Si è tenuta a Canelli (7/10 - 20/11 del 2.000), sulla base del fondo conservato presso il Civico Museo dell'Attore di Genova, una vasta rassegna delle scenografie teatrali di Gianni Polidori curata dalla Fondazione Eugenio Guglielminetti di Asti. Il relativo catalogo è pubblicato da Lindau col titolo: Gianni Polidori scenografo e pittore. Il ricordo posto in questa pagina è stato chiesto a Carlo Romano da Sandro Ricaldone, redattore di "Hozro", sede della collocazione originaria.
Carlo Romano
Gianni Polidori
Conobbi Polidori in libreria. Erano gli anni ottanta, facevo, con mio fratello, il libraio. Delle tante persone che si incontrano nel fare il negoziante poche restano poi veramente amiche. Non più di quelle che si sarebbero potute conquistare altrimenti. L'amicizia è anche un impegno e troppi impegni non si possono prendere, non ci si riesce materialmente. Non bastano il calore degli incontri o la provvidenzialità dei soccorsi, quando occorrono, a fare l'amico. Nell'amicizia ci si sceglie come nell'amore, forse con minor determinazione, ma in modo analogo. In libreria Polidori veniva dapprima in compagnia di Lele Luzzati, più per chiudere un incontro -una passeggiata, uno scambio di idee- che, mi sembrava, per iniziarlo. Con mio fratello si intese quasi subito. Io lo trovavo invece francamente antipatico e permaloso all'eccesso. Ero ancora giovane e, credo, abbastanza attrezzato come senso dell'umorismo, ma incedevo volentieri al sarcasmo e capitava, a volte -senza venir mai del tutto meno alla gentilezza- di essere pesante. Con Polidori tuttavia non era mai accaduto, eppure lo vedevo, a un minimo accenno di conversazione, ritrarsi come fosse indignato. Poi lo vidi capitare da solo e sempre più frequentemente. Si era inserito piano piano nelle ordinarie facezie che accompagnano, rendendola più sopportabile, l'attività di negozio, la quale costa più fatica di quello che comunemente si crede. Dovetti allora constatare che se io non avevo contato su di lui, lui, viceversa, mi aveva scelto. In questi casi o si cerca quanto più elegantemente di sottrarsi, o si scappa senza mezzi termini, o si cede. A questo punto cedere non mi fu difficile poiché avevo ormai capito quanto Polidori -come me, ma con diverse strategie di camuffamento- fosse in realtà timido e non altezzoso come dapprima mi era apparso. Arrossiva spesso, anche se non era facile rendersene conto dietro il viso abbronzato. Senza la più schietta opportunità di aggancio colta da mio fratello, dubito tuttavia che saremmo mai diventati amici.
Polidori non possedeva in alcun grado i tic più tipici dell'artista o dell'intellettuale. Aveva piuttosto l'aria di un artigiano. Portava perennemente -avesse o meno la giacca- la camicia fuori dai pantaloni come fosse la cappa da lavoro. Nelle situazioni più "ufficiali" si limitava a sostituire la quotidiana camicia a scacchi con una bianca. A mia impressione non c'era niente di snobistico in questo né, credo, volesse scimmiottare la tuta di Bertolt Brecht per rendere manifesta un'immaginaria appartenenza al proletariato. Se aveva degli snobismi, non era affatto uno snob. Il particolare della camicia non pregiudicava, in ogni caso, l'aspetto ordinato che, anzi, curava. Teneva in modo particolare alle scarpe, cosa che l'esperienza mi fa credere sia comune a tutti coloro che intendono mandare un segnale di buon gusto a dispetto di un'apparenza perfino scialba.
