Alfredo Passadore
Edward Bunker, un profilo
Quando Edward Bunker comincia a scrivere Stark, nel 1963, è un rapinatore trentenne in carcere per la quarta volta, che non ha in pratica alcuna chance di destare il minimo interesse nel mondo editoriale circostante. Ma non è tipo da lasciarsi smontare per così poco: vende una pinta del suo sangue e, con i soldi ottenuti, come ha già fatto per svariati racconti e un pugno di romanzi precedenti, spedisce il manoscritto ad un editore londinese. Dove rimarrà, completamente ignorato, fino ad oggi, quando a poco più di un anno dalla morte del suo autore, vede finalmente la luce. Nel frattempo quello di Bunker è diventato un nome di culto che conta, tra i suoi devoti, personaggi del calibro di Quentin Tarantino o James Ellroy. La sua è oggi sicuramente la firma più famosa in quella galleria di criminali-scrittori che hanno avuto grande fortuna in America, a cominciare dal mitico Willie Sutton, rapinatore di banche e maestro di evasioni, autore del celebrato Where the money was, per finire a quel Jack Black, il cui You can’t win, edito in Italia come Non c’è scampo, fu fonte d’ispirazione diretta per la Beat Generation di Burroughs e compagni.
Quella di Bunker è stata una vita segnata fin dagli inizi: nato a Los Angeles dal matrimonio di una corista di Busby Berkeley e un macchinista di scena, unione destinata a franare tra alcol e liti violente, Bunker si ritrova, a cinque anni, solo come un cane dopo che i suoi hanno divorziato. Inizia una tormentata peregrinazione tra adozioni, collegi militari e riformatori che racconterà, in modo magistrale, in Little boy blue, fino a che, a soli 17 anni, ha il poco lusinghiero privilegio di essere il più giovane detenuto di sempre a varcare i cancelli di San Quintino, carcere di massima sicurezza che molti definiscono la miglior rappresentazione californiana dell’inferno. E ci arriva con la fama del duro, visto che ha appena accoltellato un altro detenuto nelle docce della Los Angeles County Jail. Di carceri, nella sua vita, ne visiterà parecchie, per un totale di 18 anni di detenzione complessiva, compresa la leggendaria Folsom, dove sarà rinchiuso dopo una rocambolesca fuga attraverso mezza America per essere finito sulla lista dei “most wanted” dell’FBI.
Ma, tra tanta sfortuna, Bunker ha almeno un colpo di fortuna: quello di diventare il “protetto” di Louise Wallis, moglie di Hal B.Wallis tycoon di Hollywood che, tra gli altri, ha prodotto Il Falcone Maltese e Casablanca. La signora, a differenza di tante madame di Beverly Hills, a certa beneficenza solo di facciata preferisce un impegno diretto nel sociale e prende sotto la sua ala protettiva il giovane Edward, che pur essendo un tipo assai poco raccomandabile, manifesta un quoziente di intelligenza superiore alla media. Grazie a lei Bunker, tra una detenzione e l’altra, frequenta gente del calibro di Jack Dempsey, Tennessee Williams, Aldous Huxley e William Randolph Hearst, di cui sarà ospite nel maniero di San Simeon.
A San Quentin, poi, ha fatto un’altra conoscenza destinata a segnargli la vita: di fronte alla sua cella c’è il braccio della morte e il personaggio più famoso che vi è rinchiuso, alla fine degli anni ’50, è Caryl Chessman, il famoso “bandito della luce rossa”, in attesa di finire nella camera a gas. Chessman sta scrivendo il romanzo destinato a renderlo celebre in tutto il mondo Cella 2455, Braccio della morte. Anni dopo Bunker ricorderà: “”Ancora adesso mi par di sentire il rumore della sua macchina da scrivere. Andava avanti ininterrottamente, tranne quando c’era un’esecuzione. E lui non era andato ad Harvard o Princeton, ma alla scuola industriale di Preston come me. Se lo poteva fare lui, beh anch’io potevo riuscirci”. I due sono legati dal comune interesse per la letteratura e Bunker trova il modo di comunicare con Chessman inviandogli bigliettini attraverso i condotti. Quando un detenuto gli fa fortunosamente pervenire una copia di “Argosy”, una rivista che pubblica i primi capitoli del libro di Chessman, Bunker ha un’illuminazione e decide che la sua vocazione sarà la letteratura. Immagina di essere come Cervantes e Dostoevskij, che scrissero in prigione molte delle loro opere: di tempo per leggere e scrivere, dirà in seguito, “ne avevo in abbondanza”.
