Riproduciamo di seguito il testo
integrale di un fascicolo della serie “ Le Grandi Films” (sic) della
Gloriosa-casa editrice italiana. La collana proponeva, secondo un costume
invalso nell’editoria popolare, i soggetti di film famosi riscritti per
l’occasione. Vi comparve, per esempio, anche il racconto de La grande
parata di King Vidor. Nel caso qui
proposto,, del 1927, si tratta di una riscrittura (anche nel nome) del Nosferatu diretto da Murnau: L’autore, sicuramente
italiano, malgrado il nome slavizzante, scrisse per la stessa collana anche
altri testi, fra gli altri quello ispirato a Il Figlio dello sceicco. Alla
casa editrice Gloriosa si deve il prototipo del settimanale popolare di
informazione cinematografica, “Cine-Cinema”, che cominciò a uscire nel 1924.
Ivan Pissilenko
lo spettro della Morte Nera. Romanzo-film. Mosferatu,
il Vampiro
Durante
il soggiorno di due mesi che noi facemmo nelle montagne dei Carpazi nel 1904 entrammo
una sera in casa di una vecchia contadina che volle volentieri darci ospitalità
e servirci una generosa cena.
Era
una donna intelligente, sapiente assai più che la maggior parte del popolo di
quelle contrade e, che, alla fine della giornata, si mise a parlare dei ricordi
della sua giovinezza e dell’epidemia della peste che devastò Wisborg
nell’agosto 1838.
La
nostra raccontatrice aveva 8 anni a quell’epoca, ma la sua memoria era precisa.
E di più se ne era parlato così spesso da allora, che non vi era un dettaglio,
di quel terribile anno che ella non conoscesse.
La
notte era assai avanzata quand’ella tacque, l’indomani mattina noi partimmo per
Wisborg…, ove trovammo negli archivi della vita della città la conferma della
storia della contadina.
Così
ella non aveva mentito, lo spaventoso racconto che ci aveva fatto stare attenti
in ogni punto. Noi ritornammo alla sua umile dimora e, fiera della nostra
confidenza, ella volle prometterci, che, poiché noi ci interessavamo a questo
antico avvenimento, ella ci darebbe un giorno conoscenza di un libro prezioso
che aveva nelle mani e che raccontava tutte le circostanze bizzarre di cui fu
circondata l’epidemia del 1838 a Wisborg.
Passati
degli anni, noi non pensavamo più quasi alla contadina dei Carpazi quando, alla
fine del 1920, ricevemmo per posta un quaderno di 250 pagine che ci era stato
indirizzato dagli eredi della povera donna, la quale, nei suoi ultimi momenti
non aveva dimenticato la sua promessa e così noi siamo venuti in possesso del
giornale di «Giovanni Hutter», cittadino di Wisborg, ammogliato in questa città
nel 1836 e che morì nel 1850 a Balatz in una casa di pazzi.
Ma
il documento che noi abbiamo pubblicato è stato scritto nel tempo in cui
Giovanni Hutter era in possesso delle sue facoltà. Era, lo si vedrà, un giovane
di una rara intelligenza per cui il quaderno di note potrebbe apparire scritto
da Hoffmann se non avesse avuto bisogno di immaginazione per essere un
terrificante novelliere.
Giovanni
Hutter era un letterato; egli aveva preso i suoi titoli all’università
Angosbarre ed egli ha lasciato dei lavori sulla storia della riforma a Vienna e
sulla biblioteca del castello Wittelsbach che godono d’una certa autorità
presso gli specialisti della storia religiosa e di bibliografia.
Giornale di Giovanni Hutter. Febbraio
1838.
Io
non ho ripreso il mio Giornale dopo il mio matrimonio. Perché? Io non ne so
niente; forse perché sono stato troppo felice; la felicità non ha bisogno di
esprimersi. Il fatto che mi rimetto a notare ciò che passa in torno a me e in
me, non implica per altro che io sia infelice ora; ma confesso che da qualche
tempo temo che la salute della mia donna sia causa di certi avvenimenti che mi
preoccupano, ed io ho la sensazione che a scrivere giorno per giorno i miei
ricordi porterà gran sollievo al mio spirito. Elena, la mia donna, è la
creatura più squisita che si possa vedere. Ella ha 24 anni, io ne ho 30 non si
potrebbe essere meglio assortiti; ella non ha più né suo padre né sua madre,
noi viviamo qui presso mia cognata e mio cognato, siamo la famiglia più unita
che sia al mondo. Mai una dispiacenza, Elena ed io non abbiamo mai scambiato
una parola vivace. Tuttavia, io osservo qualche cambiamento nella nostra
intimità, Elena, da un anno è divenuta particolarmente nervosa, è spesso
ammalata, si lamenta di soffrire alla testa, piange qualche volta senza
ragione, e tutte le parole che io posso trovare per consolarla non servono a
niente.
Che
avviene? Ho consultato parecchie volte il mio amico il dottor Bulwer. Egli mi
ha detto che questo stato nervoso è forse dovuto alla stanchezza del viaggio
che facemmo or sono dieci mesi nei Carpazi, e che fu assai movimentato.
Egli
ha ordinata che Elena resti lungamente coricata, che abbia una vita
regolarissima e che legga il più poco possibile. Ella seguì le prescrizioni di
Bulwer con cura; io stesso prendo le più grandi precauzioni perché non si
allontani dal suo regime, ma debbo constatare che non va meglio. L’impedimento
di leggere è assai incomodo. Ecco una donna che è sola, una parte della
giornata; mio cognato è impiegato alla dogana del porto, mia cognata si occupa
delle cure della casa, io vado tutto il giorno per parecchie ore dal mio
padrone anche e mi occupo degli affari più dissimili.
Quand’ella
non ha nessuno vicino od è distesa su di un divano o sul suo letto, si distrae
con dei libri. Ed è ben naturale.
Ma
confesso che queste letture hanno un carattere particolare.
Io
la sapevo romantica, amante molto dei lavori di immaginazione, ma ignoravo che
ella si interessasse da giovane delle storie di superstizione e delle cose di
cabala. Sono stato stupefatto di trovare fra le sue mani il libro del
«Vampiro»; ciò non è adatto per rimetterla di spirito. Le ho interdetto di
continuare a leggere questo volume ma sono sicuro, che, come i fanciulli, lo
finirà di leggere di nascosto.
Insomma
tutto ciò non è molto grave ed io non mi inquieterò oltre misura, per non
creare nella nostra casa, già così piacevole un’atmosfera un po’ soffocante.
Prima desideravo tanto di restare nella mia casa il più lungo possibile ora
provo qualche volta del piacere ad uscirne; passeggio lungo il fiume, respiro
l’aria imbalsamata della notte, mi sento vivere.
Questa
sera sono stato a fare un giro davanti la grande casa abbandonata che è
dall’altra parte del fiume in faccia alla nostra casa; che magnifico
fabbricato, e che peccato non lo utilizzino.
È
meravigliosamente romantico; si sentono gridare le civette, «che bel poema
potrei scrivere lassù, e fossi ancora poeta come a 20 anni ».
28 febbraio 1838.
Ho
portato questa mattina dei fiori ad Elena. Erano delle rose state imbarcate da
qualche settimana a Costantinopoli, conservate intatte per un processo
scientifico che ignoro, ho un mio amico che me le ha donate e naturalmente io
ne ho fatto regalo alla mia amata.
Come
ella le ha viste si è messa a singhiozzare. «Perché, mi ha detto, avete ucciso
questi fiori?».
Io
confesso che non ho capito sull’istante.
«Come
uccisi?» le chiedo.
«Sì,
essi sono pallidi: chi dunque ha bevuto il loro sangue?».
Le
ho spiegato che erano delle rose bianche e che era precisamente il loro colore
lattiginoso che ne faceva tutto il pregio. Io ho avuto un bel dirle che essi
erano sbocciati senza dubbio nel giardino di qualche califfo d’Anatolia che
forse anche venivano da Bagdad, paese delle rose; le ho raccontato che erano
forse state baciate dalle labbra dei sultani. Ma tutta questa poesia è stata
inutile, Elena continuò a piangere ed a gemere.
«Hanno
ucciso questi fiori, perché hanno ucciso questi fiori, chi ha dunque bevuto il
sangue di questi fiori?».
Ha
avuto anche una crisi di nervi. Sono stato obbligato a chiamare Bulwer che l’ha
calmata un poco ma io ho profittato per dire a questo vecchio amico che Elena leggeva
il libro dei Vampiri e che egli dovrebbe interdirglielo, ciò che ha fatto.
«Non dubitarne», m’ha detto il dottore, «è quel libro
che le ha ispirato la riflessione “chi dunque ha bevuto il sangue dei
fiori?”…». Infatti ha aperto il volume e vi ha trovato delle cose che
colpirebbero lo spirito meno suscettibile di lasciarsi prendere dalla
superstizione; vi ha letto che un vampiro che si nutrisce del sangue degli
uomini, potrebbe vivere in una bara ripiena di terra maledetta; la terra del
campo della morte nera; che era da quella terra che i vampiri ritraevano le
loro forze ed altre frottole del genere. Evidentemente ciò a me non fa niente;
ma comprendo che una donna ne sia assai impressionata.
Vi
sono pure degli uomini che si lasciano prendere.
Il mio
padrone, signor Ruok, crede, duro come ferro, all’esistenza dei vampiri ed io
non posso mai parlargli di questo soggetto perché so che discuteremmo
vivacemente.
Mio
Dio vi è dunque del male a viver tranquilli? Vi è bisogno di fasciarsi in testa
delle storie così penose?
23 febbraio 1838.
Cinque
giorni che non ho potuto scrivere sul mio giornale, per tanto sono passati
degli avvenimenti che meritano di essere notati.
Innanzi
tutto Elena va meglio, ella ha ripreso un po’ d’allegria; mentre io sono a tracciare
queste righe la sento ridere con sua sorella nel salottino dove chiacchierano
tutte e due. Vado a fare un ben curioso viaggio. Non me lo aspettavo affatto
ieri mattina, essere obbligato ad andarmene così presto.
Quando
sono arrivato allo studio quel giorno il signor Ruok mi ha fatto dire che mi
aspettava con impazienza.
Poiché
io non sono molto puntuale avevo paura che fosse per farmi delle osservazioni,
ma niente di tutto ciò, noi avemmo insieme questo dialogo:
«Buon
giorno signor Hutter!».
«Buon
giorno signor Ruok».
«Come
sta la signora Hutter?».
«Molto
meglio, vi ringrazio».
Si
interessa sempre ai libri cabalistici?».
«No,
signor Ruok, il suo medico glielo ha vietati».
Il
signor Ruok passò la mano sul suo cranio calvo che due piccoli ciuffi di peli
ornano al disopra delle orecchie, mi guardò con occhio malizioso e mi disse:
«Signor
Hutter tutti i medici sono degli asini».
«Io
stimo, al contrario, che il mio amico Bulwer ha agito benissimo nella
circostanza, impedendo alla mia donna di riempirsi la testa con spaventosi
racconti».
È
che la signora Hutter non possiede a perfezione la scienza. Evidentemente il
primo contatto dei misteri sono sempre penosi, ma appresso mio caro amico
Hutter che soddisfazioni e che gioie…».
«Voi
credete?».
«Ci
si sente maestro del mondo».
«Ci
si sente maestro del mondo qualche volta?».
«Qualche
volta».
Egli
continuò a guardarmi coi suoi occhi inquietanti come sono spesso, e bruscamente
esclamò:
«Io
conosco il maestro dei maestri. È un uomo formidabile… È il mio Dio… Per lui io
andrei all’estremo del mondo, per lui io morrei, se bisognasse…Egli è…».
Ma
si arrestò di colpo. Io rispettai il suo mutismo. Fu lui che riprese la parola.
«A
proposito, signor Hutter» fece egli, «amate voi i viaggi?».
«Ciò
è notorio».
«Intendo,
amereste andare… Allontanarvi da casa vostra?».
«Se
bisognasse, certo…».
«Avete
bisogno di denaro?».
«Non
sono ricco».
«Allora se voi non siete ricco e se non vi ripugna
lasciare Wisborg per qualche tempo, io ho un affare da proporvi».
«Un
affare?».
«Sì,
è magnifico».
«Dite
subito».
«Adagio,
signor Hutter, è assai delicato ed io non so se voi siete uomo d’avventurarvi
là ove io voglio mandarvi».
«Parlate
signor Ruok, vedrò».
Egli
mi fece sedere al suo fianco e mi spiegò:
«Conoscete
il conte Horlok?».
«No
signor Ruok».
«Ne
siete sicuro?».
«Io
ho un bel cercare, non mi ricordo di aver inteso pronunziare questo nome».
«Tanto
meglio, è per tanto quello di un personaggio illustre. Egli abita nelle foreste
di Transilvania e possiede uno dei più vasti domini di questo paese. Io sono in
relazioni con lui».
«È
la prima volta che vi sento parlare di questo conte».
«Forse».
«Ed
è questo conte Horlok che bisognerebbe andare a vedere?».
«Sì».
«Perché?».
«Ebbene,
ecco, egli desidererebbe acquistare una casa in rovina».
«Una
casa in rovina, quale idea!».
«Egli
fa ciò che gli piace, non è questa la questione, signor Hutter. Io dicevo
dunque che egli desidererebbe acquistare una casa in rovina e questa casa è
quella che si trova in faccia alla vostra».
«Voi
dite quella per farmi un esempio!».
«Ciò
vi sorprende?».
In
effetto non avevo potuto nascondere la mia sorpresa poiché questa dimora mi è
sempre parsa straordinaria ed ho sempre pensato e, credo di averlo notato, che
bisognerebbe che un signore abitasse là per rimetterla in buono stato e per
darvi delle feste splendide.
«Ciò
mi sorprende sì e no. Non è da oggi che questa casa bizzarra mi sembrava degna di
un originale, poiché non dubito ora che il vostro cliente, il conte Horlok sia
un originale…».
«Senza
dubbio, signor Hutter, il conte Horlok non è un uomo come tutti. Allora voi lo
vedrete se volete accettare la missione che io voglio affidarvi».
«Da ora
m’interessa».
Il
signor Ruok si fregò le mani.
«Allora»,
egli mi disse, «voi partirete il più presto possibile per il paese dei
fantasmi».
Sussultai…
«Volete
ridere?».
Il
signor Ruok non aveva questa intenzione e lo fecero ben vedere i suoi occhi lampeggianti
e la sua voce gridò:
«Che
vi è di ridicolo in ciò? E credete voi che mi permetta delle facezie quando si
tratta del conte Horlok?».
«Vi
domando perdono».
«Parlo
seriamente, il luogo ove risiede il conte si chiama in tutta la regione paese dei
fantasmi».
«Per
quale ragione?».
«Io
non ho bisogno di dirvelo, è un fatto.
Il
suo castello che è uno dei più belli e più antichi della Transilvania ha presso
i contadini dei dintorni reputazione di stranezza; il paese dei fantasmi è
evidentemente poco frequentato dai viaggiatori, ma voi non andate là per vostro
piacere, voi vi andate ve l’ho detto per fare un affare».
«Perché
dovrei prendermela?».
«Ditemi
dapprima, volete proprio andarvi?».
Ho riflettuto un secondo, non sono di quelli che si
lasciano intimidire dalle proposte volontariamente misteriose del loro
interlocutore.
Bisognava
che mi arrischiassi nel paese dei fantasmi. Perché in quel paese piuttosto che
in un altro? No è forse la stessa cosa?
«È
inteso, accetto signor Ruok».
Egli
parve soddisfatto:
«Quando
voi sarete laggiù vedrete il conte, gli darete il piano della casa che io vi
rimetto; gli farete firmare questa carta che l’impegna a pagare una somma, per
la quale vi dibatterete».
«Quale
somma debbo domandare?».
«50
mila corone».
«È
caro!».
«Ciò
non ha importanza signor Hutter. Il conte pagherà ciò che si vorrà. Io posso
anche assicurarvi che se voi domanderete 5, 10, 15 mila corone di più egli ve
le darà e voi li serberete per voi…».
«Oh!
Oh!».
«Non
ho ragione di dirvi che è un eccellente affare?».
«Sì».
«Dunque
è inteso».
«Quando
partite?».
«Quando
volete che io parta?».
«Questa
sera, se voi potete».
«No,
è un po’ presto».
«È
urgente…».
«Intendo
bene signor Ruok, ma bisogna che io prevenga mia moglie, e faccia il mio bagaglio».
«Se
vi sollecito, è per il vostro interesse».
«Quanti
giorni bisognano per andare laggiù?».
«Due
giorni di vettura fino al paese dei fantasmi, e io penso una mezza giornata di
marcia dopo».
«Di
modo che potrei essere di ritorno…».
«Fra
otto giorni».
«Ebbene
partirò dopodomani».
Il
signor Ruok mi ha stretto la mano con effusione, mi ha ripetuto per due volte:
«Abbiate
coraggio, viaggiatore del paese dei fantasmi».
Ma
io credo che era per impressionarmi.
