Di seguito la prefazione al volume di Hilda
Ricaldone Materiali per una storia
del M.I.B.I. (Ocra Press 2007)
Carlo Romano
MIBI
“La conquête du superflu donne une
excitation spirituelle plus grande que la conquête du nécessaire.” Gaston Bachelard
Ai tempi dell’Arts and crafts si pensava che dalla vecchia
bottega artigiana potesse rinascere il buon gusto favorendone il radicamento
fin nelle classi popolari. William Morris, suo teorico, si era mosso tanto al
seguito delle correnti medievaliste ruskiniane gotiche e pre-raffaellite che
della critica sociale ispirata, fra gli altri, da Karl Marx, di cui fu uno
strano seguace. Il discorso sui prodotti dell’industria finiva con l’essere
perlomeno ambiguo e solo il richiamo solidarista operaio mitigava quel senso di
contrapposizione che era lecito dedurre. Alla solidarietà fra i lavoratori inneggiava
peraltro una nota illustrazione di Walter Crane, giovane collaboratore di
Morris i cui Cartoons for the cause costituirono una prima e raffinata
iconografia del movimento socialista. Oscar Wilde diceva che se l’industria
produce oggetti gli artisti producono bellezza. C’era dunque da rallegrarsi
avendo gli uni e l’altra. L’Art Nouveau rendeva d’altra parte
accessibili alle nuove moltitudini i suoi modelli ornamentali.
Agli architetti cominciò a non andare a genio proprio l’ornamento, che
a loro dire sporcava - quale totale giustapposizione alle sacrosante
destinazioni d’uso - la perfetta linearità consentita dai nuovi materiali edili.
Fu col tedesco Bauhaus che queste convinzioni assunsero il carattere di una
nuova dottrina internazionale. Ancorché molti degli artisti che insegnavano nella celebrata scuola,
specialmente fra i pittori, mostrassero nei fatti, se non nella teoria, una
spiccata inclinazione per la fantasia figurativa, la loro rimase una variante
gentile dell’evangelizzazione costruttivista che, non sazia degli edifici in
calcestruzzo, predicava, questa volta col materiale umano, il costruttivismo
sociale. Quando, dopo il 1945, si affacciò l’opportunità di riprenderne
l’insegnamento, il Bauhaus e i suoi vecchi membri godevano, a dispetto della
loro stessa visione totalitaria, del prestigio di chi era rimasto vittima del
regime nazional-socialista. La situazione era tuttavia assai mutata rispetto
all’anteguerra e consentiva meno di un tempo la mescolanza dei generi in forza
di un supposto comune attacco alle passate concezioni dell’arte e della vita.
Nel dispiegamento della potenza tecnica e militare degli stati moderni,
totalitari o meno che fossero, si prese a vedere la preoccupante essenza della
modernità. Filosofi diversi come Adorno e Heidegger rivolsero la loro pensosa
attenzione proprio ai fenomeni della tecnica, colpevoli di rimpicciolire
l’avventura dell’uomo mentre apparentemente ne estendevano le possibilità.
