CarloRomano

pirati, repubblicani, canaglie di tutto il mondo

È risaputo che Eugène Delacroix dipingendo La Libertà che guida il popolo si sia rifatto a episodi popolari accaduti durante le giornate rivoluzionarie del Luglio 1830, in  particolare a quello di Marie Deschamps (che aveva raccolto il moschetto di un cittadino morto per usarlo nuovamente contro le guardie) e a quello di Anne-Charlotte D. (della quale si vociferava avesse ammazzato nove soldati). Ma potrebbe anche darsi che fra le sue fonti di ispirazione ci fosse pure l’Allegoria della pirateria, che comparve la prima volta nel 1725 a illustrare la traduzione olandese, poi ripresa nelle edizioni successive, della storia dei pirati del capitano Charles Johnson (sul quale è stata avanzata l’ipotesi che altri non fosse che Daniel Defoe). Nel 1830 erano accessibili diverse traduzioni francesi del libro, ed è noto come Delacroix (che lo appunta nel diario) esaminasse con attenzione stampe ed incisioni popolari quando progettava i suoi quadri. Ciò che in ogni caso colpisce nelle due immagini è la somiglianza della composizione,  in cui spicca, fra altre analogie, la donna a seno nudo che regge il vessillo - quello francese nel quadro e il Jolly Roger (il celeberrimo “teschio e tibie”) nell’incisione. Niente di tutto questo può essere provato, ma si sa che il pittore stava leggendo The corsair  di Byron quando dipingeva la Libertà. Ne fa cenno Marcus Rediker, storico dell’Università di Pittsburgh, nell’ultimo dei suoi libri dedicati alla pirateria tradotto in italiano da Elèuthera, Canaglie di tutto il mondo (gli altri sono Sulle tracce dei pirati, Piemme 1996, e, con Peter Linebaugh, I ribelli dell’Atlantico, Feltrinelli 2004). Che la pirateria possa rientrare a buon diritto nella sensibilità romantica e che la figura del pirata possa coincidere con il tipo del ribelle byroniano non ha bisogno di alcuno sforzo immaginativo. D’altro canto, non si insiste mai abbastanza su come i pirati si siano alimentati di spirito libertario, repubblicano e cosmopolita. A chi gli chiedeva la provenienza - avesse la pelle bianca, nera o caffelatte – un pirata, di norma, rispondeva che veniva “dal mare”, e non dall’Inghilterra, dalla Spagna, dall’Africa o altro. La pirateria era un modo per staccarsi una volta per tutte da un sistema di vita fondato sulla rottamazione degli esseri umani, sull’indigenza, sulla negazione delle pulsioni individuali e sull’obbedienza. Avendolo conosciuto nell’espressione essenziale della sua natura a bordo delle navi ufficiali, ribaltarono sulle imbarcazioni che avevano conquistato le regole inique cui erano stati sottoposti. Le cariche divennero così elettive e i bottini equamente divisi. Fra l’altro, nella seconda metà del XVII secolo, non era raro ritrovare fra chi si dedicava alla pirateria uomini che provenivano da esperienze maturate fra i levellers e i ranters, vale a dire nelle correnti radicali osteggiate da Oliver Cromwell nel corso della sua dittatura puritana. Non va poi trascurato (ed è questo l’argomento principale del volume di Rediker e Linebaugh citato sopra) che nello stesso periodo, attizzate da diseredati di varia provenienza, esplodevano rivolte nelle manifatture, nelle piantagioni e nei porti dell’Atlantico, cosicché la pirateria, mentre alimentava con l’esempio una possibile idea di riscatto, andava a costituire una concreta via di fuga dalla brutalità delle repressioni che ne seguivano. L’apice di questa storia di scorrerie navali, per quantità di protagonisti e qualità dei successi, è da collocare nei primi decenni del Settecento, e sono i pirati di questo periodo quelli che ancora continuano a suggestionare la cultura popolare. È a quest’epoca, l’epoca d’oro della pirateria, che Marcus Rediker ha consacrato Canaglie di tutto il mondo, la cui edizione originale è uscita un anno fa (ma l’autore vi ha iniziato a lavorare nel lontano 1976). Di grande potenza evocativa, non meno che di puntigliosa ricerca storica, avvincente nella lettura, forte e persuasivo nella tesi sovversiva, il libro si apre nel luglio del 1726, a Boston, con l’impiccagione di William Fly al cospetto del pastore congregazionista Cotton Mather. Questi – i cui scritti sono uno dei fondamenti della letteratura americana e che allora, probabilmente, era l’uomo più famoso delle colonie inglesi – aveva avuto non poche responsabilità nei processi alle streghe. Assistendo all’impiccagione si aspettava dunque una qualche remissività e il pentimento. Fly non lo accontentò, affermò viceversa di non aver paura di morire e di “non aver fatto torto ad alcuno”.

“Il secolo XIX”, 5 dicembre 2005