Mi
affanno perché non ho detto niente a casa mia, ma non ho l’intenzione di
raccontare ad Elena che io me ne vado al paese dei fantasmi. Ciò la
spaventerebbe certamente, ed ella non ha bisogno di ciò.
25 febbraio: Albergo di Wele, 11 ore
di sera.
Io
non so ciò che scrivo; confesso che sono turbatissimo, ciò non è niente, avrò
ritrovato il mio spirito tra un’ora quando avrò messo sulla carta tutto ciò che
mi bolle nella testa.
Riprendiamo
da principio altrimenti non mi ci ritroverei…
Ho
lasciato Wisborg questa mattina alle una e mezza, faceva appena giorno.
Gli
addii di Elena sono stati penosi ed io credo che ciò ha contribuito a scuoterle
i nervi.
Le
ho annunziato il mio viaggio ieri, le ho detto che partivo per un affare
importantissimo, che si trattava della vendita della casa di faccia. Appena
pronunziate queste parole è stata colta da un tremore, che ci son volute tutte
le pene del mondo a far cessare.
Non
le ho pertanto data alcuna indicazione sulla regione ove andavo, ma mi è
sembrato che ella lo indovinasse poiché mi ha detto fra le altre frasi:
«Quali
rischi tu correrai, quali cose strane vedrai…».
Ho
avuto un bel dirle che ella esagerava, non ha voluto intendere nulla. Non ho
per dir così, dormito tutta la notte; ella gettava dei sospiri da fender
l’anima, poi si assopiva ma era per 7
risvegliarsi dieci minuti dopo con un grido; era molle
di sudore; si precipitava nelle mie braccia e mi diceva con voce supplicante:
«Non
andartene te ne prego… Non andartene».
Avevo
consultato mio cognato la vigilia, ed egli mi aveva detto di non fare
attenzione a queste fanciullaggini.
Poiché
la mia povera Elena pareva il mattino essere ancora febbricitante ho fatto
chiamare Bulwer di urgenza, erano le 6. Il povero amico mio è arrivato in
fretta, ha esaminato la mia sposa, ed io gli ho domandato:
«Posso
partire?».
«Ma
sì…».
«Sarò
assente otto giorni».
«Puoi
restare più lungamente».
«Non
avrà delle crisi per questa mia assenza?».
«Al
contrario: credo che la tua partenza quand’ella l’avrà accettata le farà del
bene, sarà più tranquilla, ma non lasciarla senza notizie».
«Sicuramente…».
Il
mio bagaglio era pronto; la vettura di Werber e il vetturino erano nel cortile
della casa alle sette. Ho abbracciato Elena, mi è parsa un po’ abbattuta,
pertanto al momento, in cui sono montato in vettura ella non poteva staccarsi
dalle mie braccia. Ho dovuto quasi farle violenza per liberarmi.
Questo
addio mi ha profondamente commosso, tuttavia, non ho inquietudini; sua sorella
e suo cognato veglieranno così bene come potrei farlo io stesso, e il mio caro
Bulwer è sempre là, in caso di pericolo.
Ma
infine credo di aver pianto anch’io.
Avevo
dei buoni cavalli; ho lasciato Wisborg a tutto andare; la mattinata è passata
presto, ma alla prima posta del pomeriggio le noie sono incominciate. Due
cavalli si sono sferrati. Al primo contrafforte dei Carpazi, la strada era rude
e piena di ciottoli, un cavallo si è messo a zoppicare. Più lontano è una ruota
che ha dovuto essere rimessa, in breve, tutte le noie possibili mi sono
toccate.
La
notte cade presto in questa epoca, sono arrivato in un albergo, in questo
piccolo villaggio di Wuls che pareva sospeso sopra l’abisso ed avevo
l’intenzione di continuare la strada malgrado le tenebre, ma quando ho detto
ciò al padrone egli mi ha risposto che il suo cocchiere non voleva attraversare
la foresta la notte e che era preferibile che prendessi del riposo presso di
lui.
Questo
uomo aveva ragione poiché sono stanchissimo e certamente sarei arrivato in
troppo cattivo stato presso il conte Horlok se mi fossi ostinato.
Ho
dunque preso posto nella sala dell’albergo a tavola, davanti a qualche
contadino e due taglialegna della foresta.
Tutti
brava gente che mi hanno guardato con curiosità, sono restati silenziosi, hanno
bevuto per un’ora circa e mi hanno lasciato solo in seguito, con l’albergatore,
sua moglie e due vecchi servi. Naturalmente alla fine della cena, eccellente
del resto che avevo presa, ci si è messo a chiacchierare:
«Conoscete
il castello del conte Horlok?», ho domandato al padrone.
Quest’uomo
mi è parso stravolto, e pertanto è assai robusto, largo di spalle, solido come
una quercia al quale la morte stessa potrebbe presentarsi con la sua faccia
senza fargli paura.
Ma
il nome del conte Horlok ha non so qual potere magico, poiché questo gigante mi
ha detto con voce sorda:
«È
là che voi andate?».
«Sì!».
«Non
è possibile».
«È
pertanto la verità».
«Lo
conoscete?».
«Il
conte? No…».
«E
voi osate?».
«Sì,
perché?».
«Perché nessuno ha mai veduto il conte Horlok».
«Per
quale ragione?».
«Io
non lo so, egli abita il paese dei fantasmi».
«Sì».
«E
voi sapete signore ciò che è il paese dei fantasmi?».
«No.
Un paese come un altro!».
Il
mio uomo mi mise la mano sulla spalla famigliarmente.
«Voi
siete giovane, signore».
«Non
parlate a parole coperte, dite francamente ciò che pensate, io non ho paura».
«Ciò
si vede».
«Ma
infine chi è questo conte Horlok?».
«Io
no so nemmeno se è un uomo…».
«Allora?».
«È
ciò che è grave».
«Non
è un orco».
«No,
certo. È peggio che ciò».
«Che
vi si è detto di lui?».
«Niente,
non si pronunzia mai il suo nome…!».
La
moglie ed i servi erano entrati in questo momento e prestavano orecchio alla
nostra conversazione.
«Tacete…»,
fece il mio oste «non una parola di più, spaventereste questi disgraziati».
Tutti
questi modi non mi piacevano affatto.
Perché
tanto mistero per parlare del mio futuro cliente? Veramente questo paese dei
fantasmi e questo castello provocano spavento, o mi si giuoca la commedia per
impedirmi di andare più lontano? Io me lo domando.
«Siete
ammogliato?» mi ha domandato l’albergatore.
«Sì».
«Ebbene,
allora signore, non insistete».
«Ma
ancora una volta, parlate chiaro».
«Io
non saprei dirvi di più; le parole di un uomo che ha lunga esperienza, io
conosco bene quel paese, riprendete domani la vettura e ritornate a Wisborg».
Allora
sono andato in collera…, ho detto all’albergatore che egli si burlava di me,
che io non ero un ragazzo e non tolleravo più a lungo le sue osservazioni.
Egli
ha taciuto, mi ha lasciato solo, e alle dieci mi ha fatto condurre in camera da
una cameriera. Quest’ultima mi ha accompagnato, tremando, teneva in mano una
candela che vacillava a misura che salivamo; non mi ha neppure detto buona
sera.
Eccomi
dunque in camera, una camera normale come ne ho già viste tante, e sono sul
punto di mettermi a letto.
Non
avevo l’intenzione di scrivere una linea del mio giornale e volevo
addormentarmi subito, poiché bisogna che sia alzato domani alle 6, quando il
caso ha voluto che prendessi in mano un libro dissimulato dietro una cortina
che serve di chiusura ad un telaio fatto di qualche assicello.
Mi
metto a letto, apro il volume, e cosa leggo alla prima pagina? «Il libro del
Vampiro».
Decisamente
questo libro mi perseguita e mio malgrado, ritrovo la frase: «Il vampiro si
nutre del sangue degli uomini e vive sulle bare ripiene di terra maledetta dei
campi della morte nera».
No,
decisamente non andrò più innanzi, voglio provare di trovar sonno, ma ciò è
impossibile, non ho potuto più chiudere occhio.
Nell’oscurità
mi sembrava sentissi scivolare dei passi.
Io!
Io che non ho mai avuto paura, che non credo a niente di quello che si dice di
questi spettri, di fantasmi, o di vampiri, io mi son messo a battere i denti.
Allora
mi son alzato, ho riaccesa la candela, ho tirato dal mio bagagliaio il giornale
che avevo portato ed ho scritto queste righe.
Ed ho fatto bene, avevo bisogno di confidarmi a questo
quaderno, il mio solo amico del momento…
26 febbraio. Albergo di Rusbak,
mezzogiorno.
Ho
lasciato questa mattina l’albergo di Wuls ed eccomi istallato al sommo dei
Carpazi in una specie di baracca di legno, ove l’oste mi ha servito la
colazione. Egli mi ha domandato, qualche istante prima che io richiedessi la
mia vettura, ove andassi. Questa volta gli ho detto:
«Al
paese dei fantasmi, per poter discutere una volta di più sul conte Horlok».
«Al
paese dei fantasmi? Ma, salvo il rispetto che vi devo, dico che siete pazzo».
Decisamente
non ho scampo.
«Se
voi volete che il cocchiere vi conduca fin là non gli dite niente. Indicategli
la via di Husberg; egli vi condurrà almeno fino a quel luogo ma io dubito che
in seguito egli voglia continuare».
«Ma
infine che vogliono dire tutte queste reticenze? Che significa tutto questo
spavento?».
L’oste
ha levato le braccia al cielo.
«Oh!
Ecco, non posso raccontarvi di più, ma poiché voi andrete laggiù lo vedrete voi
stesso».
Egli
aveva della canzonatura in queste proposte ed io non mi son creduto in dovere
di insistere.
Arresto
qui le mie confidenze, sento i sonagli della vettura.
Chiudo
il mio quaderno e me ne vado.
Ma
che è questo paese dei fantasmi? Che cosa è dunque il conte Horlok.
28 febbraio. Dal castello del conte
Horlok.
Che
viaggio!!!
Evidentemente
non mi aspettavo ciò che mi è accaduto; credo che né l’albergatore di Rusbak né
quello di Wels abbiano esagerato.
Non
è certamente che io l’abbia a riguardo del conte Horlok avendo riflettuto sui
sentimenti di spavento che mi hanno espresso i miei due osti confesso che ho
passato due ore veramente angosciose e che è necessario il mio buon umore
naturale per non essere questa mattina più abbattuto di quel che sia.
Mi
sento stanchissimo, ma non voglio tardare più lungamente a fissare le mie
impressioni per timore di dimenticare qualche dettaglio di questo inverosimile
arrivo al castello del mio cliente. Quando ho lasciato l’albergo di Rusbak
avevo due postiglioni per condurmi.
Ho
fatto tre ore di strada in un cammino assolutamente dirupato, delle nuvole
basse ci circondavano e dovemmo mettere piede a terra ad un certo momento
poiché la nebbia ci sbarrava la strada.
Faceva
molto freddo, ero avvolto nel mio mantello e malgrado tutte le mie precauzioni,
tremavo.
La notte
cadeva, quando, alla svolta del cammino i miei due cocchieri si sono arrestati,
l’uno d’essi si è avvicinato alla mia vettura, ho abbassato il vetro della
portiera.
«Che
vi è?» ho domandato.
«Signore
con tutto il nostro dispiacere…, non possiamo andare più lontano».
«Vi
è qualche cosa di rotto?».
«No!
Signore».
«Allora?
Perché mi abbandonate?».
L’uomo
era imbarazzato; pertanto, gettando uno sguardo circolare ha detto ancora:
«Questo
paese non offre nulla che valga la pena di vedere».
Ho
finto una grande collera.
«Da
quando» ho detto «i cocchieri si permettono di giudicare dell’aspetto di un
paese e far una condizione della loro condotta, l’apparenza più o meno ridente
di una regione?».
Il
postiglione ha alzato le spalle.
«Non
si tratta di ciò, signore. Noi siamo ai vostri ordini, ma tuttavia, e per
niente al mondo, noi vorremmo valicare il limite che ci traccia questa linea
d’alberi all’orizzonte…».
«Volete dirmi il perché? E senza reticenza!».
«Perché
al di là di questi alberi, signore, c’è il paese dei fantasmi…».
«Ebbene,
è precisamente dove vado. Io mi reco al castello del conte Horlok».
«Allora
è ben più grave, giammai noi andremo in quei paraggi».
Ho
avuto un bel proporre loro delle somme considerevoli e vuotare per così dire la
mia borsa davanti a loro; i due uomini si sono rifiutati di accompagnarmi ed io
ho dovuto scendere dalla vettura col mio bagaglio alla mano.
«Un
avviso», mi ha mormorato uno dei cocchieri al momento in cui stavo per
lasciarli, «non andate là, tornate con noi è tempo ancora…».
Non
ho risposto, ma ho visto bene che quella gente era spaventata della mia
temerità; essi non hanno perduto tempo a seguirmi e a prolungare gli addii.
Appena lontano dal loro veicolo circa cento metri, fatto girar briglia ai loro
cavalli, se ne son fuggiti a tutto andare come se qualche bestia mostruosa li
avesse inseguiti.
Ho
avuto un bel guardare intorno a me, non ho trovato alcuna ragione d’angoscia.
Era piuttosto all’interno di me stesso che sentivo qualche ansietà, e ciò dal
fatto dei consigli che tutto il mondo mi aveva dato e dall’attitudine delle
persone alle quali avevo parlato del paese dei fantasmi.
Evidentemente,
vi erano delle paludi sulle quali correvano delle nebbie che formavano come dei
pacchetti d’ovatta qua e là.
In
mezzo alle alte erbe si vedevano degli alberi dalle forme bizzarre che si
sarebbero potuti rendere da lontano per strani custodi del vasto dominio, ma
infine conoscevo tutta questa fantasmagoria e non sono più in età in cui si può
essere commossi.
Ho
affrettato il passo poiché non volevo arrivare troppo tardi al castello;
rischiavo di perdermi in istrada e malgrado il mio sangue freddo non amavo
passare la notte in quelle tenebre nebbiose.
Camminavo
da dieci minuti circa quando ho scorto davanti, serpeggiando da un lato
all’altro del sentiero una specie di piccola vettura nera trascinata da cavalli
coperti da drappi neri e condotti da un uomo, di cui non vedevo il viso,
rivestito lui stesso da un mantello nero.
Come
m’affrettavo a lasciar passare questo tetro equipaggio, i cavalli si sono
arrestati a qualche metro da me; il conduttore è disceso e senza nulla dire mi
ha aperto la porta della sua carrozza.
Ho
indovinato che era il conte Horlok che mandava al mio incontro un servitore per
condurmi al castello.
Certo
avrei preferito che il veicolo fosse un po’ più brillante e la carrozza meno
funebre, ma infine non avevo la scelta e mi son seduto su dei cuscini
durissimi, disposto a lasciarmi condurre secondo il capriccio e la fantasia del
mio nuovo cocchiere. Fatto un giro su noi stessi siam partiti con una lestezza
inverosimile nel cammino più irregolare che io avessi mai incontrato sulla
strada. Mi pareva che rischiassimo di precipitare ad ogni istante, che
dovessimo essere lanciati in non so quale abisso poiché il cocchiere non aveva
nessuna idea della linea diritta e della prudenza.
Ma
quando glie ne ho fatto osservazione egli non si è degnato di rispondermi e
così io non ho insistito più.
Di tanto
in tanto mi affacciavo alla portiera e così ho visto il famoso castello del
conte Horlok o piuttosto l’ho indovinato, per la massa tenebrosa in un velo di
nebbia; il conduttore si è arrestato davanti ad una specie di ponte levatoio,
ha aperto la portiera, ha preso il mio bagaglio.
Sceso,
ho aspettato che il ponte levatoio fosse abbassato.
Ciò
che non ha tardato. Ai miei occhi sono apparsi un seguito di canali lunghi, di
tunnel che ho traversato lentamente, poi siccome non vedevo più chiaro, mi son
permesso di chiamare:
«Olà!!!
Dove sono?».
Nessuno
mi rispose; una luce vacillante mi si è avvicinata, una forma lunga e magra mi
ha abbordato; io non ho visto il viso ma ho inteso una voce che mi ha detto:
«Niente
rumore, se vi piace, e seguitemi».
Ho obbedito.
Valicato
la soglia d’una porta mi son trovato in una stanza di proporzioni gigantesche,
rischiarata da una mezza dozzina di fiaccole; su una tavola, un pasto era
servito, due coperti erano messi.
Mi son rigirato per vedere chi fosse il mio ospite, e
non ho potuto astenermi dall’indietreggiare… Poiché a prima vista mi sono
spaventato.
Avevo
davanti a me un corpo magro sormontato da una testa quasi di mostro, un viso
d’un pallore esangue, un cranio completamente calvo come se la pelle fosse
sparita e non restassero che le ossa.
Questo
essere fantastico era vestito di un soprabito che gli cadeva al disopra delle
ginocchia e dalle maniche del suo abito uscivano delle mani d’una estrema
magrezza, dalle dita affilate come dei punteruoli e dalle unghie lunghe quanto
le dita.
Io
non avevo mai visto nulla di simile.