Il biasimo di Asger Jorn nei confronti delle tesi del nuovo Bauhaus di
Ulm diretto da Max Bill – che ormai rigettava l’immaginazione dei pittori -
sembrerebbe, a un esame superficiale, posto sotto lo stesso segno. Jorn,
tuttavia, regolava in larga misura il proprio pensiero, come tanti allora, sul
canone del “Diamat” sovietico. Nonostante le varie ed eterodosse esperienze –
compresa quella situazionista, alla quale restò vicino anche dopo le dimissioni
ufficiali – non rinnegò mai, fra l’altro, l’appartenenza al piccolo partito comunista
danese e simpatizzò con Fidel Castro. Ciò nondimeno è interessante considerare
le opportunità di fuga che Jorn teneva aperte nell’altrimenti chiuso sistema
del rito moscovita così da farne, nei fatti, un rivale che non si accontentava,
come succedeva a tanti artisti del tempo vicini al comunismo, di essere un
semplice critico del solo “realismo socialista”. La prossimità al Surrealismo e
l’affetto per la cultura popolare – si trattasse di arte e letteratura o delle
tradizioni scandinave – costituivano da sole un contrappeso efficace. Dal
primo, nelle sue irrigidite concrezioni, Jorn raccolse tuttavia non poca
contrarietà, proprio mentre tanti artisti, europei e americani, vi guardavano
ugualmente ispirati e con mezzi operativi non lontani dai suoi, a cominciare da
Jean Dubuffet che intorno al Surrealismo gravitò da giovane, quando il
movimento esordiva. Dalla seconda – ben lontano, per quanto a rischio di ambiguità,
da un’acclimatizzazione sovversiva del “sangue e suolo” della statolatria
nazista - Jorn trasse alimento per definire una sorta di ribellismo barbarico,
teorizzato attraverso l’Istituto del Vandalismo comparato, che, in una visione
nord europea, aveva affinità con le espressioni teoriche più violente dell’anticolonialismo,
quelle, per esser chiari, alla Franz Fanon (e alla lettura che di questi fornì
Sartre) ma dove ancora una volta si avvertiva il soffio surrealista e, perché
no, anche l’eco della condanna nietzchiana a Socrate per aver tentato di
addomesticare con la logica il senso dionisiaco della vita. In effetti, ciò che
poneva Jorn su un tragitto eccentrico rispetto alle sue stesse professioni di
fede, era la vitale effusione di spontaneità – e la riflessione sulla stessa in rapporto a faccende e cose - che rendeva
manifesta ben più là del gestualismo pittorico di moda all’epoca e per il quale
sarà ricordato nelle storie dell’arte, sicché la stessa nozione di “artista
sperimentale” che si sovrapponeva a quella “d’avanguardia” voleva indicare
prima di tutto sperimentazione di soluzioni esistenziali. Perlomeno a partire
dalla configurazione del MIBI (Movimento Internazionale per un Bauhaus
Immaginista), la sua critica al funzionalismo della scuola di Ulm e a Max Bill
sarà caratterizzata non a caso dall’affermazione di elementi come l’inutile e
l’insensato.
Dall’abboccamento di Pinot Gallizio e Piero Simondo, che porterà alla
creazione del Laboratorio sperimentale di Alba, scaturirà poi una componente
che, apparentemente incongrua alle
premesse, non è altrimenti definibile
che “pedagogica”. Ma tale pedagogia si fondava sul parametro della
generalizzazione dell’arte e, più ancora, dell’artista. Se dell’una si mostra
la facilità, dall’altro discende l’occasione
di spandere ciò che la società sembra concedergli come privilegio. La
successiva “pittura industriale” di Gallizio viene da lì, benché a questo
riguardo sia stato fin troppo trascurato il contributo di Simondo, in una
sottovalutazione che deriva da un vizio interpretativo focalizzato sulle
posteriori vicende dell’Internazionale Situazionista, dalla quale Simondo sarà
precocemente escluso e della quale, più tardi, come “persona a conoscenza dei
fatti”, traccerà una salutare demistificazione del leggendario atto fondativo,
essendo avvenuto nel suo paese e a casa sua durante un incontro diversamente
giustificato.
Se è facile seguire in questa vicenda la vicenda dell’arte, e non solo,
del XX secolo - con le tentazioni alle quali cedette in un groviglio che risale
ai tempi dell’estetismo e, ancor prima,
del romanticismo - raccogliere un
insieme di testi che concernono l’esperienza del MIBI serve a rivendicarne la
singolarità rispetto alle letture che relegano, in maniera alquanto
superficiale, la sua vicenda in un contesto di transizione, una sorta di “stato
nascente” di cui per giunta sarebbe solo un frammento. E questo è un indubbio
merito della presente antologia.