Amava Genova e in modo struggente, cosa quasi incredibile per un romano. Polidori era un malinconico, e questo spiega forse la ragione di un affetto che non aveva paragone con altre città che conosceva bene, con Roma stessa. Gli piaceva addirittura la strada dove abitava, via Burlando. Amava anche la poesia, ma non erano di sicuro i sedimenti sbarbariani presenti sotto casa a fargliela apprezzare. Nemmeno credo che prestasse attenzione, lui scenografo con studi artistici alle spalle, all'edificio religioso progettato da Ludovico Quaroni (uno dei più interessanti del novecento, a mio parere) che gli bastava raggiungere scendendo le scale. Un genovese di vecchia data riesce forse ancora ad indovinare, dietro le offese urbanistiche e architettoniche al paesaggio, qualcosa degli antichi orti meticolosamente divisi che c'erano prima dei palazzoni, quell'aspetto di grande giardino ornato di case coi tetti grigi che impressionava i viaggiatori di una volta al pari dei marmi e delle ardesie copiosamente distribuiti. Che ci riesca un romano è quasi impensabile. Polidori ci doveva essere riuscito, ma ne parlava con umiltà, come un forestiero che dovesse pazientemente essere guidato in tutto ciò che aveva in realtà capito da solo. Parlava invece con entusiasmo (e non era facile a lasciarsi andare) dell'insolito appuntamento che aveva con una famiglia di gabbiani. A una certa ora del giorno, senza che il cielo fosse attraversato da un insetto, gli bastava mettere la mano fuori dalla finestra perché apparisse all'improvviso un gruppo di volatili. Gli lanciava degli avanzi di cibo. Diceva che niente toccava mai terra. Una cosa del genere, stando al racconto che ne faceva, io l'avrei buttata sulla superstizione, ne avrei fatto più un argomento di magia che di compassione, ancorché gli animali mi stiano a cuore. In lui era invece uno dei rari momenti nei quali l'esaltazione della vita prendeva il sopravvento sulla malinconia. Ma anche questo, a ben guardare, era un modo malinconico di dimostrarlo.
Il suo lavoro lo raccontava con un misto di partecipazione e di distacco. Benché avesse studiato scenografia all'Accademia di Belle Arti, e con tutte le cose importanti che aveva realizzato, non so dire fino a che punto si sentisse "scenografo". Nemmeno so fino a che punto amasse veramente il teatro. Di sicuro non lo appassionava o, perlomeno, non lo appassionava più. Diverso il caso del cinema. Polidori aveva curiosità per tutte le novità tecnologiche e per gli uomini della sua generazione il cinema lo era ancora. A Genova frequentava abbastanza assiduamente un negozio che trattava questo genere di novità e non mascherava la sua contentezza per essere entrato nelle grazie dei suoi conduttori. A noi non esitava di confidare i progressi che otteneva applicandosi -si dice molto segretamente- a un progetto di spettacolo puramente oggettuale che aveva filmato. Aveva composto anche le musiche. Di questa sperimentazione ci è rimasta, a me e a mio fratello, la tastiera elettronica con la quale le aveva coraggiosamente elaborate. Della musica era più che altro un buon ascoltatore, e se anche naturalmente un po' fissato su quel jazz che la sua generazione aveva vissuto come una redenzione, accettava di buon grado di farsi trascinare in altre regioni dell'udito.
Polidori non era attratto dalle conversazioni di carattere schiettamente speculativo (pochi, in effetti, lo sono) e sfuggiva a qualsiasi sentore di inflessione dottrinale. Dava l'idea di accettare le gerarchie estetico-artistiche così come una certa tradizione gliele aveva trasmesse, senza metterle mai apertamente in discussione. Nei fatti le sue vedute erano più ampie di quello che sembrava ammettere. Quando, soprattutto con mio fratello, si parlava di cinema, in particolare del suo, evitava di gigioneggiarsi coi nomi di Antonioni e Visconti, attraverso i quali, solo quelli, si tende ancora ad avvalorare la qualità del suo contributo. Da parte nostra, viceversa, si esprimeva -senza pregiudizi ma anche senza alcuna concessione al conformismo degli intramontabili cultori del "cinema d'arte"- più d'una riserva nei confronti dei due registi. Apprezzava tuttavia che dicessimo bene de I vinti di Antonioni -che ritengo essere uno dei rari film veramente intrinseci alla realtà giovanile del dopoguerra- benché all'episodio più costruito, quello inglese, Polidori non avesse messo mano. Se comunque poteva andar fiero, giustamente, del Bellissima di Visconti, trattava con eguale rispetto Mio figlio Nerone di Steno o Maciste contro il vampiro di Gentilomo. Mio fratello lo stupì nell'esaltazione di un film allora per niente discusso (ma non è che le cose siano granché cambiate) e sotto vari aspetti eccezionale: Un ettaro di cielo di Aglauco Casadio. Quest'unica prova registica di un poeta ignorato dalle enciclopedie della letteratura, tentava di dar corpo ai più quotidiani sentimenti poetici in una chiave surreal-popolare piuttosto originale rispetto agli stessi modelli zavattiniani. E ci riusciva (Casadio lo aveva sceneggiato insieme a Petri, Flaiano e Guerra) . E', per altro, uno dei pochi film nei quali Marcello Mastroianni mi paia assolutamente adeguato al suo compito d'attore. Ciò di cui Polidori mostrava di parlar più volentieri era però la sua collaborazione a Il disco volante di Tinto Brass. Negli ultimi tempi, assai attivo con la fotocopiatrice, aveva foggiato un fascicolo che corrispondeva a una sorta di contraffazione di vecchi quaderni di lavoro relativi al film. Vi aveva inserito anche un richiamo alle nostre celie di libreria, da lui vissute con molta cautela.