Ho
balbettato una frase qualunque, mi sono appoggiato al muro per non cadere, lo
straordinario individuo ha preso la parola.
«Voi
siete il signor Giovanni Hutter».
«Sì,
signore».
«Io
sono il conte Horlok».
«Onoratissimo,
signor conte».
«Volete
mettervi a tavola?».
«Sì,
signore».
«Allora
tutto è pronto».
Egli
non mi ha detto di più, mi ha indicato col gesto la sedia che mi aspettava, mi
son seduto in una poltrona e senza altre spiegazioni mi ha messo del vino in un
bicchiere e del pasticcio in un piatto.
Non
una parola, non un gesto inutile, nemmeno uno sguardo dei suoi occhi
terrificanti che avessero potuto farmi supporre che quest’uomo non fosse come
gli altri.
Il
pranzo era succulento. Io non ricordo di aver mai bevuto vino del Reno che
fosse migliore.
Arrivati
alla carne fredda mi ha versato un Borgogna che mi ha scaldato il cuore. Prima
della frutta ho gustato un vino zuccherato delle isole della Grecia più
generoso di quel che si possa immaginare; quanto allo champagne di cui ho
riempito la mia coppa dopo il pasto era veramente un bouquet di rose.
Egli
non aveva servitori intorno a lui.
Noi
prendevamo le vivande che erano alla nostra portata di mano…
Io
non ho pronunziato una frase, il conte Horlok non ha aperto bocca.
Il
conte ha spento tre lumiere, si è restati tutti e due nell’immenso spazio a
metà annegato nell’ombra: ci siamo avvicinati all’alto camino dove fiammeggiavano
tronchi d’alberi e da parte mia aspettavo che il mio ospite mi rivolgesse la
parola. Non mi pareva vicino a farlo; egli mi guardava dalla testa ai piedi in
modo così ostinato che io ne ero infastidito.
Mi
dettagliava come un mercante avrebbe fatto d’un animale che volesse comperare;
e non esprimeva la sua opinione che con qualche sordo grugnito.
Ciò
è durato ben dieci minuti.
Tutto
ad un tratto, egli si è avanzato verso di me, le sue unghie puntate come delle
frecce mi toccarono lievemente la guancia.
Ho
avuto paura.
Poi
bruscamente mi ha domandato:
«Vostra
moglie ha un grazioso collo?».
Non
mi aspettavo questa domanda.
«Senza
dubbio» gli ho detto.
Il
suono della sua voce era bizzarro, era una specie di stridore come ne fanno le
porte dei cardini arrugginiti quando si spingono dopo lunghi anni durante i
quali restano chiusi.
«Ha
ella il collo lungo o corto?».
«Lungo,
credo».
«Non
avete ritratti di lei?».
Son stato sul punto di dirgli di no poiché questo
interrogatorio mi pareva ridicolo dato che non ero venuto al paese dei fantasmi
per discutere delle grazie esteriori di Elena.
Ma
infine per tema di contrariare un cliente, come diceva il signor Ruok, ho
risposto che in effetto aveva sempre con me una miniatura.
L’ho
cacciata dal mio portafoglio e mostrata al mio conte.
«Che
graziosa moglie avete, signor Hutter!».
«Mi
lusingate signor conte».
«E
che collo!».
«Sì…
sì…».
«Ed
è bianco, non è vero?».
«Mio
Dio, sì».
«Lo
si direbbe un giglio…, un giglio di cui hanno bevuto il sangue».
«Il
sangue dei gigli? Io non so ciò che volete dire».
«Voi
non sapete che i fiori hanno del sangue?».
«Sì,
so che i fiori hanno anch’essi una specie di circolazione ma in fine…».
Il
conte teneva sempre fra le mani la miniatura e fissava sul ritratto degli
sguardi di compiacenza che mi esasperavano.
Stesi
la mano per riprendere il mio bene.
«Lasciate
signor Hutter; voi non volete?».
«Sì,
ma…».
Egli
ha girato la testa verso di me.
«Sareste
geloso di un vecchio?».
«No
signor conte».
«Certo
vi fu un tempo in cui forse avreste potuto aver ragione di diffidare delle mie
imprese, ma oggi l’amore mi sembrerebbe una cosa di sì poca importanza…».
Io
non volevo incitarlo alle confidenze e i suoi propositi…
«Il
signor Ruok» gli ho detto «mi ha mandato da voi…».
«Ebbene,
ebbene parleremo di ciò più tardi».
«È
che più tardi…».
«Io
voglio dire domani o posdomani, voi non avete fretta che io sappia».
«Pressato?
No, ma infine vorrei essere rientrato a casa mia il più presto possibile».
«Non
voglio trattenervi, ma presentemente lasciatemi fare più ampia conoscenza con
voi e interessarmi un poco al vostro genere di vita».
«Mi
fate troppo onore, signor conte».
«Vostra
moglie è giovane?».
«Ella
ha ventiquattro anni».
«Ha
un bel portamento?».
«Secondo».
«È
molto che siete sposato?».
«Due
anni».
«Amate
vostra moglie?».
«Sì,
molto!».
«Voi
l’avete amata per il collo?».
«Mio
Dio, no».
«Non
fate giammai attenzione al collo delle persone?».
Egli
cominciava ad irritarmi con queste sue allusioni perpetue di colli di cui io
non mi curavo quasi.
«Non
vi prendo particolare cura» ho risposto.
«Avete
torto. È ammirevole un bel collo; esso ha una dolcezza al tocco che non è
comparabile che a quello delle corolle dei fiori, e ciò permette anche di veder
passare dal collo al cervello quelle vene fini così vicine alle orecchie, il
sangue, voi m’intendete?».
«V’intendo, signor conte».
«E
ciò non vi esalta?».
«Niente
affatto».
«L’idea
del sangue, l’odore del sangue, la grandezza del sangue, che porta la vita, non
vi dice niente?».
«No,
confesso».
«Voi
siete giovane in effetto, signor Giovanni Hutter».
Egli
si è levato ed io l’ho visto avanzare verso di me, le mani tese.
Ho
sentito sul mio collo le sue dita agghiacciate, al di sopra delle mie orecchie
le sue unghie taglienti.
«Come
è dolce» mi ha detto «e che piacere io ho a riscaldare le mie vecchie dita su
questa pelle tiepida».
Io
non dividevo il suo entusiasmo.
Questo
spaventoso vecchio non dubitava senza dubbio che egli mi ripugnava e, poiché io
non ho il carattere di lasciarmi toccare facilmente, mi sono levato a mia volta
e messo sulla difesa dietro la poltrona.
Il
conte Horlok è parso colpito dalla mia indifferenza:
«Che
vi è pertanto di più confortante per un vecchio che vedere e toccare la
giovinezza! Pare che al suo contatto gli anni dileguino come la neve e il solo
pensiero che un sangue giovane circola nelle vostre arterie e nelle vostre vene
basta a ringiovanirmi».
Egli
ha ricominciato ad avvicinarsi a me, le mani tese.
Non
ho potuto impedirmi di protestare.
«Vi
prego, signor conte, cessate di prendermi per un manichino e di credere che io
sia venuto nel vostro castello per suscitare il vostro lirismo. Io vengo per vendere
una proprietà di cui avete bisogno, m’ha detto il signor Ruok, non parliamo
d’altre cose».
Egli
non se n’è preoccupato, ha sorriso anche, di quale spaventevole sorriso, e
senza dirmi altro se n’è andato.
È
scomparso, si è tuffato in non so quale colatoio. Sono restato solo nella sala,
non sapevo dove fosse la mia camera, cercavo invano un campanello, chiamavo
invano un servitore. Silenzio assoluto.
Nessuno
si è presentato; ero abbandonato completamente e il castello pareva non avesse
altri abitanti che questo stravagante Horlok.
Dove
andare poiché non conoscevo affatto la dimora? Il meglio era di passare la mia
notte nella buona poltrona ove mi ero seduto presso il camino, è ciò che ho
fatto.
Ma,
prima di poter chiudere occhio, mi son messo a riflettere su tutto ciò ch’è
passato e sulle riflessioni che ho inteso da qualche ora.
Non
mi sono indugiato ad inquietarmi per l’aspetto del castello, né della
spaventosa figura del suo proprietario, ma non ho potuto allontanare dal mio
spirito le domande ch’egli m’ha fatto sul collo di Elena, né l’insistenza
ch’egli ha messo a parlarmi del sangue. Il sangue dei fiori…
Il
sangue dei fiori, non è Elena che mi ha già parlato, fatto allusione a ciò
quando le ho portato le rose bianche?
Questo
ravvicinamento si mischiava alla mia lettura, intorno alle abitudini dei
vampiri, alle osservazioni che mi aveva fatto il mio amico Bulwer qualche
giorno prima della mia partenza.
Risultato:
degli incubi tutta la notte.
Mi
sembrava che qualcuno s’avvicinasse a me, si chinasse su di me, bevesse il mio
sangue al collo e questa mattina prima di scrivere queste righe mi sono accorto
d’essere stato semplicemente punto da una zanzara un po’ al disopra del collo,
è stata senza dubbio questa bestiola a provocare i miei cattivi sogni.
Sono
le undici, non ho ancora veduto Horlok in tutta la mattina, non so quando avrò
l’occasione di parlargli della vendita della casa in rovina, vado a passeggiare
un momento nel parco, e se ho il tempo, questa sera scriverò ad Elena e
continuerò le mie osservazioni su questo giornale.
28
febbraio 1838; 7 ore di sera.
Dal
castello del conte Horlok, al paese di fantasmi.
Ho
potuto parlare anche al conte del nostro affare. Egli ne è in effetto appassionatamente
interessato. Un’ora prima della colazione, è venuto a cercarmi lui stesso nella
sala ove avevo passato la notte e mi ha condotto nella sua camera al primo
piano.
Bellissimo
luogo che dà su di un parco incolto, e vi si scorgono e cime nevose dei
Carpazi.
A
mezzogiorno preciso, il conte è venuto da me a prendermi per il pasto che si è
fatto nelle stesse condizioni di ieri sera. Horlok non ha detto una parola e mi
ha fatto mangiare e bere copiosamente.
«Bisogna»,
mi ha detto al momento dello champagne, «ben nutrirsi; ciò dà sangue».
Poi
gli ho domandato:
«Siete
già venuto a Wisborg?».
«Sì,
è qualche anno».
«Conoscete
dunque la casa che volete comperare?».
«Sì,
vagamente».
«Sapete
che in cattivissimo stato?».
«Senza
dubbio, ma ciò non ha alcuna importanza».
«Desiderate,
signor conte, farne una casa d’abitazione?».
«Io
non so».
«Desiderate
farla demolire?».
«Forse».
«In
tutti i casi io sono incaricato dal signor Ruok di dirvi ch’essa vale sessanta
mila corone».
M’ero
deciso ad aumentare il prezzo che mi aveva fissato il mio padrone, poiché c’era
del benefizio per me.
Il
conte non ha fatta alcuna obbiezione.
«Bene»
m’ha detto, «mettiamo sessanta mila…».
Ho
cercato nella mia valigia il piano e l’atto di vendita. Egli ha firmato l’atto,
anche prima di vederne il piano.
«Ma,
signore fate attenzione», gli ho detto, preso tutta d’un tratto da scrupoli;
«che questa casa è inabitabile pel momento…».
«Per
tutt’altri che per me, forse…».
«Come,
voi avete l’intenzione di venire a Wisborg?».
«Non
lo so ancora…».
«In
questo caso, voi mi vedrete spesso poiché la mia casa è situata in faccia a
questa dimora…».
«Sì,
lo so…».
«Come
lo sapete, signor conte?».
«Mi
si è detto…».
Ero
un po’ stupefatto di questa risposta poiché ignoravo assolutamente che il mio
ospite fosse al corrente del luogo ove abitavo.
«Si
vedono le vostre finestre dalle mie?» ha domandato.
«Sì,
non v’è che il fiume che ci separa».
«Così
io potrò vedere la signora Hutter?».
«Mio
Dio, signor conte, se ciò vi fa piacere».
«Sicuramente,
ella ha un così grazioso collo».
Ciò
diventa una mania. Egli non può lasciare tranquillo il collo di mia moglie.
«Wisborg
è una bella città», mi ha detto ancora. «Vi ho molto bighellonato nella mia
gioventù. È là che ho conosciuto il signor Ruok che è un grande amico».
Io
non ho potuto impedirmi di dire che il mio padrone, in effetto, pareva avere
una grande venerazione per il conte…
«Lo
so», ha detto egli; «lo so…».
Poi
ha preso congedo da me. Mi ha rimesso l’atto di vendita ch’egli aveva
paragrafato e al momento di lasciarmi, avendomi guadato, come aveva fatto la
vigilia, dalla testa ai piedi:
«Avete una puntura al collo, signor Giovanni Hutter»,
ha esclamato.
«Sì,
signor conte…, sono delle zanzare senza dubbio, ma ciò che mi meraviglia è
ch’esse non pizzicano… le vostre zanzare sono inoffensive?».
Il
conte ha avuto un sorriso strano:
«Sì,
tutt’affatto inoffensive, ma esse amano molto la gente che si nutre bene. A
questo proposito, se voi avete fame nel corso del pomeriggio, signor Hutter,
non ve ne angustiate, siete qui a casa vostra. Prendete ciò che vi piacerà su
questa tavola e abbiate buon appetito.
«Vi
ringrazio signor conte».
«Bisogna
mangiare, signor Hutter, per avere del sangue».
«Ma
sì», ho detto come per sbarazzarmi di questo interlocutore che mon mi
consentiva di partire.
«Del
sangue, signor Hutter, del sangue…, ecco l’importante, ecco ciò che vi fa
vivere, ciò che fa vivere vecchissimi; molto vecchi… Noi saremmo immortali se avessimo
sempre del sangue».
Egli
ha girato il dorso e se n’è fuggito.
Non
mi sono rimesso a tavola nel pomeriggio, sono stato a passeggiare nel parco e a
sognare a mio agio.
Nulla
mi disturba. È il parco della bella dormiente nel bosco.
Appena
si vede passare di tanto in tanto il volo d’un uccello, ma non vi è nessun
giardiniere, poiché tutti i viali sono lasciati in abbandono e le erbe crescono
come vogliono.
Quale
silenzio e quale riposo, ma anche quale malinconia!
Comprendo
come il conte Horlok abbia un aspetto così funebre, le terre del suo castello
sono nere e tutta quella immensa proprietà pare un gran cimitero. Di qua e di
là vi si incontrano delle pietre sepolcrali e si crederebbe di passeggiare in
una vasta necropoli.
Io
non so se il conte mi lascerà partire questa sera, ma me lo auguro, poiché
comincio ad esser stanco, sento una stanchezza generale, una specie di
spossatezza di cui non mi spiego la causa.
Ho
tuttavia assai ben dormito questa notte e non ho avuto alcun lavoro da ieri che
possa avermi spezzato i nervi a questo punto.
Forse
è l’atmosfera di questo paese dei fantasmi che non vale niente. Ho scritto a
mia moglie; e ciò mi ha fatto bene…
Sì,
decisamente vado ad occuparmi di partire questa sera, ma chi vorrà condurmi
fino al confine di questo paese? Me lo domando. D’altra parte, non voglio
avventurarmi solo a piedi su queste tetre strade.
Sarà
dunque più prudente non partire che domani.
Andiamo
a vedere.
1 marzo 1838. dal castello del conte
Horlok, al paese dei fantasmi.
Nel pomeriggio.
Non
partirò ancora oggi, non è che la volontà mi sia mancata, ma il conte m’ha
detto che la sua vettura e i suoi cavalli non erano pronti… Che il suo
cocchiere aveva avuto un incidente, e che bisognava bene che io contassi di
restare al castello due giorni ancora.
Ne
sono straziato, comincio ad essere nervoso.
Sono
ancora stato pizzicato dalle zanzare questa notte in modo crudele. Quasi allo
stesso posto di ieri, ma più profondamente. Ora ho un bel lasciare la finestra
aperta, accendere una bugia quando cade la notte, non vedo alcuna zanzara nella
camera.
Questo
non deve essere un insetto come i nostri.
Ad
ogni modo sono spossato, ho tutte le membra come se fossi stato battuto e di
più mi sento la febbre.
Questa
mattina, il conte non mi ha disturbato; non l’ho veduto che all’ora del pranzo.
Questa volta ancora egli ha insistito perché mangiassi ed io non avevo nessun
appetito.
Abbiamo
avuto una strana conversazione. La riporto perché fissandola sulla carta potrò
comprendere forse il senso esatto.
«Siete
superstizioso?» mi ha domandato.
«Affatto, signor conte».
«Credete
ai fantasmi?».
«No».
«E
agli spiriti?».
«Non
di più».
«Non
credete neppure agli spettri?».
«Naturalmente
no».
«Allora
dovete passare delle notti magnifiche».
«Generalmente
dormo bene».
«Anche
qui?».
«Ma
sì, signor conte».
«Avete
della fortuna».
«Perché?
Voi non dormite, voi?».
«Sì
ma io sono abituato a tutti i visitatori della notte».
