Jean Montalbano
psichedelica diffusione
Rob Chapman: PSYCHEDELIA AND OTHER
COLOURS. Faber, 2015
Diversamente dai
saggisti che, alla ricerca di
nobili e tradizionali radici, riconsegnano venti anni di
esperienze psichedeliche alla notte hegeliana
delle visioni a base di funghi, bevande
diversamente fermentate o residui di segale
cornuta (fino ad azzardare una Teoria
Psichedelica Unificata come
altri parlano di Teoria delle
Stringhe) ci sono più modesti
sostenitori di una teoria “ristretta”
che della psichedelia accettano solo paternità recenti e, per non rischiare di perderne
la peculiare storicità, preferiscono non sporgersi troppo oltre l'orlo
dei due decenni in cui la diffusione dell'Lsd ha accompagnato la cosiddetta controcultura giovanile. Tra questi si
schiera anche Rob Chapman che comunque, nel
suo Psychedelia And Other Colours per quanto attento a non lasciare nel vago
il profilo particolare delle tante produzioni culturali, non rinuncia a tracciare, sulla scorta di fatti
e testimonianze, il disegno di un'epoca,
la cui aria di famiglia ora blandamente ora pervasivamente psichedelica, nel secondo dopoguerra soprattutto anglosassone, riuscì a modellare anche le menti degli innocenti ragazzini raccolti davanti ai televisori
per seguire i programmi preferiti, anche al di là
di scelte calcolate e ragionate. Nel decidere ciò
che è psichedelico, insomma, Chapman sceglie di far spazio pure ad “altri colori” indagati
col puntiglio di chi ripercorre le proprie memorie senza perdere il
filo della concretezza, e concede volentieri
che quelle sfumature, per quanto associate al consumo di Lsd, non sono soltanto una ricaduta
dell'impegno musicale, ma nella loro diffusione denunciano una storia che
esorbita dal veloce ed intenso ventennio 1950-70.
Riconosciuto ai primi Pink Floyd o Soft Machine
quanto loro dovuto per gli alti esiti raggiunti, Chapman
indica nei prodotti popolari da Top Ten gli agenti di una diffusione
psichedelica che oltremanica venne anche preparata (e basterebbe citare il
ricorso alla moda e ai fonts che accompagnano, come
per ingentilirne le ostiche asperità tante presentazioni di parti psichedelici) dalla
“rivoluzione” vittoriana ed edoardiana. Seguendo questo filo, alle spalle dei
celebrati, tecnologicamente smaliziati, lightshows
degli anni sessanta ci sarebbero i profumi e le luci che già invadevano il golfo mistico scriabiniano
(che psichedelia sia solo un altro nome per sinestesia
e gli shows plastificati di Warhol e dei Velvets una variante
del simultaneismo ?). L'operazione ha senso quando non è solo un altro capitolo nelle “avventure della ragione
abdicante” e, invece di attardarsi a disseppellire oscure, grezze o incorrotte pepite, ne segnala gli indizi psichedelici disciolti nel gran mare inquinato del mainstream commerciale. Prospettiva non scontata secondo la
quale, ed il nostro autore non è solo,
l'esperienza psichedelica può essere separata dalla droga che in alcuni periodi,
vedi appunto Lsd negli anni sessanta, fu un acceleratore e moltiplicatore di
processi già in corso che toccavano
televisione, architettura, moda, pubblicità tutte insieme a congiurare per uno spirito del tempo
pronto a flirtare con le droghe ma senza
tralasciare quel sapore nostalgico per un passato spesso nemmeno personalmente
esperito pur se “imperiale”.(E già Paul Stump nel suo The Music's All that Matters
del 1997 si era soffermato sulla fusione di ideologie romantiche, gnostiche, eccentricità inglesi e pastoralismo portati comunque ad un punto incandescente
dalla diffusione delle droghe di massa). Tracce persistenti di tale processo
diffusivo Chapman le rivela, in un viaggio che è in parte ricapitolazione della sua infanzia, non solo
nella musica o nella tv, ma anche nel design tipografico e nel cinema, non
curandosi di andare a caccia di “essenze” ma sostando non appena avverta
profumi esotici e perturbanti tra le nebbie e macerie di un'epoca segnata da tonalità nostalgiche o
comunque evasive. Questo taglio porta l'autore a privilegiare, in campo
musicale, proprio quanto, sottraendosi al circuito specialistico degli albums concettuali (con quelle copertine e quei titoli
spesso grevemente saputi e denotati) si compromette e si scioglie nel mercato volatile dei 45 giri e delle canzoni da due o tre minuti.