A volte sembrava voler dire di aver intrapreso la sua carriera di scenografo, non importa se brillante, a scapito di inclinazioni più elevate quali probabilmente riteneva fossero la pittura e la poesia. In pittura, per quello che ne so e per quello che ho visto, era patente l'influenza di Corrado Cagli, affermata del resto con orgoglio. Tuttavia, anche in questo campo incedeva volentieri a misurarsi con tecniche disparate. Della "poesia visiva", ad esempio, non sapeva molto -nel senso che non era interessato agli aspetti agitatori di chi la faceva- ma ricordo di aver osservato in casa sua alcuni quadri, pochi e suggestivi, del tutto pertinenti al meglio del genere, risolto però in una chiave di disperata espressività. Nel suo periodo di irrequieta attività con la fotocopiatrice si era dato inoltre a produrre numerose cartoline che spediva agli amici, ma fu reticente a inserirsi nei circuiti della "mail-art", i soli che avrebbero potuto veramente assorbire per intero la smania del momento, tanto era pressante. Appassionato di letteratura, specialmente di poesia, si avvicinava alle nuove letture quasi per caso, tralasciando di impegolarsi -come fanno in genere i cultori- nei tragitti disegnati dalle piccole rivistine di tendenza. Da giovane aveva fatto l'editore con nessuna altra soddisfazione che quella di farlo. Fu il primo editore della Storia della poesia ceca di Ripellino, del quale era buon amico. Le sue "edizioni d'Argo" pubblicavano delle cartelle in fogli sciolti che alternavano il testo a tavole firmate di tiratura limitata. Doveva pubblicare una cartella del genere a Charles Olson, ma non mi è chiaro se l'abbia poi fatto. Polidori mi regalò un messaggio del poeta americano frettolosamente scritto quarant'anni prima sulla carta intestata di un albergo romano. Olson, che stava partendo, si riprometteva di parlare in seguito del progetto. Ho letto che il libro si fece, ma dovrei vederlo per convincermene.
A un certo punto, fra mille dubbi, decise di tornare a Roma. Diceva che si sentiva invecchiare e gli avrebbe fatto piacere stare vicino alla famiglia. A niente valsero le rassicurazioni di mutua assistenza degli amici. Evidentemente, per quanto lontano da numerosi anni, continuava a sentire la moglie e le figlie come qualcosa di insostituibile. Mi viene in mente che quando in libreria ci si lasciava andare nei triti quanto scurrili apprezzamenti relativi al sesso femminile, lui si sbilanciasse poco, con al massimo un generico "bella donna". Questa sua riservatezza più che da un assurdo timore della volgarità doveva dunque essere dettata da una forma di rispetto nei confronti delle donne di famiglia. Nella sua decisione di lasciare Genova, nonostante la determinazione, ebbe anche molto tatto con gli amici, evitando per quanto più gli era possibile, che si sentissero traditi. A noi telefonava tutte le settimane, fino alla fine, e ci faceva chiaramente capire come gli mancassimo. Quando morì scoprimmo che aveva da tempo dettato l'estremo saluto affinché fosse pubblicato sui giornali romani e genovesi.