«Quali
visitatori?».
«Ai
fantasmi».
«Vengono
dei fantasmi?».
«Sicuramente».
«Voi
ne avete veduti?».
«Tutte
le notti, da qualche anno».
«Ma
quali fantasmi?».
«Quelli
che abitano questo castello».
«Vostri
parenti, gli Horlok».
«Già,
tutti i membri della famiglia di Mosferatu Horlok».
«I
Mosferatu?».
«Sì».
«Mi
sembra che io conosca questo nome…».
Egli
fece un gesto della mano.
«È
possibile, sempre essi vengono a tenermi compagnia quando cade la notte e
teniamo qualche volta dei consigli di famiglia che non mancano d’interesse
poiché vi sento raccontare la storia della mia razza da dei secoli».
Io
non volli contraddire il mio ospite.
«Che
età avete?» mi domandò.
«Trent’anni».
«Che
età mi date?».
Per
non dispiacere al conte gli risposi:
«Settant’anni».
Egli
si drizzò di balzo e danzò per così dire sotto i miei occhi un passo grottesco
che mi avrebbe fatto ridere, se non avessi avuto l’impressione di vedere
danzare uno scheletro della danza macabra.
«Settant’anni…
Per la forza, signor Hutter; ho vent’anni, non ne ho l’aria ma se mi piacesse
di strangolarvi sull’istante, vedrete che pugno posseggo».
E
ciò dicendo avanzò verso di me e volle ricominciare lo scherzetto della prima
sera avvicinando le sue immense unghie alla mia gola.
«No,
ve ne prego…» feci con fermezza.
«Oh!...
non ho l’intenzione di farvi del male. Voi mi siete troppo prezioso, signor
Hutter… lo sapete che mi siete prezioso?».
«Ne
sono lusingato, ma l’ignoravo».
«Se
potessi trattenervi tre mesi presso di me, allora avrei cinque anni».
Il
senso delle sue parole comiche mi tolsero completamente ogni dominio.
«Voi
non mi avete ancora detto la vostra età, signor conte».
«Avrei
cinque anni se voi restate là…».
Abbozzai un sorriso per cortesia.
«Sì,
ma poiché io me ne vado…».
«Guardatemi,
signor Hutter, io non sono bello, ma voi confesserete ch’io non sono mal
conservato…».
«Certo…».
«Ebbene…!
Io ho centoquarantatre anni».
«Centoquarantatre
anni? Voi scherzate».
«Per
nulla al mondo, sono nato nel 1685».
«È
impossibile».
Avevo
la vera prova che il mio uomo era pazzo.
Per
non contraddirlo, obbiettai timidamente:
«Voi
siete un fenomeno».
«No.
Io so il segreto della lunga vita».
«Ah
ah! Ecco ciò che è interessante».
«Ciò
vi appassiona?».
«Capperi,
signor conte, un segreto pel quale gli uomini darebbero tutti i loro beni… e
voi fareste rapidamente fortuna se vi piacesse di divulgarlo».
«La
fortuna. Pfft… che cosa è ciò?».
«Un
po’ di fortuna».
«Pregiudizio…
la felicità non è là, signor Hutter, è nella realizzazione delle ambizioni più
segrete dell’uomo e nel dominio del mondo. Io sono un maestro del mondo».
Lo
salutai non senza ironia:
«Signor
conte, io sono il vostro umile servitore…».
«Ciò
vi diverte… vedo bene che voi non mi credete affatto…».
«Io
vi domando perdono».
«È
pertanto vero… Colui che possiede il segreto della vita è il Maestro del
mondo».
«In
effetto…».
Avevo
detto ciò senza convinzione.
Egli
riprese, più imponente e dottorale che mai:
«Io
sono colui che non muore, io sono colui che vive degli altri, io sono colui che
stabilisce sull’universo il dominio delle intelligenze sottili e delle idee
soprannaturali… Io sono l’incarnazione d’un…».
Egli
s’arrestò improvvisamente.
«D’un
che?...».
«Io
ho detto assai, non potreste comprendermi».
«Non
sono così sciocco come ho l’aria».
«Non
è questo che voglio dire, signor Hutter, ma voi siete un uomo fatto per i
piaceri materiali, vedo ciò al vostro buon aspetto e me ne rallegro… Bisogna
della gente come voi dal buon aspetto e dal sangue generoso, un bel sangue
chiaro che cola sotto la pelle come un’acqua di sorgente sotto l’erba
primaverile… Bisogna della gente come voi, priva di salute, perché i puri
spiriti possono vivere essi al di fuori di tutte queste cure grossolane… Fatevi
del sangue signor Hutter, fatevi del sangue…».
Egli
drizzò le sue lunghe braccia al di sopra della mia testa, le agitò come delle
grandi ali, ed io non le rividi più.
A
misura che scrivo la mia stanchezza è più grande, mi arresto qui.
Che
fa la mia povera Elena in questo tempo?
Ah!
Se sapesse ove sono! In quale stato sarà ella?
2
marzo, 8 ore del mattino. Dal castello del conte Horlok, al paese dei fantasmi.
È
spaventoso!... Io ho del sangue sulle mie mani… Vi è ancora del sangue sulle
mie coperte!...
La
cosa più spaventosa.
Mosferatu…
Elena…
Elena…
Mosferatu
il Vampiro…
Io
scrivo queste parole nella pazzia, ma bisogna che scriva…
Ah!
Se potessi dire di seguito ciò che ho visto!
Ah!
Se potessi mettere su questa carta la visione spaventosa di questa notte!
Il
demonio, il demonio dalle mani adunche… è entrato per questa porta…
Si è
precipitato su di me.. m’ha appoggiato come una ventosa la sua bocca sulla mia
gola ed io sentivo fuggire il sangue dal mio corpo…
La
morte scivolare in me…
Al
soccorso al soccorso…
Non
so più ciò che scrivo.
Ho
la febbre…
La
mia testa scoppia ed io sono così debole… così debole…
Purché
il conte non ritorni.
Purché
Mosferatu…
Ma è
lui Mosferatu, il conte Horlok è lui, il vampiro… sì, è lui che ha bevuto il
mio sangue…
Non
ne posso più…
Bisogna
che vada…
Elena…
Elena… al soccorso…
A
questo punto il manoscritto diviene assolutamente illeggibile.
Giovanni
Hutter ha voluto senza dubbio in seguito apportarvi dei ritocchi, ma non ha potuto
venire a capo di questa opera; poiché vi sono due pagine coperte di
cancellature, ciò che ci lascia pensare che egli ha ripreso il suo quaderno
quando provava i primi eccessi di pazzia.
Sulla
prima pagina riferentesi alla narrazione dei fatti occorsigli il 4 marzo vi
sono ancora, mi sembra, delle tracce di sangue. Le ultime parole sono tracciate
da una mano che tremava talmente che sembrava un grafico dei barometri
registratori che segnalano un terremoto di terra.
Abbiamo
trovato aggiunto al manoscritto questa lettera che pubblichiamo poiché ci
sembra di grandissimo interesse per il racconto.
Al
signor Ruok, mediatore a Wisborg.
Signore,
Noi
alloggiamo in questo momento nel nostro albergo di Rusbak, uno dei vostri
impiegati, il signor Giovanni Hutter che è arrivato qui nella notte del 4 marzo
in un tale stato di debolezza che abbiamo dovuto metterlo a letto
immediatamente e chiamare il medico l’indomani mattina.
Abbiamo
trovato il vostro indirizzo nelle sue carte e non abbiamo voluto avvertire sua
moglie per non spaventarla.
Abbiamo
avuto il signor Giovanni Hutter come cliente alla fine del mese di febbraio,
per la colazione.
L’abbiamo
distolto di andare là dove andava cioè a dire al paese dei fantasmi poiché
sappiamo che nessun uomo torna vivo, né sano di spirito.
Malgrado
le nostre osservazioni il signor Hutter si è ostinato e si è fatto condurre in
vettura fino al momento in cui i cocchieri hanno rifiutato di andare più
lontano.
Che
gli è accaduto in seguito? Noi non ne sappiamo niente essendo il signor Hutter
incapace di darcene un ragguaglio.
Egli
ha l’aspetto di un demente, pronunzia delle parole incoerenti e senza seguito.
Abbiamo
creduto bene di prevenirvi perché voi non siate inquieto almeno in ciò che
concerne il luogo ove egli è curato poiché della sua salute e della sua ragione
il dottore stesso non può rispondere. 19
Non si pensa che egli possa essere rimesso
completamente prima di una quindicina di giorni.
Il
signor Hutter aveva su di lui 60.000 corone in biglietti e 177 corone in pezzi
d’oro e d’argento…
Ciò
al fine che possiate testimoniare, nel caso in cui vi fossero contestazioni in
seguito con la famiglia.
Vale
sempre meglio prendere le proprie precauzioni.
Io
sono, signore, vostro umilissimo servitore.
Signor Hubrur – Albergatore a
Husbak.
Qui
il manoscritto riprende colla data del 15 marzo del 1858.
15 marzo 1838. Albergo di Rusbak.
Ove
sono? Non posso levarmi due minuti e prendere il mio quaderno e questa matita
senza che mi si senta.
Ove
sono? Il conte Horlok è sempre là?
Quanto
tempo è che sono in questa camera?
Ho
guardato il mio collo nello specchio; è cicatrizzato, ma sono così sfinito.
Ho
rischiato di cadere mettendo i piedi a terra.
Sento
dei passi sopra di me.
È
lui che cammina? È Mosferatu che attende la mia morte?
Vuole
al contrario nutrirmi come egli diceva, perché io abbia del sangue ancora del
sangue? Io non so.
Non
posso andare oltre, mi corico, avvenga quello che deve avvenire.
Wisborg, 12 aprile 1838.
Vado
meglio, sento che fra qualche giorno starò affatto bene.
Ho
abbracciato la mia cara Elena, ella è pallidissima e assai più nervosa. Ma che
importa!
Ella
è là, io sono là, tutti quelli che amo sono intorno a me.
Lo
spaventoso incubo è terminato.
Avrò
il coraggio di raccontarlo? Proviamo.
Era
durante la notte che seguiva la bizzarra conversazione che ho riportata col
conte Horlok.
Mi
ero messo a letto verso le 23 e quel discorso senza dubbio mi teneva desto
poiché, malgrado tutti i miei sforzi, non potevo riuscire ad addormentarmi.
Nello
strano silenzio del castello il minimo rumore risuonava come prolungato da
venti eco.
Mezzanotte
suonò! Allora…
Allora,
io vidi entrare il conte, più pallido che mai, più lungo, più cadaverico che
non l’avessi mai visto; avanzò verso la mia gola, come aveva già fatto
parecchie volte, le sue mani minaccianti, mi serrò il collo nelle sue unghie
taglienti; e mi soffocò.
Io
perdetti ogni nozione, non potevo gridare, ma ciò non era niente.
Ciò
che mise il colmo all’orrore è che Horlok si chinò su di me, applicò le sue
labbra alle piaghe che aprivano le sue unghie e bevve il mio sangue. Io non so
più…
Io
non so più ciò che avvenne fino al giorno, sento solamente la sua voce
stridente.
«Io
sono Mosferatu, il Vampiro».
Volevo
fuggire…
Ma
ero talmente spossato! Non so come trovai la forza di mettere i miei vestiti,
di abbigliarmi, di portar via il mio bagaglio.
Come
ebbi la presenza di spirito di non dimenticare il mio quaderno? Come feci a guadagnare
il parco?
L’aria
del mattino mi ridonò le forze, non vi era nessuno per impedirmi di uscire ed
ebbi anche la curiosità di mettermi alla ricerca di Mosferatu. 20
Oh! Sì… volevo avere la mia vendetta, assolvere il mio
odio, strangolare a mia volta questo strangolatore.
Invano
percorsi tutte le stanze del castello, non vidi niente. Né lui, né un
servitore.
Ma
passando davanti ad una cappella in rovina, credetti vedere che là, sulle
lastre sepolcrali egli era coricato in un feretro.
No,
no, ciò non è un sogno…
Mosferatu,
il Vampiro, il conte Horlok era disteso fra le assicelle, come un morto, ed
egli non era morto.
Egli
si muoveva.
Quando
intese il mio passo fece uno sforzo per levarsi.
Era intriso
del mio sangue. Io tremavo, mi misi a battere i denti e, dimenticando la mia
vendetta, fuggii…
Corsi,
corsi… diritto avanti a me.
Non
ricordo più niente, né della strada che presi né del tempo che misi.
Non
so se arrivai a Rusbak nella notte o all’alba; so solamente che per notti e
notti, che per giorni e giorni, ho avuto davanti agli occhi il cranio denudato
d’Horlok e sul corpo la sensazione che le sue unghie mi strappassero come degli
uncini. Nulla può dare un’idea di queste sofferenze, di queste torture fisiche
e morali.
Bisogna
avere la costituzione robusta che io ho, per aver potuto resistere a quei
tormenti della carne e dell’anima.
Io
ringrazio Dio d’avermi strappato al demonio, poiché questo Mosferatu è il
demonio.
Sono
stato a vedere Ruok; egli era al corrente di ciò che mi era accaduto; mi ha
detto che da Russbak gli hanno dato mie nuove.
Egli
ne aveva fatte portare a mia moglie e le aveva detto che non inquietasse se non
riceveva mie lettere, perché ero in un luogo ove non passava mai un corriere.
Aveva
promesso di tenerla al corrente dello stato di mia salute. Quale non le ha
naturalmente mai detta la verità.
Ruok
è uno strano individuo lui pure. Mi pareva tenesse dei discorsi simili a
quell’Horlok e quando gli ho parlato del terribile conte, si è contentato di
sorridere e di conchiudere:
«È
uno dei maestri del mondo».
«Ignobile
maestro in verità».
Quanto
a ciò che è accaduto a casa mia, è ancora più straordinario. Naturalmente,
malgrado le assicurazioni di Ruok, mia moglie era in una grande angoscia.
Mio
cognato e mia cognata hanno avuto tutte le sollecitudini del mondo a calmarla,
l’indomani della mia partenza.
Per
colmo di sventura, ella ha avuto un incubo nella notte stessa in cui Mosferatu
è entrato nella mia camera, da ciò che mi ha raccontato mio cognato, l’incubo
di cui ella aveva fatto il racconto corrispondeva in ogni punto a ciò che mi
era accaduto.
Coincidenza
tormentosa!
È
vero che con la gente nervosa simili cose accadono spesso. Ho fatto venire
Bulwer per Elena e per me. Mi ha trovato assai depresso, ma in condizioni
migliori della mia povera benamata.
Ella
è sempre più agitata; ha l’apprensione d’un avvenimento tragico. Ho un
bell’interrogarla in tutti i modi, non mi ha nulla detto che possa darmi
un’idea dei suoi timori. Quanto a me voglio provare a dimenticare tutto ciò,
bisogna assolutamente. Bisogna ch’io lasci lontano dietro di me quei giorni
atroci, che io non pensi più, la primavera m’aiuterà...
Ecco
che la neve si scioglie sui Carpazi, ecco che gli alberi s’ingemmano. Fra
qualche settimana, fra qualche giorno, forse vi saranno dei fiori sugli alberi,
e nel giardino vedremo i primi lillà. Ah! respirare il profumo dei fiori! Poter
gironzare per le vie di Wisborg! Veder la gente vivere, e dirsi che si è stati
vicini a morire e in quale spaventosa condizione! Ecco ciò che ridà
l’esistenza. Mia cara Elena, tu vivrai con me.
Wisborg,
24 aprile 1838.
La
salute di Elena è sempre più preoccupante.
Io
non la lascio un momento, salvo nelle ore in cui lavoro.
È perciò
che non ho più scritto su questo quaderno da una dozzina di giorni. Elena ha
paura. Paura di che? Ella crede sempre di sentire dei passi nella stanza, ella
dubita sempre di veder entrare nella camera ove si trova un essere fantastico
che non può descrivermi.
Questo
terrore ha guadagnato anche mia cognata e confesso che io stesso dacché i miei
nervi sono stati così scossi al castello Horlok anch’io sono sensibile allo
spavento della mia povera Elena.
Vi
sono ore in cui presto orecchio con lei al minimo rumore. Pertanto, che cosa
abbiamo a temere? La primavera è là, ora; noi la respiriamo nel nostro
giardino; la stagione è bella, fa dolci queste sere, così dolci che vien la
voglia d’abbracciare la terra per ringraziarla d’essere così buona e che si vorrebbero
lanciare dei baci al cielo».
30 aprile 1838.
Elena
va sempre di male in peggio.
Bulwer
non capisce più. Egli dice che soffre d’una malattia sconosciuta e, in tutti i
casi, che sono delle scosse nervose d’una violenza rara che la fanno soffrire assai.
Ho
paura d’indovinare. Ruok m’ha detto questa mattina:
«E
il vostro cliente del paese dei Fantasmi?».
«Non
me ne parlate».
«Siete
ben ingrato, voi avete fatto un bell’affare, avete guadagnato più di diecimila
corone e non v‘interessate di lui?».
