Alfredo Passadore
Russia e Nabokov
Il prossimo Aprile sarà, per il Museo Nabokov di San Pietroburgo, un mese di importanti e significative iniziative: si celebreranno infatti il trentennale della morte dello scrittore, avvenuta nel luglio del 1977 a Montreux in Svizzera, e i primi 70 anni dalla pubblicazione de Il dono, la più importante delle sue opere scritte in russo. Difficilmente Vladimir Nabokov avrebbe mai potuto immaginare che la sua casa natale, nella capitale degli Zar diventata nel frattempo città di Lenin, sarebbe stata trasformata in un museo a lui dedicato. Ma se trent’anni nella storia della letteratura rappresentano spesso poca cosa, nella cronaca possono essere più che sufficienti per mutamenti addirittura epocali.
In quel bel palazzo sulle rive della Neva il
giovane Nabokov aveva vissuto per 18 anni, fino al giorno della fuga
precipitosa all’indomani della Rivoluzione che avrebbe portato la sua famiglia
dapprima in Inghilterra, dove Vladimir studierà al Trinity College di
Cambridge, e poi nel 1923 a Berlino. Qui resterà fino al 1937, quando “un’altra
mostruosità che aveva cominciato ad annunciarsi con il megafono” lo costringerà
a partire in un primo tempo verso la Francia e poi per gli Stati Uniti. Figlio
di una altolocata famiglia della miglior nobiltà russa, il nonno era stato
un’eminente personalità del governo zarista e il padre un importante
rappresentante della corrente dei Cadetti, con cui venne eletto alla prima Duma,
il giovane Nabokov era vissuto come il ben protetto virgulto di una casta di
privilegiati. Andava a scuola accompagnato da un autista in Rolls-Royce e
mostrava sin da adolescente un compassato distacco nei rapporti sociali. Solo
la sua abilità nel gioco del calcio, dove si distingueva come portiere, lo
rendeva meno alieno ai suoi compagni di classe. Dopo la fuga dall’amata Russia,
un’altra tragedia, a Berlino, ne segna irreparabilmente la vita: il padre, Vladimir Dmitrievich Nabokov viene ucciso
mentre partecipa ad un convegno con il suo maggiore comcorrente politico
nell’ambito dell’emigrazione democratica russa, Pavlev Miliukov, quando cerca di disarmare due terroristi che volevano
attentare alla vita di costui. Il suo assassino risulterà essere Piotr Shabelsky-Bork,
già affiliato all’Okhrana, la polizia segreta zarista, sospettato di essere uno
degli artefici della provocazione dei Protocolli
degli Anziani di Sion e destinato a divenire amico intimo del teorico
nazista Alfred Rosemberg.
A Berlino Nabokov compone buona
parte delle sue opere in russo, di cui sicuramente Il dono rappresenta l’apice più sublime. In questo romanzo,
pubblicato proprio l’anno della sua definitiva fuga da una Germania ormai
avviata verso la fosca tragedia hitleriana, lo scrittore dà pienamente corpo
alla sua travolgente passione per la
letteratura, scrivendo quello che può essere considerato come il suggello più
geniale di due secoli di grande narrativa e poesia russa. E avvia anche una
feroce polemica contro l’arte utilitarista, posta al servizio di un fine
sociale assai più pressante di qualsiasi questione estetica. Il riferimento,
evidentemente, è al realismo sovietico allora imperante, ma non solo.
L’occasione scatenante è il quarto capitolo del libro, una biografia di Nikolaj Chernyshesvski, l’autore
del Che fare, il romanzo più amato da Lenin e da buona parte
dell’intellighentia progressista dell’epoca. La scrittura di Nabokov è al
vetriolo, i riferimenti a Pushkin e Gogol rendono al povero Chernyshevski la
statura di un nano maldestro: quello che, per molti intellettuali contemporanei,
appariva come il prototipo di una opposizione onesta e coerente alla tirannia
zarista, disposto al martirio pur di affermare i propri ideali, diventa, sotto
la penna sulfurea di Nabokov, un povero derelitto vittima dell’ingenua visione
di un mondo che sembra esistere solo nella sua testa. L’arte non può essere
semplicemente piegata al servizio di una qualsiasi causa che si prenda per
buona, ma all’opposto è la trama segreta della nostra esistenza ed è paradossalmente
la vita stessa che dovrebbe imitarla,
facendosi, per brevi folgoranti tratti, arte essa stessa. Un’interazione, questa
tra vita e creazione, che la storia editoriale del libro sembra ironicamente voler
ribadire: nel romanzo, il protagonista, poeta e autore della contestata
biografia, non trova chi sia disposto a pubblicargli quella storia oltraggiosa.
