le voci che corrono

Percival Everett

Percival Everett è stato musicista jazz, tuttofare in un ranch (vanta un’esperienza di ben quattordici anni come addestratore di cavalli), professore di liceo. Attualmente si divide tra l’insegnamento (è professore di Letteratura alla University of Southern California) e la scrittura (è infatti uno dei più prolifici scrittori contemporanei: ha scritto oltre venti libri tra romanzi, raccolte di racconti e poesie, e saggi, esplorando quasi tutti i generi letterari; ed è improbabile che si fermi). L'Esquire l’ha definito “uno dei più coraggiosi scrittori sperimentali degli ultimi anni”. L’interessato, invece, rifugge quell’epiteto e quello di scrittore postmoderno vantando tra i suoi maestri i classici scrittori americani di grande respiro come Mark Twain. I suoi libri sono tradotti e apprezzati in tutta Europa. In Italia sono usciti: nel 2007 Glifo per Nutrimenti e Cancellazione per Instar Libri; nel 2008 La cura dell’acqua per Nutrimenti. Casa editrice Nutrimenti - redazionale

 

>Deserto americano, Nutrimenti, 2009

Theodore Street, stanco di tutto e di tutti, esce di casa deciso a porre fine alla sua esistenza. Soluzione suicidio. Street ha fallito su tutti i fronti: la sua carriera universitaria si è inceppata, il suo matrimonio a rotoli. Nemmeno l’amore per i figli e le scappatelle con le studentesse gli bastano più. E mentre a bordo della sua Lancia si sta recando al luogo prescelto per togliersi la vita, viene centrato da un camion. Risultato: un corpo senza testa e una testa. Decapitato. Nel bel mezzo del suo funerale, Street, a cui la testa è stata malamente riattaccata, si risveglia; come se niente fosse esce dalla bara e, tra lo sgomento dei presenti – lì, cerimoniosi a porgere quello che pensavano fosse l’ultimo saluto –, li squadra “ad uno ad uno ricordandone la voce e ciò che di buono o di cattivo avevano detto o fatto nei suoi confronti”, liberandosi così del male che aveva dentro. E dev’essere stata una purificazione singolare perché da quel momento, da morto, Theodore Street è un altro uomo. È, però, l’inizio dell’inferno. I media strepitano, si accampano di fronte a casa sua, si contendono l’intervista esclusiva con il morto, anche perché un uomo così – cioè un morto redivivo – fa gola a molti: ai fondamentalisti e ai fanatici religiosi che lo credono rispettivamente un demonio incarnato e il messia; all’esercito, smanioso di poter creare (e clonare) un plotone di soldati invincibili. Sì, perché Ted Street, apparentemente, non può più morire, è invulnerabile, non ha alcuna funzione vitale, eppure è lì, più uomo di prima, vivo nella sua vita a spiegare perché non è morto, a fare i conti con la crisi del suo matrimonio, col terrore che i figli provano nei suoi confronti e con l’inaspettata capacità di entrare nella mente e nel passato delle persone. (trad.: M. Rossari)

 