«Niente
affatto». Io non ho detto a Ruok tutto ciò che ha passato al castello di
Horlok, perché temo che i due uomini siano complici in una certa misura.
«Andiamo
a vederlo subito», m’ha detto Ruok.
«Chi,
il conte?».
«Sì.
Perché? Egli ha comperato una proprietà, è ben normale che venga ad abitarla».
Non
ho risposto niente, ma per Elena ho ben indovinato. Ella ha il presentimento
della venuta di Mosferatu.
Io
sono sicuro che è ciò; non voglio che quest’uomo venga.
Mio
Dio, proteggeteci, me e la mia benamata da questo demonio.
Lo
ucciderò, piuttosto, quest’assassino.
Una
successione di avvenimenti strani
Il
giornale di Giovanni Hutter che ci fu lasciato in eredità da una vecchia
contadina dei Carpazi e che ha rapporto con gli avvenimenti che si svolsero
nella città di Wisborg nella primavera del 1838, s’arresta di colpo dopo il
ritorno del giovane presso sua moglie.
Ma
sul quaderno di 250 pagine che ci pervenne, abbiamo trovato degli articoli
ritagliati da giornali, dei frammenti di un giornale di bordo, differenti
rapporti scientifici, e note personali che ci permisero di costruire gli
avvenimenti che successero a Wisborg in quest’epoca.
Tutte
queste carte sono estremamente interessanti; anzitutto perché permettono di
rendere conto della maniera con cui in pieno periodo romantico Tedesco si
sviluppasse fortemente il sentimento del terrore anche presso gli esseri dotati
di una coltura superiore e poi anche perché, malgrado tutte le spiegazioni che
si possano trovare oggi, capita ancora che certi racconti possono
particolarmente turbare.
Verranno
nel seguito della recita dei fenomeni che la scienza tenterà vanamente di
rendere comprensibili.
D’altronde al fine di non affidarci solamente ai soli
documenti di Giovanni Hutter abbiamo riunito noi stessi le note prese a Wisborg
intorno alla famosa epidemia e abbiamo constatato che l’autore del giornale che
pubblichiamo non aveva assolutamente esagerato. Si può anche dire che per
quello che è accaduto a Wisborg fra la popolazione, questi documenti non danno
che una pallida idea.
Abbiamo
raccolte tutte le informazioni che ci vengono da lui e quelle che abbiamo
trovate negli archivi della biblioteca municipale di Wisborg per scrivere una
pagina di storia che ha tutta la veridicità che si può esigere da un racconto
attinto alle migliori sorgenti.
Lettera di Bulwer a Giovanni Hutter a
Wisborg:
2
maggio 1838.
Caro
amico, sono spiacente d’essere obbligato ad assentarmi da Wisborg mentre vostra
moglie versa in uno stato di salute deplorevole. Voi sapete l’affezione che io
ho per Elena ed è per me soddisfazione profonda poterle essere utile e portare
qualche sollievo al suo stato.
Se
avessi avuto la certezza di rientrare a Wisborg prossimamente, non vi avrei
scritto e avrei risparmiato la lettera che vi invio avendo potuto essere più
chiaro a viva voce.
Ma i
miei affari di famiglia non hanno ancora termine ed io non saprei ancora
fissare una data precisa per il mio ritorno.
Ho
pensato che qualche notizia intorno a vostra moglie e qualche consiglio
avrebbero la loro utilità durante questi giorni di mia assenza ed è perciò che
mi permetto di indirizzarvi questa lunga lettera.
Mio
caro Hutter, non vi lusingate, vostra moglie versa in gravi condizioni.
Fino
al momento della vostra partenza per il castello dei conte Horlok, aveva
creduto di potervi dire che i turbamenti nervosi che abbiamo constatato e che
combattiamo senza riposo, potevano essere passeggeri e non costituivano sintomi
allarmanti.
Ma
dopo quello che è avvenuto durante il vostro viaggio, non saprei nascondervi
che la salute di Elena mi è causa di costante pensiero perché cerco invano il
mezzo di apprestarle un metodo di cura efficace e rapido. Non vi è dubbio,
vostra moglie subisce un malefizio. Quale? Io non saprei determinarlo ma mi
sembra che le letture alle quali essa si dedica e che parlano particolarmente
delle storie leggendarie dei vampiri siano indicazioni bastevoli per
determinare la sorta del malefizio al quale soggiace.
Come,
mi direte, si può supporre che un essere ragionevole si lasci prendere da
questi racconti e presti fede a queste fantasticherie che i nostri nonni ci
raccontavano la sera a veglia?
Io
non cerco di darvi spiegazioni perché quelle che potrei apprestarvi non soddisferebbero
probabilmente il vostro spirito positivo e vi stupirete che il vostro amico al
quale accordate qualche credito per la sua qualità di scienziato sia anche lui
sensibile alle superstizioni di cui condannate la balordaggine.
Pertanto
mio caro amico, io sono convinto che i vampiri esistono, essi non hanno quella
figura bizzarra che l’immaginazione popolare loro presta: alcuni li veggono
sotto forma di bestie strane che corrono nei cimiteri, aprono le tombe e si
nutrono di cadaveri.
Altri
se li figurano in forme di fantasmi, abitanti paludi, ovvero luoghi malsani,
che si precipitano durante le ore notturne sulle bestie e gli uomini stanchi
per succhiare il sangue. Non è così che io me li figuro, per me questi sono
uomini come gli altri e se io volessi darvi un idea di quello che chiamerei
vampiro in una città come Wisborg, vi manderei dal signor Ruok ed il conte
Horlok è anche un essere di questo genere, voi stesso avete con i vostri occhi
visto un uomo precipitarsi su voi, piantarvi nel collo le sue dita adunche e
succhiarvi il sangue. Questa non è semplicemente la visione di un maniaco.
Avete
creduto a qualche pazzia, vi siete giustamente atterrito e quando vi siete
rimesso dal vostro spavento a Wisborg, voi stesso mi avete esposto il terrore
che avete provato e la necessità di denunziare il conte Horlok alle autorità
mediche e giudiziarie per impedirgli di nuocere.
Anch’io sono del vostro avviso, ma la diagnosi non è
sufficiente. Né il conte Horlok né Ruok sono dei maniaci o dei pazzi.
Sono
propriamente dei vampiri della razza di Bélial, e Mosferatu è un essere che
farà parlare di sé molto più presto che non crediate, perché voi siete stato
attirato in casa del conte Horlok in una trappola di cui non supponete il
danno.
Che
vi ha detto il conte Horlok alias Mosferatu quando vi ha visto?
Egli
vi ha domandato il ritratto di vostra moglie.
E
che cosa vi ha rimarcato?
Il
suo collo.
Ecco
l’importante. Ecco quello che voi non avete compreso immediatamente ed ecco la
relazione che io stabilisco tra la malattia della signora Hutter e il vostro
viaggio al castello. Ma mi direte, noi siamo in piena fantasmagoria; il mio
bravo Bulwer è anche lui preso da una specie di pazzia ed egli vede vampiri
dappertutto.
Voglio
pure ammetterlo, e so bene che tutti i medici di Wisborg ed i sapienti della
nostra età saranno scettici davanti alle mie conclusioni, tuttavia...
Tuttavia
vogliate permettermi di farvi notare che il vampiro esiste; noi altri medici
conosciamo degli insetti che vivono sulle piante e che ammazzano per nutrirsi
dei loro succhi.
Meglio
ancora, esistono delle piante che vivono di sangue. Mettete nella corolla di
certi fiori la carne fresca e vedrete la corolla chiudersi; la carne e il
sangue sono a poco a poco assorbiti dal fiore il quale in tale maniera si nutre
e può anche svilupparsi.
Queste
sono quelle piante che si chiamano piante carnivore.
Anche
l’uomo stesso, non vive del sangue delle bestie?
Quanti
sacrifizi non si fanno tutti i giorni, simili a quelli dei nemici davanti al
loro Dio per nutrire la bestia umana! Perché vorreste che non esistessero
individui dall’intelligenza raffinata, dotati di un sistema nervoso ammalato, i
quali abbiano trovato negli esempi della natura, motivo e pretesto allo
sviluppo di strane passioni?
Questi
esseri credono fermamente che la loro vita dipenda dalla vita degli altri, e
come gli alchimisti credevano di formare gli atomi dell’oro mescolando a certe
combinazioni il sangue umano, così il vampiro, per vivere, crede di dover bere
e mescolare gli alimenti di cui si nutre col sangue fresco di uomo, di donna o
di fanciullo.
La
scienza dei demoni vi insegna che questa, in altri tempi era una passione
comune.
Non
v’è dubbio che vi sono ancora degli alchimisti e che la stessa scienza che li
ha condannati per così lungo tempo, non verrà un giorno nella loro ipotesi.
Dunque
stabilisco che il conte Horlok Mosferatu è un vampiro.
Egli
è inoltre una specie di stregone, cioè ha un potere sulla volontà a distanza.
Sono
persuaso che attualmente dissangua la nostra povera Elena come ha dissanguato
Ruok perché vostra moglie subisce la sua influenza e vive in suo potere.
Ecco
la spiegazione che mi sembra più chiara al caso nostro.
Che
rimedio, mi domanderete, bisogna apportare al male? Bisognerebbe che la mia volontà
fosse superiore a quella del conte Horlok, che la vostra lo fosse ugualmente, e
che i nostri sforzi uniti potessero stornare dalla malcapitata gli effluvi di
Mosferatu.
Presentemente
non veggo come noi possiamo riuscirci.
La
sola raccomandazione che vi faccio è quella di allontanare da Elena tutto ciò
che possa riguardare il vampirismo.
Provatevi
a farla stare quanto più sia possibile, in uno stato di gaiezza. Bisogna farla
passeggiare, procurarle delle distrazioni e non bisogna lasciarla sola alla
sera perché l’ombra è particolarmente propizia ai vampiri.
Ecco
tutto quello che io posso dirvi mio caro Giovanni e ne sono desolato, vi
assicuro che avrei desiderato darvi un rimedio immediato, tranquillizzare il
vostro spirito perché, dopo quello che vi è capitato durante il viaggio, voi
stesso avete certamente bisogno di grande riposo.
Pure ogni tanto bisogna riconoscere sinceramente che
la nostra scienza è impotente e che i cattivi spiriti si coalizzano contro di
lei senza speranza di poterli vincere.
Vi
domando scusa di questo mio atto di umiltà.
Credetemi,
vostro amico sincero e devoto.
Dottor
Bulwer.»
Nella
lettura di questa lettera Giovanni fu molto impressionato.
Dalle
sue note che non riproduciamo perché sarebbe fastidiosa e difficile la lettura,
si vede che il giovane incredulo per i primi istanti in seguito non cessò mai
di riflettere sugli strani problemi che gli aveva accennato il suo amico
Bulwer.
Egli
prese cura di allontanare dall’ammalata tutti i libri che potessero avere
influenza sul suo spirito.
Cercava
di distrarla con letture dilettevoli, la faceva passeggiare parecchie sere di
seguito, ma notava anche che i risultati dei suoi sforzi si sarebbero potuti
dire nulli.
Elena
era di giorno in giorno più stanca.
Verso
la metà del mese di maggio fu obbligato a stare 3 giorni a letto e durante la
notte ebbe degli incubi terrificanti.
Essa
vedeva, ai piedi del suo letto un uomo vestito di nero che la guardava
fissamente e cercava di comunicarle i suoi pensieri.
Alla
descrizione che faceva di questo personaggio notturno Giovanni Hutter credette
riconoscere il conte Horlok.
Quando
cala sera, Elena se è nel giardino si mette a correre dicendo che è inseguita
dall’uomo vestito di nero, e se durante la notte non vi era luce nella sua camera
credeva riconoscere in ogni angolo, in ogni nascondiglio, il suo persecutore.
Meglio
ancora, la lettura della gazzetta di Wisborg, del maggio 1838, ci fornisce
delle indicazioni molto serie sulla bizzarra atmosfera che cominciava a pesare
sulla città.
Non
si saprebbe notare niente di preciso, non si citano fatti sensazionali, ma
infine scorrendo qualche articolo che riporta i minuti avvenimenti della città
si nota che essi hanno tutti qualche cosa di cui non si potrebbe non essere
stupefatti.
Vi
sono dei suicidi di cui si ignorano le cause.
Vi
sono degli strani casi di pazzia e infine l’arresto del signor Ruok, il quale
fino a quel giorno era considerato come un commerciante onorabilissimo, ma come
uomo dall’andamento un po’ bizzarro, aveva passeggiato durante tutta la notte
del 18 maggio per la città gridando:
«Il
maestro viene! il maestro viene!».
Si
trova nella gazzetta questo curioso interrogatorio fatto dal capo di polizia di
Wisborg, in presenza di parecchi testimoni.
«Chi
intendete voi chiamare con la parole “il maestro” signor Ruok?».
«Il
maestro è il maestro».
«Ma
non potete dire chi porta questo nome, nel vostro spirito?».
«No,
è un segreto».
«Avete
ricevuto comunicazioni, lettere che vi permettono di dire che il maestro è in viaggio?».
«Sì».
«Si
tratta forse di una cospirazione contro lo Stato?».
«Lasciatemi
ridere...».
«Sarebbe
un attentato contro la religione?».
«Voi
non comprendete niente».
«Signor
Ruok fate attenzione alle vostre parole».
«Signor
capo di polizia voi siete un imbecille ed io ve lo dico come lo penso...».
La Gazzetta di Wisborg, non riporta la fine
dell’interrogatorio. Si capisce che il signor Ruok per ingiuria ai
rappresentanti dell’autorità imperiale, per mancanza di rispetto al funzionario
nell’esercizio delle sue funzioni fu imprigionato.
L’arresto
del signor Ruok fu d’altronde il punto di partenza di altri avvenimenti dei
quali non abbiamo trovato uno svolgimento logico nei fondi di Wisborg, ma che
si chiariscono singolarmente alla lettura del libro di bordo del capitano
Bergen, comandante il trasporto fluviale “Otto Friedrick”, il quale rimontava
il corso del fiume e veniva regolarmente dal mar Nero a Wisborg trasportando
mercanzie di ogni sorta.
Nessuno
dei documenti che ci son capitati sotto mano è più impressionante e più chiaro.
Noi
lo pubblichiamo integralmente come l’abbiamo trovato:
Giornale di bordo del capitano
Bergen, capitano del “Otto Friedrick” durante il suo viaggio dell’8 maggio a…
8
maggio:
Abbiamo
lasciato Belnitza con un carico di 12 casse di rhum, 38 botti di vino e 6 casse
oblunghe che vengono dalla Transilvania e che son piene di terra, a quanto mi
hanno detto. Queste ultime casse sono destinate a Wisborg.
«Si
direbbero delle bare», ha detto il mio comandante in seconda.
«È
vero».
«Le
ho messe nella stiva a fianco alla camera degli uomini per paura che là dentro
ci sia nascosto del contrabbando di guerra.
Queste
casse saranno segnalate all’arrivo a Wisborg alle autorità. L’equipaggio si
compone di 18 uomini, sempre gli stessi; del mio secondo, Rodolfo, e di me.
7
maggio:
Niente
di nuovo.
8
maggio:
Niente
di nuovo.
10
maggio:
Niente
di nuovo.
11
maggio:
Niente
di nuovo.
12
maggio:
Niente
di nuovo.
13
maggio:
Niente
di nuovo.
14
maggio:
Niente
di nuovo. Giovanni Jeff Warten è malato.
15
maggio:
Niente
di nuovo.
16
maggio:
Niente
di nuovo. Nella navigazione Jeff Warten è sempre malato. Antonio Moll,
Richesberg, Colten, marinai, sono ammalati.
17
maggio:
Warten
è morto, Richesberg agonizza, Moll sta molto male.
18
maggio:
La
situazione diviene molto seria; oggi nuovi morti e ammalati. Voglio fermarmi a
Strepen per avvisare il medico del porto.
19
maggio:
Siamo
arrivati a Strepen.
Il
medico è venuto a bordo ed ha visitato i miei ammalati.
«Ebbene?»
gli ho domandato quando stava per andar via.
«È lo scorbuto...».
«Voi
volete ridere...».
«Ne
ho forse l’aria?...».
«No,
ma sarebbe la prima volta che lo scorbuto scoppia a bordo del mio vascello che
fa delle navigazioni fluviali. I miei uomini mangiano la carne fresca e voi
certamente vi sbagliate dottore».
«Ah!
voi credete?».
«Ne
sono sicuro».
«Ebbene
li visiterò di nuovo». E il dottore ridiscese presso gli ammalati.
Quando
ritornò gli feci la stessa domanda ed egli mi rispose:
«Se
non è lo scorbuto io non vi capisco niente...».
«Un
vostro modo di vedere».
«Essi
non si lagnano di niente, quelli che hanno sintomi del male non sanno dir
niente, hanno male dappertutto...».
«Insomma,
non vi è nessun rimedio da provare?».
«Non
ne veggo alcuno».
«Nessun
consiglio?».
«Fate
loro bere dello spirito».
«Essi
non se ne privano mica».
«Allora...».
Non
mi rispose e se ne andò.
Sono
molto angustiato. Che debba fare?
