva per noi lettori alcun sentimento esistenziale dal
momento che sappiamo che egli è semplicemente e provvisoriamente ingannato e
che Penelope gli resta malgrado tutto
fedele. Si, egli è un personaggio patetico come Penelope crudelmente lo
definisce: “Quant’è ingenuo l’astutissimo Ulisse!”
Qui l’ironia di
Malerba si combina con il suo gusto di scombinare gli ingranaggi piacevoli e
rassicuranti dell’Odissea e di
allearsi con quelli inquietanti della stessa: e fa fare al più macho degli
eroi, a colui che si sente più sicuro e
più confortevole dentro la corazza della sua intelligenza e furbizia (mêtis) una sconvolgente esperienza
contraria. Ed è proprio in questo capovolgimento che il patetico Ulisse cessa
di essere patetico e diventa per noi un assurdo, ridicolo eroe moderno, non
perché teme che la moglie lo inganni,
che sarebbe triviale, ma perché in questa trasformazione dell’eroe classico
egli diventa emblema di un una perdita e di una nostalgia che marcano la nostra
cultura. Egli rivela il capovolgimento che vi si è operato, il capovolgimento delle garanzie e dei
fondamenti basati sul potere rassicurante della nostra coscienza di comprendere
il mondo e l’avvento di quella forza del
negativo che attribuiamo al linguaggio e ai segni del nostro rapporto con il
reale. Solo entro questa dimensione Odisseo poteva divenire quel che Malerba fa
di lui.
E’ vero che Malerba
garantisce a Penelope, almeno per un certo lasso di tempo la certezza semantica
dei segni;
Quando ho sentito
per la prima volta — ella dice — la voce di questo vagabondo e l’ho guardato
negli occhi un solo istante, ho capito. Nonostante gli stracci che indossa, le
spalle curve ad arte, le mani tremanti per simulare la vecchiezza, nonostante
che le sue unghie andassero a grattare volta a volta il corpo sotto quegli
stracci e i capelli unti di grasso e di fango per far credere che le pulci e i
pidocchi vi avessero preso dimora, non ho faticato a capire che avevo davanti
ai miei occhi, seduto sullo sgabello vicino al camino acceso, il mio sposo per
vent’anni sospirato nelle lunghe notti insonni e nelle giornate di affanno
trascorse nella reggia invasa dai proci turbolenti. (p. 59)
Proprio come Atena
sfugge al riconoscimento di Ulisse, così Penelope sfugge all’occhio di Ulisse e
non è per lui riconoscibile come quella che l’ha riconosciuto.
Nel
poema omerico Ulisse ed Atena cooperavano a che Penelope non riconoscesse
Odisseo e così fosse lasciata ai margini della trama e soddisfacesse a quella
diffidenza verso il sesso femminile che l’esempio di Clitennestra sembrava
legittimare, persino nel caso di Penelope.
Ma già molti lettori
dell’Odissea si meravigliano che
Penelope non riconosca Ulisse, e con un piglio più proprio a un giudizio
realistico che a un apprezzamento critico del mondo favolistico dell’Odissea sostengono che in effetti
Penelope ha riconosciuto Ulisse.
Il capovolgimento
che Malerba opera nel ruolo di Penelope
si prende gioco del misoginismo di Omero, rende Penelope, per un istante
almeno, un personaggio da favola, una maga se vogliamo, crudele, perchè
maltrattata, e, per contrasto, rimarca ironicamente la tendenza femministica dei
nostri giorni (vedi come siamo lontani da quei tempi della brava Penelope!);
tuttavia questa divertente apocalisse non diminuisce per il lettore il
significato profondo e transessuale della incapacità dei personaggi a leggere i
segni. Infatti Penelope cade nella stessa impotenza, e, a un certo punto, non
sa più se Ulisse sia veramente Ulisse o un impostore (167).
Le prove materiali
che debbono provare l’identità di Ulisse, la ferita alla gamba, un neo su una
delle gambe (una invenzione malerbiana), la costruzione del letto, falliscono
miseramente. Non ci sono prove o evidenze che garantiscono l'identità dell' io.
Come in Kafka o in Adamov, l'io è impotente di dire chi è. La memoria non
sostiene più Ulisse: egli finisce per
dire che non sa se vale più la sua memoria o quella della nutrice (142). Ciò
prova che la memoria non è vivere come dice Penelope (135): è solo una funzione
dell'immaginazione cioè della storia che ci inventiamo per sostenere l'identità
del nostro io.