E anche nella realtà quel capitolo resterà
a lungo inedito, avendo urtato troppe suscettibilità.
Ma Il dono non è solo questo. E’ un gioco raffinato ed enigmatico
di citazioni incrociate e nascoste, dove Nabokov occulta il suo sterminato
sapere di letterato, ed è pure l’occasione per dare indirettamente sfogo ad
altre due delle sue passioni più profonde, le farfalle e gli scacchi. Di
farfalle lo scrittore non era semplicemente un appassionato, ma un vero e
proprio studioso, al punto che l’università di Harvard gli affiderà l’incarico
di curatore della propria collezione di lepidotteri. E questi meravigliosi
insetti, alla cui caccia in Mongolia e Tibet il fantomatico padre del
protagonista de “Il Dono” dedica la sua intera esistenza, sembrano ribadire
l’idea di una natura che, ancora una volta, pare voler imitare quel sapere sublime
di cui, misteriosamente, il nostro mondo sarebbe intimamente innervato.
Nel 1940 Nabokov, che insieme
alla moglie Vera aveva abbandonato Berlino per Parigi, fugge definitivamente
dall’Europa in guerra. Il suo arrivo in America corrisponderà al passaggio
definitivo all’uso della lingua inglese ed alla successiva esplosione
improvvisa e globale della sua fama. “Non sono io ad essere famoso, ma Lolita”,
amava ironicamente ripetere dopo la pubblicazione del suo libro più conosciuto
e controverso. Un romanzo perseguitato dall’accusa di pedofilia che in qualche
modo viene ribaltata anche sul suo autore. Un libro che in tantissimi leggono,
attratti dalla torbida storia tra la dodicenne Lolita e il maturo Humbert
Humbert, ma che probabilmente in pochi capiscono davvero. Enigmatico come tutte
le opere di Nabokov, più che sulla perversione è un libro incentrato sulla possessione,
un ironico omaggio a Poe e ai suoi demoni. E il povero Humbert, più che ai vizi
di Playton Place, rimanda al Bloom di Joyce, quello protagonista dell’incontro
con le Sirene, o quello più tragicomico dell’onanismo notturno con una serafica
Nausica sulla spiaggia di Dublino, che Nabokov non ha mai nascosto essere una
delle sue scene preferite in Ulisse.
Molto “nabokovianamente”, il
fraintendimento pruriginoso di Lolita
regala al suo autore la definitiva indipendenza economica, lasciandolo libero
di dedicarsi a quello che molti considerano il suo capolavoro americano, “Fuoco
Pallido”, ancora una storia incrociata ed enigmatica, complessa come una mossa
di scacchi, che ruota attorno a un poema
e all’amore per la Russia, per la letteratura e le citazioni subliminali. Nei
suoi ultimi anni americani Nabokov, prima del definitivo trasferimento in
Svizzera nel 1960, si dedica oltre che alla scrittura all’insegnamento
universitario. Lavora, tra le altre, alla Cornell University dove occupa la
cattedra di Letteratura Russa ed Europea. Sarà l’occasione per una serie
memorabile di lezioni, che prenderanno corpo in due preziosi volumi di saggi, e
per un incontro a suo modo emblematico. Alla Cornell infatti studia anche il
giovane Thomas Pynchon, destinato a diventare il maestro indiscusso del romanzo
postmoderno americano. Uno scrittore che, se ha sempre celato la sua vita privata
in una segretezza leggendaria, non ha però mai nascosto la diretta influenza
che Nabokov ha esercitato sulla sua ispirazione creativa.
Si compie così, idealmente, un
passaggio cruciale della storia letteraria del Novecento, di cui Nabokov
rappresenta sicuramente uno snodo imprescindibile: posto all’epilogo ideale
della grande tradizione russa, di cui Il
dono segna un suggello a suo modo grandioso e struggente, attraverso i
suoi anni americani diventa l’antesignano della più profonda rivoluzione del
gusto letterario della seconda metà del secolo, influenzandone in modo
permanente il più geniale degli autori. Le celebrazioni del trentennale della
sua morte, nelle intenzioni dei curatori del Museo di San Pietroburgo,
dovrebbero servire anche a far capire a tutti che Nabokov, più che l’inventore
delle ninfette, è uno dei colossi intellettuali del secolo appena trascorso.
“Il secolo XIX” 5 marzo 2007