Sandro Ricaldone
padiglione Italia. Venezia, Biennale 2011
“L’arte non è cosa nostra”, grida una
scritta tricolore all’ingresso del Padiglione Italia coordinato per la Biennale
da Vittorio Sgarbi. La rivolta contro la “mafia” dei critici e dei curatori, di
cui il rissoso personaggio ferrarese impugna il vessillo, non manca di fondate
ragioni e tutto sommato la rassegna internazionale ordinata da Bice Curiger,
“Illuminazioni”, priva com’è di sorprese e di tensione emozionale, sembra fatta
apposta per dargli ragione.
Il rischio dell’autoreferenzialità
incombe sull’arte contemporanea a partire dalla stagione delle avanguardie
(molte delle quali, peraltro, si proponevano di legarsi più strettamente alla
realtà e al vissuto) e talvolta sembra che, in quest’ambito, viga una sorta di
“pensiero unico”, eretico magari ma nondimeno vincolante.
Ma questa è storia vecchia: già
Togliatti sbottava, nel secondo dopoguerra: “Chi ha detto che dell’arte debbano
occuparsi solo i competenti?”, bacchettando gli astrattisti, rei di contrastare
con i loro “scarabocchi” l’oleografico neorealismo di partito. La situazione,
nel frattempo, è però assai mutata. Proprio l’affermarsi, a partire dagli anni
’70, della figura del curatore professionale, che alle competenze
storico-critiche unisce l’attività di promozione di nuove tendenze e la
proposta di inedite prospettive tematiche, ha stemperato l’antagonismo
tradizionale fra creatori e critici. “Oggi non vi sono – osserva Catherine
Millet – funzionari ottusi che ammirano solo la pittura pompier, da una parte,
e artisti innovatori in rotta con la società, dall’altra”.
E, a dispetto del forte
condizionamento esercitato dal mercato, non di rado il lavoro svolto dai
curatori e dai ricercatori accademici ha contribuito a far riscoprire
esperienze che al tempo del loro manifestarsi non avevano raggiunto una
visibilità adeguata. Permangono, comunque, ampie zone d’ombra. Spingendo il
discorso all’estremo ancora la Millet annota: “non ho conoscenza di una storia
dell’arte che si spinga sino a prendere in considerazione le opere dei pittori
della domenica”.
Senza arrivare a tanto, l’operazione
“coraggiosa e titanica” architettata da Sgarbi (viziata, ma solo in parte,
dalla copertura cercata nell’autorevolezza dei duecento “suggeritori” cui si è
rivolto), restituisce uno spaccato del mondo dell’arte ben diverso da quello
“politically correct” dei grand commis della scena internazionale. Negli
spazi del Padiglione italiano, allestito con celerità miracolosa, posto che
gran parte delle opere sono state raccolte negli ultimi quindici giorni, e con
soluzioni espositive di un certo interesse (strutture metalliche semicircolari
multipiano, legende applicate su casse disposte al suolo, scansie di libri
alternate alle opere), si incrociano il quasi-meglio e il quasi-peggio della
produzione degli autori nazionali.
Si parte da un’installazione di
Gaetano Pesce, che presenta un’Italia crocifissa e slabbrata nel contesto di
una messa in scena chiesastica (con tanto di acquasantiera e inginocchiatoi),
non certo degna della sua statura di architetto e designer, cui fanno seguito
un’ironica sedia elettrica di Bertozzi e Casoni e una sorta di profetico ex
voto anticipato di Luigi Serafini ad invocare la caduta di Berlusconi. Sotto il
soppalco che ospita il Museo della Mafia creato da Cesare Inzerillo per il
Comune di Salemi, un’installazione di Maria Dompé (una selva di rose racchiuse
in alti cilindri di vetro). Tra i fotografi Gianluigi Colin sovrappone alla
Zattera della Medusa di Gericault l’immagine di un barcone di profughi. Poco oltre
Felipe Cardena raffigura Muammar Gheddafi secondo gli stilemi del barocco
sudamericano, mentre Salvatore Garau anima la superficie pittorica con
flessuosa gestualità. Tutto all’insegna, come si vede, della varietà più
sfrenata.
Note positive per i liguri Geranzani
(un ampio dipinto con figure distribuite in uno schema corale), Boragina (una
tela scandita da bande grigionere, animata in basso da segni vorticanti) e
Maini, rappresentato dall’incisiva iscrizione “assente (auto)giustificato”. Gli
altri, Bafico, Gallo e Beecroft (se c’era) li abbiamo persi nel marasma.
L’insieme dà comunque la controprova
che la lobby dei “tecnici” non è poi così cieca e partigiana: perché a
distinguersi dal rumore di fondo sono in definitiva le personalità consacrate:
i Kounellis, i Paladino, gli Adami, gli Stefanoni, i Celiberti, i Patella
(mentre alquanto fiacca si palesa, al di là della connotazione critica verso la
situazione del Paese, l’uscita di Pistoletto con il suo tricolore di stracci).
Non mancano le cosiddette “perle
nere”: centauri di nitore abbagliante; muscolosi prigioni sospesi per le
estremità; una selva di stanghe sormontate, a mo’ di capocchie, da minuscole
teste di Garibaldi ...
Di questo mix strapaesano la
principale virtù è l’eccesso di contraddizioni, grazie alla quale riesce a
sottrarsi all’orizzonte della banalità. Ma più che ad una molotov nel salotto
dell’arte l’esito si apparenta al classico sasso scagliato in piccionaia,
fomentatore soltanto d’un momentaneo scompiglio.
Molto rumore per nulla, dunque, o
forse solo un esercizio sul registro del “Parliamo tanto di me” di zavattiniana
memoria. Se Sgarbi non esistesse non ci sforzeremmo certo di crearlo, ma in
questa occasione almeno non gli neghiamo, nei limiti del suo velleitarismo
pugnace, una tormentata sufficienza. 31/5/2011