20
maggio:
Non
ho tempo di far le mie note.
21
maggio:
Presentemente
vi sono 8 morti.
22
maggio:
Oggi
ancor 2 morti. Voglio fermarmi a Borleu.
23
maggio:
Ho
visto il medico del porto a Borleu. Gli ho domandato se si poteva lasciare il
naviglio in osservazione ed egli mi ha risposto che visiterebbe i miei malati.
Siccome
salvo il secondo, il norvegese Ansen ed io, tutti i marinai sono ammalati, il
dottore impiegò alquanto tempo per la sua visita.
«Ebbene?»
gli dissi quando lo rividi.
«Ciò
è strano».
«Lo
credo bene».
«Stranissimo...».
«Ma
quali sono le vostre conclusioni?».
«Non
so niente».
«Forse
non vi è un’epidemia a bordo?».
«Sì».
«Allora
debbo fermarmi nel porto?».
«Non
ne vedo l’utilità».
«Ma
infine, Dottore, non posso continuare il viaggio in questo stato».
«Prendete
altri marinai».
«Ma se
vi è un’epidemia come voi dite?».
Il
dottore si grattò sul capo, poi disse:
«Io
credo che questa sia un’epidemia di suicidio».
«Che
dite?»
«Penso
che questa sia un’epidemia di suicidio. Proprio così!».
«Ma,
dottore, non si riconoscerebbe quando un uomo si è ammazzato?».
«Senza dubbio. Ma qui si tratterebbe di una specie di
suicidio mentale».
«Mentale?
Che cosa significa?».
«Credo
che i vostri uomini quando non vogliono più vivere, allora muoiono...».
«Strana
spiegazione».
«Non
ve ne posso dare altre».
«Grazie,
dottore. Debbo dunque continuare il viaggio?».
«Vi
autorizzo, a meno che voi non abbiate paura».
«Dire
questo a me, che ho 35 anni di navigazione... No, sicuro».
24
maggio:
2
morti.
25
maggio:
La
situazione è disperata.
26
maggio:
Voglio
provare di parlare con un altro dottore a Fualda il quale è l’ultimo porto
prima di Wisborg. A bordo siamo rimasti in 6.
27
maggio:
A
bordo siamo in 6 di cui 2 ammalati. Non posso continuare la rotta. Non è che
provi qualche timore a navigare, perché il tempo è assolutamente calmo e non vi
è quasi niente da fare sul battello, provveduto che abbia di un uomo la barra,
ma infine ciò che avviene a bordo di questa nave non è naturale e non può
durare.
28
maggio:
Il
dottore del porto di Fualda mi ha domandato moltissime spiegazioni ed infine ha
detto:
«Che
cosa trasportate a bordo come mercanzia?» Glielo dissi.
«Nient’altro?».
«Nient’altro».
Egli
m’ha guardato con aria sospettosa.
«Capitano,
voi non dite la verità».
Benché
egli fosse un dottore, pure l’avrei schiaffeggiato.
La
mia parola non è stata mai messa in dubbio.
Ma
alla fine mi sono trattenuto.
«Vi
dico l’esatta verità».
«Non
mi nascondete niente?».
«Niente,
ve lo giuro».
Per
un momento pensai che egli visitando la nave avesse visto le scatole oblunghe e
si fosse immaginato che io facessi contrabbando di armi. Invece egli non ha
fatto accenno alle scatole e mi ha tenuto questo singolare discorso.
«Avete
osservato, capitano, i visi dei vostri uomini al momento della morte?».
«Sì,
dottore».
«Che
cosa avete notato?».
«Un
certo colore violetto coloriva il loro volto».
«Sì,
quasi come se fossero morti strangolati?».
«Sì».
«Non
avete mai inteso grida sul vostro bastimento?».
«No,
dottore».
«Erano
dei marinai nuovi o anziani?».
«No,
erano vecchi lupi di mare».
«Allora
ciò e straordinario».
«Ma
che cosa volete dire dottore?».
«Questo,
capitano, i vostri uomini sono morti di paura».
«Morti
di paura?».
«Sicuramente».
Non
ho potuto trattenere un’esplosione, evidentemente sconveniente di riso davanti
a questo idiota.
«Paura
di che?».
«Non
so niente».
«Ho
notato un fatto, e cioè che i vostri uomini dal momento che sono malati danno
l’impressione di uno scuotimento nervoso considerevole, di essere in uno stato
febbrile straordinario e gettano intorno a loro degli sguardi spaventati,
stravolti, e sono incapaci di pronunziare parola.
«Questi
sono i sintomi della malattia».
«Vero,
ma questa malattia è la paura».
Non ho
voluto discutere, ho stretto la mano a questo folle che al momento di andarsene
ha aggiunto ancora:
«Vi
è qualcuno sul vostro naviglio che terrorizza l’equipaggio? Siete sicuro del
vostro secondo?».
«Come
di me stesso, dottore».
«Non
avete trovato niente di sospetto sulla nave?».
«Nulla».
«Non
avete animali a bordo?».
«Nessuno».
«Nemmeno
un gatto?».
«No».
«Dovreste
averne».
«Perché?».
«Perché
sono animali utili, che concentrano gli effluvi nervosi».
«Che
rimedio mi consigliate, dottore?».
Egli
non rispose. Non so assolutamente che cosa pensare. Non veggo che una sola
salvezza ed è quella che arrivi a Wisborg il più presto possibile. Là almeno
scaricherò la nave e vedremo bene, dopo un inchiesta completa della polizia,
ciò che bisogna pensare di tutte queste storie.
29
maggio:
Ciò
che scrivo è spaventoso; se uno me lo raccontasse non lo crederei, pertanto
sono io che vivo queste ore tristi. Quale cosa atroce, anzitutto non siamo che
tre. A mezzogiorno il secondo è venuto nella mia cabina sotto vento e mi ha
detto:
«Capitano,
Hansen sta per morire».
«Dove?».
«È
caduto dal suo posto di guardia, sul ponte».
«È
possibile?».
«Certo,
l’ho trasportato nella cala, e comincia a fare come gli altri...».
«E
che cosa dice?».
«Niente».
«E
non ha pronunciato una parola?».
«Nessuna,
dacché è caduto».
«Va
bene, vegliate su di lui».
Il
secondo è andato a raggiungere il malato; è ritornato un quarto d’ora più tardi
tutto stravolto.
«Capitano,
vi sono dei topi nella cala».
«Dei
topi? Che cosa venite a raccontarmi?».
«Sì,
capitano dei topi enormi».
«E
donde escono?».
«Dalle
scatole».
«Quali scatole?».
«Dalle
scatole lunghe che abbiamo imbarcato».
«Eccomi,
vengo con voi a vedere».
Sono
disceso nella cala insieme al secondo e veramente ho visto dei topi grossi
quasi quanto gatti che giravano intorno ad Hansen, ma egli non li vede; ha gli
occhi completamente smorti, la sua pelle diventa violacea, respira
affannosamente e ho l’impressione che abbia ancora solo qualche ora di vita.
Mi
sono avanzato nella cala tanto quanto ho potuto ed ho verificato che veramente
le bestie erano sortite dalle casse che mi era sembrato contenessero armi di
contrabbando. Ho rotto il coperchio, ad una di queste casse ed ho visto che era
piena di terra. Che idea di trasportare la terra. Vi è qualche cosa che non è
naturale là dentro. Quello che mi aveva insospettito alla partenza ora mi fa
paura.
Perché
sono atterrito? Che cosa avviene sulla mia nave, io non lo so.
Mi
sembra ad ogni istante che la porta si apra e che qualcuno stia per comparire.
Veramente ho paura.
Non
ho detto niente a nessuno della mia paura, provo a dormire ogni tanto per
riposare i miei nervi stanchi ma non vi riesco.
30
maggio:
Hensen
agonizza. Il secondo entrato improvvisamente nella mia cabina mi ha detto:
«Capitano,
siamo perduti!».
«Perché
dite questo?».
«Io
non lo so, ma ho il presentimento che siamo perduti».
«Allora,
ragazzo mio, coraggio».
«Non
ne ho più, capitano, non ne ho più».
«Ma
che cosa avete?».
Egli
abbassò la voce e mi sussurrò all’orecchio:
«Ho
paura».
«Anche
voi?».
Mi
ha preso le mani:
«Wisborg
è ancora lontano di qui quaranta ore ed io sono sicuro che non vi arriveremo».
Ho
visto delle lacrime nei suoi occhi. Conosco il mio secondo, è un ragazzo di
un’energia a tutta prova e per essere in quello stato deve certamente sapere
qualche cosa.
31
maggio:
Hensen
è morto questa notte. Gli abbiamo reso gli onori funebri; giammai abbiamo
pregato con più fervore, perché questa volta abbiamo pregato non solo per lui
ma anche per noi. Per aver salva la vita; ma... l’avremo? Non ci conto più.
Alle
17 ho inteso correre il mio primo verso di me come un folle; è caduto per terra
arrivandomi vicino.
«Ebbene?»
gli ho detto.
«Sono
finito».
«Che
significa ciò?».
«Sono
un uomo morto».
«Dove
vi sentite male?».
«Dappertutto».
«Che
cosa vi è capitato?».
«Non
so nulla».
«Avete
visto qualche cosa?».
«No».
«Vi
supplico, se avete visto qualche cosa, se avete sentito qualche cosa
ditemelo».
Egli non mi ha risposto ed ha cominciato a
rantolare...
Mio
Dio, è la fine, il mio secondo è morto, abbiate pietà di lui. Abbiate pietà di
me.
1°
giugno:
Arriverò
a Wisborg?
Sono
solo a bordo, il bastimento cammina lentamente. Non oso abbordare nessuno dei
piccoli navigli che incontro perché ho l’impressione che io sia appestato. Ho
fatto segnale a un piccolo veliero, ma non mi ha inteso. Questa notte devo
restare alla barra: me lo permetteranno le mie forze? Tengo la barra dal
momento che il mio secondo è morto.
…Qui
il giornale propriamente detto, si arresta, ma nelle note di Giovanni Hutter
abbiamo trovato il racconto seguente fatto dal capitano qualche istante prima
della sua morte, all’ospedale di Wisborg.
Il 2
giugno a sera il capitano Bergen era alla barra dell’“Otto Friedrich”. Era
affranto dalla fatica. Per quale miracolo egli ha potuto resistere senza
soccombere per sì lungo tempo? Questa è una domanda che non ha avuto la sua
risposta.
In
tutti i modi egli era al suo posto e si aggrappava, si potrebbe dire, al suo nome
eroico per farsi coraggio e resistere fino all’ultimo, quando intese un rumore
strano che sembrava venire dalla cala e che secondo la sua espressione, faceva
tremare il bastimento sotto di lui, come un uragano.
Passati
pochi istanti, tutto ad un tratto, egli vide uscire dalla scalinata della stiva
una forma nera, lunga, stecchita; un essere umano dalla testa completamente
calva con gli occhi immensi, che avanzavano lentamente verso di lui con le
braccia tese come se avesse avuto l’intenzione di strangolarlo. Il capitano
lanciò un grido, l’uomo non si impaurì e continuò a marciare verso la barra. Il
suo viso era quello d’un morto, e se i suoi occhi non avessero rischiarata la
sua livida faccia, il ca-pitano avrebbe creduto di vedere lo spettro di uno dei
suoi marinai. Ma no, lo spaventoso personaggio era vestito di un lungo
soprabito nero e le sue mani erano assai caratteristiche.
Gli
ultimi istanti del capitano Bergen, sono stati occupati ad esaminare quelle
mani: delle mani fui dalle unghie immense, taglienti come coltelli e sottili
come aghi.
Il
capitano fece sforzi disperati per mantenersi alla barra; fatica perduta.
L’uomo era già su di lui; lo assalì alle spalle e lo rovesciò.
Il
capitano non potette più dire parola, si trascinò sul ponte dove l’avevano
trovato, quando il battello entrò a Wisborg. Condotto da chi?
Senza
dubbio da una mano misteriosa.
Secondo
il capitano, dall’uomo dalla testa di morto.
La peste di Wisborg
Si
legge nella Gazzetta di Wisborg del 4 giugno 1838:
Nel nostro
porto ieri è avvenuto un fatto inverosimile; è arrivata una nave senza
equipaggio, senza capitano, senza pilota. Erano quasi le 10 quando la vedetta
segnalò la nave “Otto Friedrick” che arrivava nella nostra città con 3 giorni
di ritardo. Delle voci correvano a riguardo della traversata che aveva fatto.
Si diceva che si fosse fermata in parecchi porti fluviali per pregare i dottori
di recarsi a bordo per constatare la morte di parecchi marinai.
La
nave s’avanzava molto normalmente e niente di singolare appariva. Pertanto la
vedetta si meravigliò di non vedere sul ponte gli uomini di equipaggio correre
qua e là per compiere i preparativi di sbarco.
Il
naviglio si diresse nel bacino dove aveva l’abitudine di ancorare.
Ebbe sì, qualche esitazione nell’ancorare ma, grazie
al personale del porto, la manovra si compì felicemente.
Il
personale del porto si precipitò sul ponte ma non trovò nessuno. Si trovò a
qualche distanza dalla barra, il capitano che sembrava morto e che fu
trasportato immediatamente all’ospedale. Visitando il battello fu trovato un
cadavere, quello del secondo e niente altro. Si passò allo scarico della
mercanzia e non si vide niente di sospetto. La sola cosa che merita di essere
rilevata è la grande quantità di topi che furono trovati nella cala. Uscivano
da lunghe casse di legno bianco riempite di terra che erano state spedite
all’indirizzo di un certo conte Horlok che sembra verrà ad abitare una casa in
rovina, che si trova fuori le mura della città in faccia alla proprietà del nostro
cittadino Giovanni Hutter. Durante tutta la mattinata i marinai ed i fanciulli
si sono abbandonati ad una vera caccia ai topi che ha permesso di mettere a
tavola ben 235 di questi roditori.
Abbiamo
domandato spiegazioni al Direttore dalla Scuola di Navigazione, professore
Giorgio Walter, sulla bizzarra traversata dell’“Otto Friedrick”.
«Bisognerebbe»,
ci disse, «che io consultassi il libro di bordo per sapere esattamente ciò che
è avvenuto; d’altra parte non posso comprendere come un bastimento possa dirigersi
da sé stesso e di più in un fiume. Potrebbe essere uno scherzo sul quale io non
saprei pronunziarmi seriamente».
Nello
stesso numero della Gazzetta di Wisborg era scritta una notizia a riguardo del
signor Ruok, il quale aveva dato segno di esaltazione così strana, durante
tutta la giornata del 2 e la mattinata del 3 che si fu obbligati a mettergli la
camicia di forza.
«Il
maestro è là; il maestro è là» gridava.
Voleva
uscire per vedere il maestro e stava per riuscirvi.
Eludendo
la sorveglianza dei suoi guardiani, era arrivato alla porta della prigione,
quando fortunatamente il corpo di guardia se ne accorse e potette rimetterlo
nelle mani dei suoi sorveglianti. Ora l’hanno chiuso in una cella, così questo
pazzo non è più pericoloso. Infine dalle note di Giovanni Hutter risulta che
giammai sua moglie passò una più cattiva notte di quella dal 2 al 3 giugno.
Fin
dal crepuscolo ella fu presa da forti accessi febbrili; andava e veniva nel
giardino di casa sua lanciando delle grida e urlando:
«Eccolo..,
eccolo...».
Ed
invano sua sorella, suo cognato e suo marito cercavano di calmarla. Ella che,
secondo il solito, si rifiutava di mettere piede fuori della sua proprietà
domandava di essere condotta in città per passare la notte sul porto.
Invano
le si fece capire che non vi era nessuna possibilità di accontentarla in questo
suo capriccio, ella si ostinava ad affermare che sarebbe morta se non la si
fosse accontentata in questa voglia perché, diceva, chi aspetta l’arrivo di un
personaggio importante deve stare al suo posto e sarebbe stato scortese il non
riceverlo con tutti gli onori dovuti alla sua alta dignità. Si pensò bene di
metterla a letto durante questo accesso di nevrastenia acuta, ma sulla
mezzanotte lanciò delle grida stridenti, dichiarò che l’uomo nero dei suoi
sogni abituali era seduto sul suo letto e non voleva andarsene.
Ella
si gettò sul fantasma e cadde così malamente che si ferì alla fronte. Questo
fatto non calmò la sua esaltazione; tre persone la tenevano, essa dava pugni a
destra e a sinistra e si agitava tanto che si credette di doverla trasportare
in una casa di salute. Fortunatamente durante la mattinata si calmò.
«Egli
è là, disse, mi ha perdonata e verrà a vedermi...».
E da
quel momento si mostrò di una perfetta dolcezza e di una squisita cortesia con
tutti.
Dalla
Gazzetta di Wisborg del 10 giugno 1838:
Ieri
mattina ebbe luogo alla residenza del governatore una riunione molto importante
sulla quale si mantiene il più assoluto riserbo, ma di cui possiamo tuttavia,
con l’autorizzazione della censura, dire al pubblico le cause che la promossero
e quello che si è stabilito.