Come lavoro in carcere si occupa di redigere i rapporti ufficiali dei fatti di sangue che avvengono frequentemente dietro le sbarre e, in questo modo, scopre un ricco materiale di vita vissuta, violenza ed emarginazione. ”Non ho mai avuto troppa immaginazione – racconterà in seguito – ma in compenso ho avuto un sacco di esperienze. Più tardi ho capito che non dovevo necessariamente scrivere solo di cose che erano successe a me, che conoscevo di prima mano. Potevo usare anche le storie che mi raccontavano gli altri. Una volta che si è accesa la luce, ho capito che intorno a me avevo materiale in abbondanza, bastava aprire le orecchie”. Inizia così un periodo di incessanti letture e frenetica scrittura: all’inizio soprattutto racconti, tratti dall’ambiente carcerario e dai suoi ricordi. “Poi - commenterà ironicamente - “visto il costo, in sangue, della spedizione dei manoscritti, principalmente romanzi, che mi obbligavano a meno frequenti prelievi….”.
Una volta fuori dal carcere, Bunker incontra i soliti inevitabili problemi degli ex detenuti: nessuno, alla vista dei suoi precedenti, sembra disposto ad offrirgli un lavoro ed Eddy, dopo vari infruttuosi tentativi, è costretto a tornare al suo vecchio ferro del mestiere: la calibro 45, con cui commette scassi e rapine. Evitando, finche può, la violenza diretta, perché lui è un criminale all’antica, che aborre la ferocia sadica di tanti suoi “colleghi” e preferisce usare la sua brillante intelligenza per organizzare colpi che spesso lascia eseguire ad altri. Nulla a che vedere, insomma, col mondo della criminalità contemporanea, come lui stesso si ritroverà spesso a dire: “Oggi è tutto armi e droga, armi e droga. Magari derubi un negozio di liquori, i commessi ti danno i soldi senza fiatare, e tu li ammazzi lo stesso. Che razza di inferno è questo?”.
Alla fine, comunque, come in una bella favola pulp di redenzione, le cose per lui cambiano: nel 1975 è fuori sulla parola e la pubblicazione di “Come una bestia feroce” sfonda l’indifferenza dei critici e diventa un successo. Se ne farà anche un film con Dustin Hoffman che apre a Bunker i cancelli dorati di Hollywood. Sarà attore in 25 film, compreso il mitico Le iene di Quentin Tarantino dove interpreta Mr. Blue, scriverà la sceneggiatura di A 30 secondi dalla fine di Konchalovsky e sarà consulente tecnico di Heat.
“Ci pensate – amava commentare ridendosela sotto i baffi – io che vado in giro per Martha Vineyard in compagnia di Mike Wallace e Art Buchwald, ci provo un gusto matto, anche se con loro non lo ammetterei mai”. Ma da quel suo primo romanzo, scritto ancora con la mano incerta del principiante di talento, erano dovuti passare 12 anni prima che Bunker vedesse finalmente riconosciuto il suo valore. Anni non certo facili, di cui Bunker ha portato per sempre, anche nella sua vecchiaia dorata di scrittore, le cicatrici indelebili: certe abitudini che gli sono rimaste appiccicate addosso fino alla fine, come camminare guardandosi alle spalle o indugiare su un angolo con circospezione prima di attraversare un isolato, i modi felini e prudenti di chi, per buona parte della sua vita, ha viaggiato sul lato oscuro della strada.
Stark, il primo dimenticato libro di Bunker, che esce ora anche in Italia da Einaudi, “è una profezia del grande scrittore che Bunker sarebbe diventato”, come scrive James Ellroy nella prefazione. Non ha ancora la lucida profondità che farà grandi libri come Cane mangia Cane o Educazione di una canaglia, ma già mostra una scrittura solida e scarna, ridotta all’essenziale come il miglior Hammett. Protagonista della storia è un piccolo truffatore di Los Angeles, tossico e informatore della polizia, una autentica odiosa canaglia, completamente prigioniero del suo sogno delirante di diventare un grande criminale e destinato all’inevitabile fallimento. Ernie Stark non ha la grandezza di Max Dembo, il protagonista di Come una bestia feroce, ma nella galleria dei “mostri” di Bunker si guadagna comunque un posto di rilievo. Con uno stile degno dei migliori noir anni cinquanta che resero famose case editrici come la leggendaria Fawcett Gold Medal, Bunker ci conduce per mano attraverso le storie di criminali di mezza tacca, sordidi club popolati di belle e ciniche ragazze di vita e torride dark lady, raccontando gli inferni della droga e del crimine con un feroce realismo, impensabile per l’epoca in cui scriveva.
E, nonostante il male che domina, imprescindibile e onnipresente, tutte le sue storie, il sadico e cinico egoismo che sembra l’unico sentimento vitale di una umanità degradata , nel racconto non manca mai una nota di ironia e, a ben vedere, perfino di speranza. Perché Edward Bunker, nonostante tutto, rimase sempre un individuo a suo modo positivo e, assurdamente, addirittura ingenuo. “Sono sempre stato ottimista, mi sono sempre sforzato di credere che la gente fosse sostanzialmente onesta con me – usava dire con una smorfia ironica – il che fa di me una delle persone più credulone che abbia mai incontrato”.
“Il secolo XIX”, 6 gennaio 2007