In Omero, la
finzione è che le Muse siano presenti al processo degli eventi e lo ripetino al
poeta esattamento come è avvenuto. Per Malerba il racconto non ha più bisogno
della memoria perché il racconto inventa gli eventi, non li trascrive. Ma è
ovvio che anche in Omero il racconto è invenzione, finzione.Ulisse affascina i
Feaci a tal punto che lo coprono di doni, a Ithaca affascina i suoi ascoltatori
come fa un poeta. Il verbo per "incantare", “affascinare” è thelgein . In questo egli è copia/modello di Femio,
Demodoco, ma soprattutto di Omero. Ora già Alcinoo emette un giudizio sulla
verità dei racconti di Ulisse che non può non apparire ironico al lettore. E
come crederà, il pubblico sofisticato, alla realtà del Ciclope? Non è
finzione?L'Odissea sa bene che questo
è il caso. Essa ci mostra Ulisse raccontare una mera finzione come un fatto
avvenuto sotto le mura di Troia, e racconta il fatto solo in vista di ottenere
un mantello da Eumeo (xiv, 462 ss.) Ma Ulisse sa che sta inventando e lo dice
un po’ di traverso asserendo che ha bevuto.
La ripresa precisa e allo stesso tempo
dissacrante che Malerba fa di questa funzione romanzesca si sgrana in una
serqua di meditazioni da parte di Penelope e nella romanzesca invenzione
finale.
Ascoltiamo Penelope
quando ormai teme di aver perduto Ulisse:
La mia disperazione
intanto è l’unica cosa certa, perché che sia o no il vero Ulisse, ormai l’ho
riconosciuto come Ulisse, ed è ciò
che conta per me. Ho imparato che verità e finzione si intrecciano e si
confondono, ma in questo momento c’è a Itaca l’unico uomo che io posso
accogliere nel mio letto come Ulisse. (p. 160)
Si notino: l’unica
cosa certa è la disperazione di
Penelope che teme di perdere l’unico uomo che può accogliere nel suo letto come Ulisse. Come se fosse Ulisse.
Questa terribile metonimia dissocia il vero Ulisse in uno che potrebbe essere
falso ma in qualche modo simile a lui.
Questo come è sufficiente a
sospendere l’identità di Ulisse. E' l'Odisseo di Omero e allo stesso tempo
l'Odisseo 2000. È il vero Ulisse e un falso Ulisse contemporaneamente.
Penelope, nel corso delle sua disanima ha perduto il potere di discriminare e
dunque il riconoscimento non è più possibile. E se non è più possibile, se ella
decidesse di (ri)mettersi con lui, si (ri)metterebbe con uno come lui, non con
lui. Lo inventerebbe attraverso il (ri-).
Qui Malerba lascia
cadere tutti gli orpelli favolistici che in Omero assicurano l'identità del
marito e della moglie, anche se sarebbe possibile trovare elementi inquietanti
in quella scena di ri-matrimonio celebrata con la premessa che lo sposo deve
ripartire. Come al matrimomio, la prima volta..
Comunque siamo nel
territorio proprio della poetica malerbiana, in quella sospensione del reale
nell'intreccio e nei graffiti della scrittura; siamo vicini alle premesse che
espone Ovidio nelle Pietre Volanti::
ho nominato questo
scritto come romanzo semplicemente perché sono convinto che chiunque scriva ciò
che gli è accaduto nel corso degli anni opera una finzione…Tutto quello che la
mia mano scriverà su questo quaderno sarà dunque vero e falso nello stesso
tempo. Potrei dire: non ho inventato niente e con la stessa sincerità potrei
affermare che ogni mia frase, ogni mia parola è pura finzione. (p. 10)
La differenza fra
Ovidio e Penelope è che c’è di mezzo Omero e questo star di mezzo non fa una
piccola differenza. Penelope e Ulisse sono esattamente ricalcati sull’originale
omerico, come ho costantemente cercato di sottolineare, e allo stesso tempo si
dissociano da lui e diventano malerbiani; epperò conservando quel cordone ombelicale
che li fa inconfondibilmente omerici, la loro novità si staglia come
provocante, parodica: allo stesso tempo
come un omaggio a Omero e uno sberleffo a Omero. Il momento di puro piacere
letterario prende il sopravvento su quello referenziale alla realtà.
Anche qui il piacere
ha un prezzo: il prezzo consiste nel fatto che tale disanima tutta
letteraria svuota i fondamenti su cui la
finzione pretendeva di basarsi, spazza
via d'un colpo il potere edificante che questa letteratura ha prodotto per secoli,
debilita la funzione di modello, di saggezza, di insegnamento che tale
letteratura ha esercitato per tutto l'arco della cultura occidentale. D'un
colpo c'è il gioco e l'ironia verso
tutto quel sublime retaggio. Liberazione si, ma anche perdita e disperazione.