Si
ricorderà che la scorsa settimana giunse in porto in maniera particolarmente
misteriosa la nave “Otto Friedrick” che conteneva delle casse piene di terra
dalle quali usciva un esercito di topi. Malgrado la caccia che è stata fatta a
queste bestie, alcune son riuscite ad entrare in città e da qualche giorno si
son constatati 4 o 5 casi di una malattia che ha tutti i sintomi della peste
nera. I medici che hanno esaminato gli ammalati colpiti da questa malattia
hanno deciso di prendere le misure più serie per tentare di localizzare il
male. È necessario inoltre che essi abbiano a loro disposizione tutte le forze
dell’amministrazione per poter riuscire nella loro fatica ed evitare a Wisborg
un flagello spaventoso. Il governatore, del quale si conosce la sollecitudine
per i suoi amministrati, ha promesso che sarà fatto tutto il necessario per
evitare e circoscrivere il flagello e noi siamo felici di poter rassicurare i
nostri lettori su questo punto.
Ma
durante il corso della deliberazione degli scienziati e dei principali
funzionari della città è avvenuto un incidente che è stato considerato come un
accesso di pazzia di uno dei nostri concittadini più stimati, il dottor Bulwer.
Intervento di cui noi racconteremo i fatti principali perché esso ha un
carattere abbastanza romanzesco per interessare tutti quelli che hanno della
fantasia.
Il
dottor Bulwer ha dichiarato che tutto ciò che si potesse fare per frenare
l’epidemia della peste nera era in effetto molto ben fatto, ma che ciò non era
un mezzo empirico di evitare un disastro.
«Voi
non avete una esatta visione del male», ha detto; «voi alle volte prendete
tutto troppo seriamente o troppo alla leggera. Io sono meravigliato che tra i
sapienti che sono presenti nessuno di voi, o signori, abbia stabilito un
rapporto con la presenza dei topi nei porto di Wisborg, ed il primo caso di
peste, come voi avete fatto, ma tra il singolare arrivo di questo naviglio
senza pilota e senza equipaggio e l’esplosione del male contro il quale voi vi
difendete giustamente».
«Molto
giusto il voler considerare gli avvenimenti d’al punto di vista umano; è
giustissimo prendere tutte le precauzioni dettate dalla scienza contro il
progresso di un male che spande il terrore, ma ancora bisognerebbe essere
sicuri che questo male non abbia un’origine più singolare di quella dei topi
che voi gli avete attribuito e che noi non siamo in presenza di uno di quei
fenomeni in cui il demonio rappresenta la parte principale».
A
queste parole tutta l’assemblea si riempì di clamori.
«Noi
non siamo qui», disse uno dei membri, «per ascoltare delle storielle da
femminette».
«Non
ci prendete per bambini», replicò un altro.
Ed un
funzionario poco rispettoso dell’ambiente dove si trovava, gridò:
«Al
pazzo, al pazzo».
Alcuni
vollero anche fare un parallelo tra il caso del signor Ruok e quello
dell’onorevole dottore Bulwer, ma si sa che quest’ultimo non si lasciava
facilmente intimidire. Egli riuscì a farsi ascoltare a forza di autorità.
«Signori»,
continuò, «è possibile vi contrari, è possibile che la voce del buon senso sia
oggi quella della follia, ma siate sicuri che io non mi sbaglio; vi è un
rapporto molto più certo tra l’arrivo della nave e la peste che non quello dei
topi col terribile flagello che si annunzia».
«Se
voi volete permettermi di lanciare più lontano le mie deduzioni, vi dirò che il
capo della polizia avrebbe il più grande interesse a dirigere i suoi passi ed anche
i suoi uomini verso quella casa abbandonata dove erano destinate le casse di
terra che trasportava l’“Otto Friedrick” e che sembrano, sia per la loro
provenienza che per la loro direzione, grandemente sospette. Chi è questo
individuo venuto ad abitare ai confini della nostra città, una casa da lungo
tempo in rovina, la quale non poteva far gola che ad un maniaco e ad un
criminale? Avete voi cercato di comprendere perché quest’uomo è venuto ad
abitare presso di noi? Si son prese delle informazioni sul suo conto?».
Qualcuno rispose che il conte Horlok aveva domandato
al Governatore generale di venire ad abitare a Wisborg, in un sito poco
frequentato dalla buona società della città ma che infine potrebbe avere molte
attrattive per un artista.
Il
conte Horlok era una persona sufficientemente conosciuta perciò non ci fu
bisogno di domandare altre spiegazioni.
Perciò
il Governatore aveva fatto bene ad autorizzarlo a venire nella città e ciò che
avveniva a Wisborg non aveva nessun legame con la presenza del Conte.
«Oh!
signori», concluse l’onorevole dottore, «io non insisterò ma mi permetterò
semplicemente di rimarcare che questo uomo potrebbe bene essere della razza di
Bélial e che se voi non vi guardate da lui non solamente il corpo, ma l’anima
della nostra città sarà definitivamente perduta».
La
razza di Bélial!... Giammai il palazzo del governo era risuonato di nomi
strani, così sconosciuti così bizzarri e il dottor Bulwer può vantarsi d’aver
provocato un vero scandalo.
Dopo
qualche giorno da questa riunione, manifesti erano stati attaccati ai muri di
Wisborg, redatti in questi termini:
Per
ordine dell’alto magistrato è vietato ai cittadini di trasportare malati
affetti da peste negli ospedali per evitare che questa malattia contagiosa si
propaghi nelle vie.
È
egualmente raccomandato di chiudere porte e finestre per evitare di respirare
aria infetta. Infine i convogli funebri, e gli interramenti, salvo
autorizzazione speciale dall’alto magistrato, dovranno avverarsi di notte
tempo. Le chiese e tutti gli edifici chiusi, sono interdetti i convogli a
servizi funebri, le celebrazioni religiose le quali saranno celebrate dal clero
nell’interno delle case dei defunti.
Questa
volta il dubbio non era permesso e la peste, poiché era ben quella, infuriava a
Wisborg. In Transilvania e nei porti del mar Nero, a Varna, a Galaz e lungo
tutto il Danubio si era scatenato il terribile flagello. Come era scoppiato?
Quando aveva avuto principio? Nessuno poteva dirlo.
Ma
infine, sembrava, se si fosse voluto tener conto delle dicerie degli abitanti
della città e dei villaggi in vicinanza del mare e del fiume, che la peste era
nata all’indomani del giorno quando il battello “Otto Friedrick” era passato
per i loro porti.
Dappertutto
si sparse un terrore folle.
Gli
abitanti delle grandi città fuggivano verso la campagna, si accampavano nei
campi, abitavano nelle foreste, in riva dei ruscelli, spingevano la loro corsa
vertiginosa fino alla montagna. Per qualche giorno vi fu un formidabile
avventurarsi che nessuno poteva arrestare.
Vedendo
arrivare in tal modo questo esercito impazzito di uomini, di donne e fanciulli
e constatando che lasciava al suo passaggio innumerevoli cadaveri, i contadini
terrorizzati alla loro volta lasciarono i borghi e le capanne e si
precipitarono verso la città. Avvenne come un’immensa caccia ai topi.
Non
si poteva calcolare il numero delle genti che moriva giorno per giorno e
malgrado il sole cocente di giugno, c’era la desolazione e la miseria.
In
breve tempo questo stato degenerò in vera guerra civile. Gli uni rimproveravano
agli altri la loro empietà, il loro libertinaggio. Ed è per quello che la gente
onesta doveva subire questo castigo del cielo, dicevano essi. Gli altri
accusavano la politica. I più facinorosi attaccavano la nobiltà e i ricchi
accusandoli di aver generato il flagello per entrare in possesso di tutti i
beni delle vittime disgraziate. Alla peste si aggiungeva la rivoluzione. Le
scene più spaventose di sommosse contro la nobiltà si svolgevano alle porte dei
castelli; i contadini affamati tentavano l’assalto alle dimore signorili e
pretendevano di nutrirsi saccheggiando. Nei sobborghi delle grandi città la
misera popolazione assaltava le botteghe. La polizia interveniva ma invano,
poiché essa stessa era decimata dal male.
A questo periodo di sommossa e di spavento che durò
una settimana successe una lunga quindicina di abbattimento.
Le
strade furono disertate; i campi erano pieni di tende dove non si vedeva
nemmeno traccia di vita. Gli animali, cavalli, buoi, porci, vagavano per i
campi e crescevano senza cure. Nelle città erano dolori generali.
A
Wisborg, se dobbiamo credere alle note di Giovanni Hutter, la vita era divenuta
orribile.
Dopo
il crepuscolo non era che una processione di bare ricoperte di drappi neri
trasportate da gente di buona volontà, rivestita anch’essa di cappe nere per
proteggere il viso e la bocca contro i miasmi pestilenziali, e si recava ai
cimiteri che rapidamente si riempivano.
Scrive
Hutter in data 25 giugno:
Durante
tutta la notte io non ho inteso passare che degli accompagnamenti funebri.
Tra
uno scalpitio sordo, si sentivano anche per qualche istante dei canti lugubri e
malgrado le invetriate chiuse si vedevano sulla via, al chiarore delle torce,
ombre vacillanti.
La
mia povera Elena è in uno stato straziante. Ella mi domandava che cosa è questo
rumore che si sente fuori.
«Niente»,
rispondo io, «è il rumore del vento».
«No,
sono gente che passano».
«Ma
no, ma no, tu hai la febbre».
«Che
cosa è tutta questa gente che cammina?».
«Ti sbagli
è la polvere che turbina».
«Ma
se non spira vento!».
«Noi
non possiamo sentirlo nella nostra stanza chiusa».
Così
io le racconto queste menzogne grossolane, come si fa ai fanciulli, perché essa
quasi ignora ancora la verità e non suppone il disastro che ci sconvolge.
Scrive
ancora Hutter in data 30 giugno:
Questa
mattina sono stato obbligato ad uscire per andar a cercare il dottor Bulwer
perché Elena ha avuto una crisi di nervi.
Le
strade sono completamente deserte, non si sente alcun rumore, non circola
alcuna vettura, tutte le finestre sono chiuse. La città ha l’aspetto di una
tomba. Ad ogni passo sembra che la sola persona che si possa incontrare è la
morte, vestita di un gran mantello fosco, ed io avevo tanta paura che mi son
messo a correre come se avessi avuto la falciatrice ai fianchi.
Il
tempo è splendido, pur tuttavia mi sembra che il cielo sia grigio. Un’atmosfera
soffocante pesa su Wisborg; si direbbe che il cielo abbia messo una cappa di
piombo sulla nostra città. In verità quelli che non saranno attaccati dalla
peste diventeranno pazzi.
Ed
in quest’epoca, esattamente il 10 luglio, il signor Bulwer durante una riunione
delle celebrità mediche di Wisborg, fece le seguenti rivelazioni che forniscono
d’altronde lo scioglimento di questa tragedia, come si vedrà in seguito.
E
fra le carte di Giovanni Hutter si trova precisamente il rapporto del suo
amico, noi lo riproduciamo integralmente.
Rapporto del dottor Bulwer fatto al
Governatore della residenza di Wisborg.
Signori
e cari colleghi, quando nel 10 giugno scorso vi ho messo a parte della mia
previsione a riguardo degli avvenimenti che si annunziavano nella nostra città
voi avete sorriso.
Venti
giorni sono passati; l’epidemia di peste sevizia ancora con intensità
prodigiosa. Il male fulminante ha già fatto a Wisborg, e nei dintorni più di
3000 vittime e voi non avete presa alcuna 35
decisione utile tranne quella che vi imponeva il
vostro sistema inutile e manchevole. Io ho il dispiacere di constatare che
nessuna idea filosofica, nessuna seria ricerca ha guidato i vostri sforzi e non
vi e nessuna speranza che l’epidemia che semina intorno a noi la morte possa
cessare domani. Vi ho lasciato intendere come meglio ho potuto, quali potevano
essere le cause del male, come le prevedevo.
Vi ho
detto e mi permetto di ricordarlo che vi è un rapporto molto più sicuro di
quello che voi non vi immaginate tra l’arrivo del battello “Otto Friedrick” e
la peste. Io vi dissi pure: chi è questo individuo che è venuto ad abitare alla
cinta della nostra città in una casa da lungo tempo in rovina? Avete cercato di
comprendere perché quest’uomo e venuto ad abitare tra noi? Avete preso delle
informazioni al riguardo?
Tutte
queste mie interrogazioni sono restate senza risposta; tutti i miei
avvertimenti sono restati lettera muta e nel momento in cui vi parlo centinaia
di persone sono sul punto di morire. Ebbene, o signori ciò che voi non avete
voluto fare ho fatto io. Ho svolto un’inchiesta, ho visto Ruok nella sua
prigione, sono stato nella casa in rovina, sono stato nelle montagne della
Transilvania. Sono stato fino al paese dei fantasmi. ho interrogato i contadini
ed ecco quello che ho appreso.
Il
giorno 6 maggio furono imbarcati a bordo del bastimento “Otto Friedrick” nel
porto di Belmitza, 6 casse di forma oblunga piene di terra. In una di queste
casse si è adagiato il conte Horlok, il castellano del paese dei fantasmi che
tra i demoni ha il nome di Mosferatu il Vampiro e del quale si legge nei libri:
dalla razza dei Bélial è nato il Vampiro Mosferatu. Egli si nutre di sangue
umano e vive in bare riempite di terra maledetta dei campi della morte nera da
cui il Vampiro trae, secondo quello che dicono, la sua forza di fantasma.
Il
conte Horlok, alias Mosferatu il Vampiro, il quale ogni notte levandosi dalla sua
bara, ad uno ad uno ha ammazzato tutti gli uomini dell’equipaggio dell’“Otto
Friedrick” è lui che sia col terrore sia per mezzo di topi, sorti dalla terra
della morte nera ha soppresso dopo i marinai anche il comandante della nave e
nell’ultima notte è lui che ha preso la barra ed aiutato dal vento della morte,
ha potuto condurre l’“Otto Friedrick”» fino a Wìsborg. È Mosferatu il Vampiro
il quale ha soffiato la sua anima demoniaca nell’animo di Ruok. Quest’ultimo da
più di due mesi ha dato segni evidenti della sua corrispondenza col conte
Horlok e, se poi lo vedeste ora nella sua cella lo vedreste rinascere perché
egli, dietro l’esempio del maestro, si nutrisce del sangue dei nostri morti. È
Mosferatu il Vampiro che ha fatto un sortilegio sulla moglie del mio amico
Giovanni Hutter, uno dei nostri più onorevoli cittadini, la quale,
presentemente senza darsi conto dell’epidemia che travaglia la città, vive
delle ore spaventose sotto la dominazione del mostro sanguinario. Chi dunque, o
signori, potrà sbarazzarci di Mosferatu? Non vi è che un solo mezzo ed io ve lo
indico. Il giorno in cui il Vampiro troverà davanti a lui una donna senza
macchia che si sacrificherà volontariamente concedendogli il proprio sangue e
trattenendolo fino al primo canto del gallo, il mostro morrà. Ciò è doloroso a
dirsi, ma d’altra parte non vi è altro mezzo per liberarsi di questo inviato
dal demonio.
Io,
signori, non soggiungerò niente altro a questa dichiarazione. Essa è
categorica, attendo le vostre smentite, attendo il grido di protesta della
vostra pretesa scienza, attendo le beffe della vostra incredulità. Ma per me la
verità è quella che vi ho detto e non aspetto la liberazione di Wisborg, che da
quella donna sconosciuta che vorrà pagare col suo sangue e la sua vita il riscatto
di tutti quelli che sono schiavi della morte.
È
pur verosimile che questa arringa un po’ ampollosa non avesse la sorte che il
dottor Bulwer aveva sperata, perché risulta dai registri del governatore che i
medici continuarono a lottare con i mezzi a loro disposizione contro il male, e
che chiesero anche aiuto e consiglio a medici stranieri, i quali, con un
coraggio degno di ammirazione, si affrettarono tutti verso la regione appestata
e si prodigarono generosamente, dando consiglio e cura a tutti gli abitanti
della città e della campagna.
Sfortunatamente
il risultato di tanta buona volontà fu nullo. Il numero dei morti fino al dieci
luglio non cessava di diminuire. I cimiteri, da lungo tempo riempiti si
stendevano in giro alla città di Wisborg come se essa fosse stata campo di una
sanguinosa battaglia; da ogni parte si organizzavano processioni e
pellegrinaggi per implorare la clemenza celeste, la quale non si manifestò
celermente.
Principalmente
i fanciulli erano colpiti e quando si passava per le strade di Wisborg, si era
assaliti dal rumore di singhiozzi, se vogliamo prestare fede a testimoni degni
di credito, perché da ogni casa veniva fuori l’espressione del dolore e del
lutto. Non vi era un’abitazione che fosse stata risparmiata, nemmeno una, tranne
quella di Giovanni Hutter.
È là
che noi troviamo la meravigliosa fine di questa funebre storia, in quella casa
così spesso visitata sia dall’amore che dalle lagrime, dove la povera Elena
trovò ancora una volta non solamente la generosità del cuore più tenero che
fosse al mondo, ma anche il coraggio di una vera eroina.
