Luca Gallesi
Pound/Joyce rivisitati?
“Ezra Pound è nato a Hailey, Idaho, nel 1885 e morto a Venezia
nel 1972”. Questo laconico epitaffio è tutto quello che troviamo, nel risvolto
di copertina, sull’autore del volume Lettere
a James Joyce, (il Saggiatore pp 474 €45), nuova
edizione del classico curato da Forrest Read a metà degli anni Sessanta, e già
pubblicato in Italia, nella traduzione di Ruggero Bianchi, da Rizzoli nel 1969
e da SE nel 1989.
Scelta provocatoria, ma, forse, azzeccata, visto
che aggiungere soltanto qualcosa sulla vita di Pound
non sarebbe stato sufficiente, e parlare di tutto non sarebbe stato possibile.
Peccato che, invece, nella prefazione l’anglista Enrico Terrinoni
scelga di ricordare gli aspetti più banali e meno letterari di Pound, ovvero le sue idee politiche, ricalcando
superficialmente i più triti luoghi comuni sul Pound
“in preda a evidente confusione”, anche se, bontà sua, “in buona fede”.
Fortunatamente, il curatore dell’edizione
originale, Forrest Read, non si perde in bagatelle politicamente corrette e ci
fornisce il giusto inquadramento per comprendere e apprezzare la fruttuosa
amicizia tra due giganti della letteratura del Novecento. Di Pound viene immediatamente messa a fuoco la generosa
personalità di un fervido e appassionato educatore che riesce a correggere un
mostro sacro come Yeats e a promuovere giovani come Hemingway, Eliot e,
appunto, Joyce, tutti curati, corretti e sostenuti instancabilmente dal
vigoroso entusiasmo di Pound. Leggendo queste Lettere a James Joyce vediamo che Pound, alla missione di operatore culturale, sacrificò
tempo ed energie a scapito della sua stessa opera, i Cantos, perché “i grandi scrittori di ogni epoca devono essere le
menti notevoli dei quell’epoca; devono conoscere gli estremi del loro tempo”, e
devono conoscersi, frequentarsi, aiutarsi.
Come emerge da questo volume, tutte le
preoccupazioni di Pound sono per il lavoro di Joyce,
così come lo erano anche per quello di Eliot, autori che solo grazie all’aiuto,
anche economico, di Pound hanno potuto legare il
proprio nome a capolavori come la Waste
Land e l’Ulisse. Con loro, Pound non si stancò mai di insistere sull’essenza della
letteratura, che deve essere precisa, riguardare la realtà, ed essere letta con
piacere. “La consapevolezza del presente –scrive Pound
nel 1933- è senza alcun dubbio parte dell’equipaggiamento di un grande
scrittore”.
Dunque, al diavolo i moralismi d’accatto dei
censori che si accanirono sull’Ulisse:
“E può mai essere che il resoconto epocale sullo stato della coscienza umana
del XX secolo dovrebbe essere falsificato con l’omissione di una mezza dozzina
di parole che qualsiasi ragazzino ha visto scritte sulle pareti di un bagno?”
Dato che “un grande capolavoro letterario è fatto per menti serie quanto quelle
impegnate nella scienza medica”, lo scrittore deve essere consapevole della sua
enorme responsabilità: “Noi siamo governati dalle parole, le leggi sono parole
scolpite, e la letteratura è il solo mezzo di lasciare vive e precise queste
parole”. Questo, e non i banali luoghi comuni sulla presunta pazzia di Pound, è il nocciolo della sua visione del mondo, che fu
organica alla sua poetica, e diretta a cogliere, quando non a costruire,
l’armonia del mondo.
E, riguardo il Pound
“politico”, che ancora tanto scandalo suscita tra i benpensanti, vale la pena
di soffermarsi sull’ultimo contributo del volume, il commovente ricordo alla
memoria di Joyce trasmesso da Pound dalle frequenze
di Radio Roma e pubblicato nel 1948 dalla compagna di Pound,
Olga Rudge, in un volumetto significativamente
intitolato If This Be Treason…
A proposito, peccato non aver corretto, in
questa nuova e ben curata versione, gli errori dell’edizione originale, come,
ad esempio, la data della resa del poeta alle forze americane, che non avvenne
nel 1944 (p.368) ma il 3 maggio 1945; il manicomio criminale in cui fu detenuto
Pound era il St Elizabeths
(senza apostrofo); i radiodiscorsi non sono più solo
disponibili alla Library of Congress (p. 447) ma sono
stati pubblicati nel 1978, a cura di Leonard Doob con
il titolo di “Ezra Pound
Speaking” (Greenwood Press), e altre
imprecisioni, giustificabili nell’edizione originale del 1967, un po’ meno dopo
mezzo secolo.
Tornando al radiodiscorso
dedicato al ricordo di Joyce, l’autore dei Cantos ripercorre brevemente la
loro amicizia, nata quando, “un giorno d’inverno del 1912 o giù di lì a Stone
Cottage nel Sussex chiesi a Yeats se ci fossero dei poeti in Irlanda che
potessero contribuire a un’antologia di poesia diversa dalla sua. Essendo,
allora, Joyce l’unico scrittore non immerso nel Crepuscolo Celtico, gli chiesi il permesso di usare la sua poesia”,
e così nacque un proficuo rapporto di amicizia e letteratura, che durò, con
entusiasmo calante nell’ultima fase, fino alla morte dell’irlandese. Deluso da Finnegan’s Wake, Pound
non gli lesinò le critiche, anche se ammise che “un uomo che ha scritto tre
capolavori ha diritto alla sperimentazione. Non c’è ragione di bloccare il
traffico. Con Gente di Dublino e il Ritratto e Ulisse, la posizione di Joyce è sicura.”
Il punto che Pound
vuole sottolineare, in barba ai critici definiti “becchini”, è che un
capolavoro letterario non è “un crocifisso in una cappella o un sacco pieno d’ossa da venerare”,
ma una sorgente di vita, e di divertimento. Ulisse,
prosegue Pound, “non venne scritto per privare la
gente della voglia di vivere. E Joyce
non aveva questa abitudine nemmeno in privato(…) Possa
il suo spirito incontrarsi con quello di Rabelais a Chinon
e possano i bicchieri non essere mai vuoti”.
Alla faccia di tutti i moralisti, i tiepidi e i politicamente corretti
che Pound non avrebbe sicuramente frequentato, e di
tutti i salotti letterari nei quali non avrebbe mai messo piede per non
sporcarsi.