Insomma, anche il mito
dell'acido viene scalzato, Lsd diventa metafora. Se il suo effetto non dura e
le sue rivelazioni passano e vanno (salvo assumerlo sette giorni a settimana,
come usava Syd Barrett) è alle creazioni effimere che bisogna guardare, e quel
che resta è scritto tra le ceneri di un
fuoco spento, ricomponendo frammenti di quanto Adamo vide la mattina della
creazione (Aldous Huxley).
L'apertura di mente (tale il significato del termine psychodelic,
coniato dallo psichiatra H. Osmond, lo stesso che
prescrisse Lsd a Cary Grant per sconfiggere
l'alcolismo) non era garantita, George Harrison si arrese all'evidenza che,
dopo sei mesi, gli stupidi rimanevano tali. Non importa, Huxley
divenne post mortem ispiratore di un movimento cui
rimanevano estranee le sue dichiarate preoccupazioni scientifiche e quando finì sulla copertina di Sgt.
Pepper il danno era fatto. Comunque Chapman ci lascia nel dubbio che, tra molte bands inglesi, forse la
birra potè più che l'acido.
Anche volgendosi all'altra parte dell'atlantico, dove la società americana, a
cominciare dalla costa occidentale, patì la diffusione, dapprima per usi psicoterapeutici,
apparentemente inarrestabile dell'acido scoperto dal dottor Hofman,
l'autore, senza spingersi
al revisionismo disilluso dell'ex fan incallito, considera la crescita musicale
come ottenuta a spese dell' oscuramento di precedenti e più radicali sperimentazioni in teatro, cinema o danza. Se
non è il caso di accomunare, come fece Reagan, ala politica
ed ala bohémienne di Berkeley in un solo gap
di moralità, nel
far le pulci al mito della San Francisco psichedelica, tuttora spendibile, la
simpatia di Chapman va
non tanto o non solo, ai lunghi manifesti di Quicksilver Messenger Service o Grateful
Dead, quanto alle singole canzoni dei Beach Boys o
dei Birds (meno indulgenti o legate al canone blues)
o addirittura al volantinaggio disimpegnato
dei “girl groups”
o delle “garage bands” per teen-agers.
Mentre la forza del pezzo singolo è il precipitato
delle prova psichedelica, le divaganti e spesso devastanti jams su album, mettendola
in scena col minimo di mediazioni, riescono difficilmente a comunicarne le
coordinate: Bo Diddley
sì, dunque, ma per pochi
effimeri minuti e non tirato per dieci o quindici. Questo rende incancellabile
e persistente (come il felice sgomento provato all'ascolto di “God Only Knows”)
le musiche del gruppo di Brian Wilson: e forse alle spalle del libro c'è proprio il tentativo di chiarirsi la permanenza di
quelle scoperte e sensazioni adolescenziali, a mezzo secolo di distanza.
Discende da quelle impronte la volontà dell'autore di rivalutare l'impegno psichedelico dei Monkees (che, detto en passant, invitarono Zappa o Buckley nei loro shows
tv ) piuttosto che ripetere le trite lodi dei soliti noti.
Comunque, nella partita
tra insensatezza e disciplina, Chapman sceglie la
seconda, e se rispetta la tormentata passione dei 13th Floor Elevators di Rocky Erickson, non fa
molte reverenze all'ego di un Jim Morrison.
“Fogli
di Via”, marzo.luglio 2016