Il
racconto di questi ultimi giorni noi l’abbiamo trovato in un rapporto del
dottor Bulwer ed anche nelle note ufficiali degli archivi della Biblioteca
Municipale di Wisborg ove c’è conservato un pietoso ricordo della povera donna.
Il sacrificio
Malgrado
tutti gli sforzi che Giovanni Hutter aveva fatto per nascondere a sua moglie la
verità, malgrado la congiura di silenzio ordita dalla sorella e dal cognato, Elena
aveva finito per sapere che in città c’era la peste.
Essa
dapprima fu presa da gran dolore e subito dopo, quasi naturalmente, provò
grande terrore.
Si
presero tutte le precauzioni perché non respirasse l’aria appestata.
Si
provò di rassicurarla in tutti i modi, ma il nervosismo eccessivo trovava
troppa materia per sovraeccitarsi. Tanto che la malcapitata arrivò ben presto
in stato di demenza tale da doversi temer per la sua vita come se fosse stata
attaccata dalla peste.
Essa
passava il suo tempo cercando di nascondersi, perché continuava a vedere senza
posa l’uomo nero che la inseguiva e fu così che un giorno, da dietro la
vetriata scorse il viso del conte Horlok, che dalla casa in faccia alla sua,
era alla finestra e tentava di ipnotizzarla.
Quando
suo marito entrò nella stanza essa lanciò delle grida strazianti.
«Là...
là» diceva, «egli è là…». Giovanni credette ad un’allucinazione ma essa mise
tanta insistenza in questa sua affermazione, ed i suoi sguardi erano diretti
verso un punto così preciso, che egli non esitò ad aprire le invetriate, ed a
sua volta credette di venir meno.
Di
faccia a lui, nell’abitazione in rovina... inquadravasi in un cranio calvo e
dagli occhi lucenti: quei viso simile a quello della morte, era là.
Horlok
lo guardava.... Horlok sogghignava... Horlok tendeva verso di lui le sue mani
aguzze...
Quando
ritornò in sé pensò che poteva essere stato vittima di un’allucinazione; chiamò
il fratello e la cognata per accertarsene ma tutte e due videro la faccia
spaventosa di Mosferatu e tutti e due compresero che il signore della terra
della Morte Nera s’era allontanato da Wisborg e stendeva nella città le sue ali
mortali.
Ogni
cosa, a quella vista, fu chiara per Giovanni Hutter. Rivide, in un istante, il
suo viaggio al paese dei fantasmi, il terrore dei contadini, la fuga dei suoi
conducenti, la sua entrata nel castello bizzarro del conte.
Egli
si rivide alla sua tavola, risentì le espressioni:
«Che
grazioso collo ha vostra moglie».
Gli
sembrò ancora rivedere il miserabile tener nelle sue mani la miniatura dorata,
e pascersi in anticipazione del sangue di quella innocente.
Rievocò
la notte spaventosa che egli aveva passata essendosi Horlok precipitato su di
lui.
Poi
quando egli s’era salvato dal castello non era stato Horlok che aveva visto in
un sepolcro?
La
terra della Morte Nera. Tutto si spiegava.
Questo
demonio era stato attirato a Wisborg dalla bianchezza della pelle di Elena. Ed
era venuto là ad abitare. Come cacciarlo? Chi sarebbe potuto arrivare ad
ucciderlo?
Ma no, questi potevano essere anche dei folli
pensieri!
E se
lui pure fosse stato preso dal nervosismo di sua moglie? E se queste
allucinazioni non fossero che i primi sintomi della peste?
Chi
sa se il male non si presenti pure sotto questa forma strana? Tutti questi
pensieri turbinavano nella sua testa.
Egli
li esprimeva ad alta voce, provava il bisogno di farli conoscere, ne parlava
con Elena, perché subito si conoscesse che ella non aveva mentito.
Comprese
pure che il suo amico Bulwer aveva ragione. Cercava il modo come poter lottare
col mostro.
A
tutte queste domande egli però non trovava risposta.
Constatò
che a Wisborg nessuno si rendeva un esatto conto della situazione.
Dei
giovani che avevano visto il viso di Mosferatu nei riquadri delle sue finestre
senza vetri se ne erano fuggiti spaventati da quell’individuo spaventoso.
Parlarne
ai dotti della città era ugualmente inutile perché Bulwer aveva provato invano
di far loro comprendere che negli avvenimenti dell’ultima settimana vi era tale
uno scompiglio che passava il realismo di loro competenza.
Lo
stesso Bulwer, sia perché voleva tener segreto le sue cognizioni di demonologia
ed in particolare la sua conoscenza dei Vampiri, sia che presentiva che Mosferatu
avrebbe avuto per ultima sua vittima Elena e che questa disgraziata doveva
essere sacrificata in questa spaventosa avventura, restava muto.
Si
accontentava di portare diligenti cure alla moglie di Hutter pur constatando
che di mano in mano che il tempo passava il suo stato diventava ogni giorno più
inquietante.
Il
primo giorno del mese di luglio, siccome la peste continuava ad infuriare a
Wisborg e non avendosi alcuna speranza di potersene liberare, Giovanni Hutter
ebbe con sua moglie questo singolare abboccamento:
«Io
credo», mi disse Elena, «che sono per giungere tempi nuovi...».
Un
po’ meravigliato di questa frase cominciata in tono profetico Giovanni
interrogò:
«Che
cosa vuoi dire con queste parole mia cara?».
«Io
voglio dire che un giorno, e questo giorno è prossimo, Wisborg sarà liberata da
questa bestia maledetta e voi vivrete felici».
«Perché
voi?».
«Perché
io non vedrò la vostra felicità...».
Egli
la prese nelle braccia:
«Taci...
Come puoi tu dire queste parole?».
«Perché
esse sono l’espressione della verità».
«Ma
vi sarà per me felicità, mia cara Elena, ove tu non sarai?».
«Ma
sì, mio amato Giovanni, tu e tutti gli altri riprenderete gusto alla vita, il
Vampiro sarà distrutto sopra la sua opera di morte». Poi continuò a divagare
senza che Giovanni potesse comprendere il senso delle sue parole.
«Il
figlio Bélial... deve morire come gli altri. Mosferatu, abitatore di bare, deve
un giorno ritornare alla terra e marcire tra i vermi come un semplice mortale,
perché il male è il male e la sua potenza per quanto forte sia, non potrà mai
vincere quella di Dio...».
“Il
giorno in cui il Vampiro troverà una donna pura e senza colpa che si
sacrificherà volontariamente e gli darà a bere il suo sangue durante tutta la
notte fino al primo canto del gallo, in quel giorno Mosferatu, figlio di
Bélial, morrà, e la terra sarà liberata da lui”.
Tutta
lo notte ella si esaltò in questi pensieri, tutta la notte pronunziò parole
incoerenti, ma pertanto i suoi occhi erano fissi nella direzione della casa del
conte Horlok, e sembrava sfidarlo.
Giovanni
tentava invano di calmare la sua febbre. Le raccontava le storie del loro
passato, voleva ricordarle la sua infanzia, i teneri proponimenti d’amore
d’altri tempi; essa posava qualche istante i suoi occhi sul viso del suo amato
ma non vi attardava lo sguardo.
«Sì...
sì...» diceva «ma ora non è tempo d’amore...».
Egli si disperava, credeva che tutto ciò fosse il
risultato di una spaventosa crisi di follia. Vegliava vicino al letto
dell’ammalata e si sforzava del suo meglio a nascondere e dissimulare la
finestra maledetta dalla quale passavano gli effluvi del conte Horlok, ma non
vi riusciva.
E
quando egli stesso si alzava, sia per prendere tra le braccia la sua Elena, sia
per apprestarle qualche pozione calmante, ordinata da Bulwer, gli sembrava di
vedere nell’oscurità il cranio nudo e funebre di Mosferatu, ed era preso dalla
voglia di fuggire.
In
tali momenti non erano bastevoli tutta la sua forza d’animo e tutta la sua
tenerezza per la donna amata a trattenerlo al suo capezzale.
Passarono
così ancora alcuni giorni poi il 10 luglio, successe la tragedia.
Durante
il giorno Elena si era mostrata particolarmente calma e si poteva credere che i
nervi si fossero calmati.
Aveva
parlato dolcemente con sua sorella e col cognato; aveva scambiato qualche
tenerezza col marito. Era stata così tranquilla che suo marito le chiese la
sera di poter riposare, permesso che ella gli accordò volentieri perché, diceva
essa, devi essere ben stanco.
Essa
disse dunque addio a tutti i famigliari, e quando fu sola nella sua camera,
prese la precauzione di chiudere la porta a chiave il più dolcemente possibile
perché non fosse inteso il rumore della chiave nella toppa, indi si coricò e
stette a letto fino a mezzanotte.
Essa
però non dormi: aveva tra le mani quei libri strani che altre volte le erano
stati vietati e che, malgrado la sorveglianza più severa, era riuscita a
leggere sempre.
Leggeva
le pagine con attenzione profonda e con tale interesse che si indovinava sul
suo viso dall’espressione severa del suo sguardo e dai suoi lineamenti
contratti. Non sembrava sovreccitata come d’abitudine, ma apparve concentrasse
la sua volontà e i suoi sforzi per non farsi distrarre da alcuna cosa.
Finalmente
suonarono i dodici colpi di mezzanotte.
Al
disopra della città deserta in un silenzio quasi sepolcrale le ore cadevano
come colpi di martello d’un falegname che inchioda una bara. Elena si alzò. Si
diresse verso la finestra e la spalancò. La notte era rischiarata dal chiaro di
luna, in cielo milioni di stelle. Al di sopra dei tetti e dei campanili della
città avvelenata sembrava regnasse un’atmosfera di serenità, di serenità che
ispirava pensieri caritatevoli e che poteva ispirare alle anime illuminate il desiderio
di sacrificarsi perché la terra fosse felice come il cielo. Elena come respirò
l’aria della notte, ebbe un brivido il quale non era dovuto solo ad impressione
di freddo ma anche perché di faccia a lei, nella casa in rovina, ella aveva
visto, come già vedeva da parecchi giorni, ma con una chiarezza ancor più
precisa la figura di Mosferatu, le sue lunghe mani tese verso di lei ed i suoi
sguardi di fiamma che sembravano riflettere l’inferno. Essa non abbassò lo
sguardo. Per la prima volta si sentì eguale a quell’uomo e pregustava con
terrore misto ad orgoglio la gioia certa d’essere, prima del sorgere del nuovo
giorno, la martire volontaria e grandiosa del miserabile.
Infatti
fu lui che subì il suo fascino.
Come
spinto da una forza interna di cui non era padrone, egli lasciò la finestra che
occupava abitualmente, discese gli scalini della sua casa, brancolando ed
attraversò il ponte del castello. Elena aveva visto la sua ombra fantastica,
smisuratamente ingrandita dal chiaro di luna che sembrava velare di crespo
tutta la città.
Il
Vampiro arrivò presso la casa di Hutter. A questo punto essa non si rese conto
di come Mosferatu fosse giunto fino a lei. Nessuno lo seppe mai. Tutt’ad un
tratto l’uomo nero si trovò vicino ad Elena.
Essa
non tremò più. S’era rimessa a letto, attendeva che il conte Horlok fosse suo
ospite, e pregava. Egli si avvicinò a lei lentamente, i suoi passi non facevano
rumore sul tappeto tanto che si sarebbe detto che scivolasse sulla lana e che
invisibili ali lo portassero da un posto all’altro della stanza come un angelo
nero. Essa aveva i suoi grandi occhi aperti e lo sfidava, sentiva che suo
malgrado egli andava verso il suo destino mortale e ciò le dava un gran
coraggio.
Tuttavia, quando vide sulle sue lenzuola bianche
quell’enorme pipistrello, quel cranio lucido, quegli occhi gialli lucenti di
fosforo, quelle unghie taglienti, acute, simili a dieci lame che avrebbero
ghermito il suo collo, trasalì e non osò più guardare il conte.
Lanciò
un piccolo grido tosto soffocato perché si aspettava quell’attacco, ed
istintivamente portò le mani al collo.
Ma
Mosferatu non aveva fretta di bere la vita a questa coppa di risurrezione; egli
contemplava Elena, la toccava con le sue mani agghiacciate, sorrideva,
indietreggiava, andava verso la finestra e sembrava cercare negli astri non si
sa quale magica ispirazione.
Dopo
di che si avvicinava alla donna, posava sul suo collo le sue dita crudeli, poi
indietreggiava di nuovo, andava e veniva verso la stanza, e gioiva come avrebbe
fatto uno sciacallo davanti alla preda sicura.
Elena
respirava appena; viveva come in sogno, come alla fine di un incubo, quando lo
spavento che si è subite va sparendo, e nella semicoscienza che precede il
risveglio non resta che il dolore dell’incubo stesso.
L’angelo
nero indugiava. Essa non chiedeva niente di meglio. Non potrebbe egli passare
così tutta la notte? Non potrebbe egli compiacersi di guardarla tutta la notte
fino all’aurora, quando il canto del gallo colle sue note gioconde avrebbe
celebrato la liberazione del mondo?
Il
conte Horlok s’era seduto. Non erano più gli occhi di Elena che lo
affascinavano, era il suo collo, quel collo bianco del quale aveva parlato con
tanto lirismo a Giovanni Hutter; quel collo che egli aveva sospirato come un
fiore. Quel collo che era a sua volta un giglio, una rosa rosa, un calice, che
aveva la morbidezza del velluto ed il calore del sangue, che aveva la gioia e
la vita.
Quel
collo che era come un’ala bianca, quel collo che attirava l’angelo nero come
l’angelo della luce abbaglia il demonio.
Egli
si levò, ritornò verso il letto, carezzò con una mano che si sforzava di
rendere quanto più dolce fosse possibile, quel collo delizioso.
Poi,
calmato dal suo contatto tornò a sedersi nella poltrona e si saziò di intimi
piaceri come l’avaro che calcola le soddisfazioni che proverà dalle sue
ricchezze prima di tenere il suo oro tra le mani.
Ad
un tratto si decise. Si precipitò verso Elena, l’afferrò per la gola, le ficcò
le unghie nella carne e golosamente, come una bestia bevve il sangue che usciva
dalle piaghe, ogni goccia del quale ridava alle sue membra rigide il calore e
la giovinezza…
Elena
s’era dibattuta appena. Ella era già in estasi soffriva quell’atroce
sofferenza, quelle mani impure, quella bocca immonda, perché aveva davanti ai
suoi occhi, il più bello spettacolo che un mortale possa contemplare, quello di
un paradiso celeste, dove le legioni immortali degli angeli suonano per quelli
che si sacrificano, le loro trombe d’oro.
E
questo canto trionfale, questo canto che “fa crollare la notte come un Gerico”
risuonò pronto dopo di lei, riempì la sua camera coi suoi inni chiari di sole,
si sparse sulla città in onde sonore, batté a tutti i vetri di tutte le case, a
tutte le capanne, rabbrividì negli alberi, aleggiò sulle messi. Era il canto
del gallo che diceva a Wisborg, agli abitanti della città, ai contadini dei
sobborghi: «la peste è finita; il Vampiro è morto».
Infatti
si sentì nella camera di Elena un gran rumore, con un colpo di spalla Giovanni,
sua sorella e suo cognato penetrarono nella camera dove riposava Elena. Quando
arrivarono furono inchiodati sul posto per lo spettacolo inaspettato che si
presentò ai loro occhi; il conte Horlok con il viso decomposto, verde,
rosicchiato dalla putrefazione, era disteso sul tappeto ed in una gloria bianca
come un grande fiore intagliato, Elena sul suo letto riposava più bella
dell’aurora.
Giovanni
si gettò su lei la prese fra le braccia e la avvicinò al suo cuore; ella non si
mosse, ella non respirò, il cuore non batteva più, ma aveva sulle labbra il
sorriso rasserenato della felicità.
E
nell’istante che Giovanni la depose sul suo letto tutte le campane di Wisborg
si misero a suonare e mischiare il loro suono al canto di tutti i galli della
città.
Tutti
erano usciti sulla soglia dalle porte malgrado l’ora mattinale e verso il cielo
s’innalzava il grandioso concerto al Signore.
Bulwer si presentò a Giovanni, lo trovò così desolato,
sì disperato che non osò dirgli nulla. Ma pigliando in disparte il cognato
della morta:
«Beneditela»,
disse, «vantate le sue lodi, è a lei che noi dobbiamo la fine del flagello.
Così
abbiamo potuto ricostruire dai documenti che abbiamo avuto nelle mani, questa
storia che ci ha raccontato una sera nei Carpazi una vecchia arzilla.
Noi l’abbiamo raccontato così come si raccontò sempre ai fanciulli dei lontani paesi della Transilvania; e la terra dei Fantasmi oggi sbarazzata dal conte Horlok, le praterie verdeggianti, gli alberi fruttiferi e il grano hanno sostituito le paludi pestilenziali, e hanno trasformato, per il bene degli uomini, la terra della Morte Nera. FINE.