Si dirà che è
proprio Omero con l'Odissea a aver
cominciato a "correggere" o "parodiare" l'Iliade: ma Omero, se lo fa, lo fa
discretamente, non lo dice, confonde un poco le carte.
Omero permette al lettore anche di dubitare se le avventure
che Odisseo racconta ai Feaci siano veramente accadute o no: si espone appena a
sussurrare, attraverso le ambigue parole di Alcinoo, che un dubbio non sarebbe
fuori luogo, ma Odisseo non direbbe mai per il fatto che sta raccontando
finzioni che non sa più chi egli sia. L’Ulisse di Malerba invece lo dice:
ho raccontato tante
menzogne che ora io stesso non riesco più a districarmi nel groviglio che ho
creato con le parole intorno alla mia persona. Non ho resistito alla tentazione
di mentire anche a me stesso e mi sono commosso fino alle lacrime ogni volta
che ho raccontato quelle storie false e infelici. (169-170)
Questa
capacità narratrice di Ulisse che Malerba travasa e travisa da Omero lo rende
atto a diventare poeta e Malerba inventa che Ulisse resti a Itaca per scrivere
con Terpiade sia l’Iliade che l’Odissea. L’invenzione riposa sulla
natura di Ulisse autore di finzioni, una natura osservata varie volte da
Penelope: che bisogno avrebbe di andarsene via sul mare e vivere altre
esperienze se “raccontare le avventure” è “per lui la stessa cosa che viverle”?
(176)
Persuasa giustamente
da questo, Penelope, ormai decisa a prendersi nel letto quell’uomo come Ulisse, lo incita a mettere per
iscritto i suoi ricordi, e dunque a buttar giù con Terpiade l’Iliade e
l’Odissea.
Il sorriso sornione
di Malerba si apre qui a sottolineare questa condizione ontologica tutta
verbale e tutta fantastica, attraverso la quale egli tocca spunti cari alla sua
poetica.
Innanzitutto la
scomposizione e la parodia dell’ingranaggio romanzesco omerico: mentre nell’Odissea Ulisse sa che si
rimetterà in mare, in Malerba, Ulisse, benché tentato di partire, rimane appunto per scrivere le sue avventure.
Il figlio di Autolico cede al figlio di Laerte, il re-ortolano, e rimane in
reggia, ma non per coltivare il giardino
, ma per inventarsi d’essere eroe.
Un secondo spunto
gira attorno al tema della verità:
Terpiade, dice
Penelope, è un uomo ostinato e vorrebbe che Ulisse raccontasse soltanto le cose
realmente accadute, ma per Ulisse è accaduto tutto ciò che lui racconta, e non
riesce a distinguere fra verità e finzione. E del resto quando mai la poesia ha
parlato della verità? La poesia ha dentro di sè una verità che non sta nel
mondo, ma nella mente del poeta e di chi lo ascolta. (p. 181)
Dunque il poeta
Terpiade vuole raccontare solo la verità delle cose accadute, ma Ulisse e
Penelope che non sono poeti assicurano che la poesia non parla di quella verità
fattuale, ma d’un’altra verità quella che sta nella testa del poeta e di chi
l’ascolta.
Prendiamoli per un
momento sul serio e accettiamo che l’Odissea sia stata scritta da Ulisse,
dunque dall’Ulisse malerbiano. Ora Malerba in una nota in corsivo presenta due
dotte e corrette citazioni antiche per avvalorare questa “congettura
romanzesca”. Prendiamolo dunque sul
serio, e tiriamo le somme: il libro che abbiamo letto è una riscrittura
romanzesca del testo romanzesco che Ulisse scrisse su di sè. Malerba e Ulisse
si stringono l’occhio. La letteratura non è che inventare ciò che è nella mente
del poeta, e quindi Malerba inventa la verità su Ulisse come è nella testa di
Malerba: questa verità malerbiana su Ulisse presenta un Ulisse che inventa
Ulisse come è nella testa di Ulisse: ma chi inventa chi? Sembrerebbe che Ulisse
non sia che una copia di Malerba, un riflesso di Malerba e che non ci sia alcun bisogno di risalire alla verità
che l’Ulisse odisseico ha o fa di stesso perché la verità su Ulisse non sarà
mai altra che la verità di Malerba. Quella di Ulisse su se stesso non conta.
E però c’è Terpiade
che è ostinato e vuole che Ulisse racconti le cose che sono veramente accadute,
la verità che sta nel mondo, non quella della fantasia o della scrittura. Senza
Terpiade, senza Omero l’Odissea non sarebbe venuta al mondo così com’è, e
Terpiade non avrebbe mai permesso a Ulisse di dire:
Ho raccontato tante
menzogne che ora io stesso non riesco più a districarmi nel groviglio che ho
creato con le parole intorno alla mia persona…I poeti cantano le vicende degli
eroi, ma io non sono un poeta, e dubito di essere un eroe… (168-170)
Terpiade, che ci
credesse o no, non avrebbe mai permesso al suo eroe di dubitare d’essere Ulisse
e d’essere eroe e poeta.
Solo la poetica
d’oggi, la poetica della forza del negativo, della parodia, del segno
dissociato dal mondo mette in piedi, senz’altro sostegno che quello della
scrittura, un personaggio tutto cartaceo che però vivendo attraverso il sangue
del suo lontano progenitore, ci dice fra il sorriso e la disperazione dove
siamo noi oggi in relazione a lui. Ora
di questa poetica, Malerba è un grande maestro.
[1] Ulisse condivide questo epiteto esclusivamente con Hermes (Inno Omerico a Ermete,13, e 439) Questo
epiteto disegna anche quella moltiplicità di tratti che è tipica degli epiteti di Ulisse, polumêchanos, polumêtis, poluainos etc.
(Cfr. Pietro Pucci, Odysseus Polutropos,
Ithaca N.Y. 1995 (2a ed.), pp..24 sg.)
[2] L'uso di thelgein per designare gli effetti estetici è, in Omero, esclusivamente
odisseico, per es., i, 337;
xii, 40, etc. L'interesse per
questa nozione di thelgein è che essa designa contemporanementte l'incanto e la
perdita di se stessi, la magia del piacere e la paralisi dello spirito, e
contiene in sè il paradosso della scrittura dell'Odissea che diventerà chiaro
in queste pagine, cfr. Pucci, op.cit. pp.191 e sgg.
[3] Nel mio libro Odysseus Polutropos
ho connesso questa ripresa del viaggio alla struttura ripetitiva
dell’esperienza di Odisseo. Secondo questa esperienza, quasi ogni incontro di
Ulisse ripete lo stesso schema narrativo che comporta un pericolo, un mascheramento
e un un riconoscimento che pur vittorioso implica la necessità della fuga. Si
pensi all'avventura con il Ciclope.
Secondo questo schema ripetitivo, il suo arrivo a Itaca non costituisce
che la ripetizione di una di queste esperienze, la più estesa, la più
importante ma non essenzialmente diversa dalle altre. Che Odisseo debba
riprendere il mare e incontrare esperienze analoghe è dunque iscritto nella
struttura narrativa dell’Odissea e nella sua poetica, quella della polutropia.
Intesa la poetica dell’Odissea in questo modo, il poema non si dipana come un
Bildungsroman, secondo una concezione romantica , ma piuttosto come un romanzo
picaresco, o come un romanzo post-moderno di Calvino o di Malerba dove lo
schema narrativo teleologico non è quello portante.
[4] "Ulisse, il cosmonaufrago" 24 Ore, 8 Ottobre 2000, p.25
[5] Giorgio Caproni, Le Poesie 1932-1986, Milano,
1991, p. 817.
[6] Boitani, op.cit.
ricorda questo film e specula sul
significato del ritorno del cosmonauta come un bambino vecchio, "un
uomo nuovo, un altro gradino nell'evoluzione, forse il superuomo annunciato
dalla musica nietzschiana di Strauss all'inizio." Un film recentissimo dei
Coen Brothers "O Brother, were art you?" ripropone un tema odisseico
in una vena umoristica e parodica attorno a un racconto in cui tre forzati fuggitivi cercano di impedire il
matrimonio di Penelope con un
pretendente indegno.
[7] The song of the Sirens, Lanham Maryland, 1997.
[9] Il simbolico che emerge in queste scene di riconoscimento non lascia il
linguaggio in riposo: esse importano un significato altro che dissocia il significato proprio del riconoscimento. In
altre parole, mentre il riconoscimento dovrebbe semplicemente smascherare il
travestimento o la simulazione, di fatti aggiunge un significato nuovo al
personaggio riconosciuto. Per fare un esempio, quando Atena interviene per
rivelare Ulisse a Telemaco, noi e Telemaco non riconosciamo Ulisse come l’uomo
che era prima del travestimento operato da Atena, ma lo vediamo come un dio.
Lui che ha sempre negato di essere simile a un dio, adesso, riconosciuto come
padre, ottiene una specie di aureola divina. Il riconoscimento ne muta la
consistenza umana. Una certa dislocazione dell’io si opera dunque in queste
scene omeriche di riconoscimento