>Ferito, Nutrimenti, 2009

Qualcosa sta per accadere – la consapevolezza di questa tensione è l’ossatura del libro – perché nulla accade mai a Highland, Wyoming, profondo e gelido West, dove un impenetrabile cowboy di mezz’età, uno tra John Wayne e Gary Cooper, vedovo, laureato in Storia dell’arte con una passione per Klee, Kandinskij e le caverne, vive la sua appartata quotidianità fatta di giornate che iniziano alle cinque e trenta, un centinaio di chili di merda di cavallo da spalare, cavalli difficili da addestrare, un cucciolo di coyote con tre zampe da curare. Perché la comunità locale, compresi gli amici del protagonista, apostrofa con pesanti epiteti il ragazzo gay scomparso? È l’intolleranza bruta che permea il doppio fondo dell’etica individuale, una reazione che ricorda da vicino i cartelli ("Dio odia i froci", "Cambiate o bruciate") imbracciati da migliaia di persone comuni nelle contromanifestazioni “per ristabilire i princìpi etici” dopo il tragico omicidio del giovane Matthew Shepard nel 1998. Everett, stavolta con uno stile disadorno e lontano da qualsiasi genere (“non ho mai scritto western, ho scritto alcuni romanzi ambientati nel West”), dimostra che la narrativa è un mezzo, e che qui la suspance non è tanto data da ciò che il lettore non si aspetta che accada, ma dal fatto che accada ciò che il lettore sa perfettamente debba accadere. Su tutto, tra le righe di questo romanzo, ci sono Emily, il cucciolo di coyote a tre zampe, che punteggia la neve attorno al ranch con le sue orme strane, e Peste, un mulo ingovernabile in grado di aprire i cancelli della stalla e che non sta mai fermo, come il pensiero libero di una mente liberata, finalmente, dalla disillusione della successiva ferita da curare. Perché prima o poi il tempo per le parole sarà finito. (trad.: M. Rossari)

 

>La cura dell'acqua, Nutrimenti, 2008

Ishmael Kidder è stordito dalla sofferenza: hanno ammazzato la figlia di appena undici anni dopo averla violentata. Incapace di sopportare il dolore, rapisce e segrega nella sua cantina il maggiore indiziato, e inizia a torturarlo. La “cura dell’acqua” è la più atroce delle sevizie a cui lo sottopone: dopo essere stato immobilizzato, Ronnie o W, la vittima, viene incappucciato e gli viene fatta colare acqua sul viso, in modo che abbia costantemente la sensazione di morire annegato. Forma e contenuto sono inscindibili, come azione e destino: il libro è strutturato come un bloc-notes fitto di riflessioni su linguistica, morale, amore, paternità, morte, vita. Tra dialoghi immaginari di grandi filosofi, giochi di parole, limerick, citazioni occulte da Carroll, allusive illustrazioni bambinesche, virtuosi pastiche linguistici alla Joyce e una scrittura che stritola il lettore e non gli concede nemmeno un attimo di pausa, Everett, esasperando la nevrosi del protagonista, che diventa torturatore, gelido carnefice, mette a nudo l’insopportabile futilità del nascondersi dietro i segni. Il romanzo è, attraverso metafore e similitudini con diversi livelli di lettura, un esplicito atto d’accusa nei confronti dell’amministrazione Bush. Pure il sogno americano viene fatto a pezzi. Non c’è futuro quando il presente scortica il vuoto dell’anima; nessuna tortura, infatti, appaga e lascia indenne il torturatore, e la riflessione universale che anima la narrazione si innesta nel filone del rapporto vittima-carnefice su cui si sono cimentati scrittori del calibro di Dürrenmatt e Kafka. Un romanzo ricorsivo, nevrotico, spaventato, disincantato, grondante sangue e dolore – l’autoesautorazione –, una delle più sofferte e introspettive proteste della nostra generazione. (trad.: M. Rossari)

 

>Glifo, Nutrimenti, 2007

Accolto trionfalmente dalla critica, diventato subito libro di culto, Glifo è uno dei più innovativi romanzi americani degli ultimi anni. Il suo precoce e indimenticabile eroe si chiama Ralph, un bimbo prodigio con un Q.I. pari a 475. A dieci mesi di età non parla per scelta e trascorre il tempo nella culla a leggere qualsiasi cosa gli passi la mamma, diventata ben presto il suo pusher letterario: “la Bibbia, il Corano, tutto Swift, tutto Sterne, Joyce, Balzac, Auden, Theodore Roethke, la teoria dei giochi e quella dell’evoluzione, la genetica e la dinamica dei fluidi”. Scrive anche poesie ultrasofisticate sull’anatomia umana e bigliettini pieni di doppi sensi, ma non per questo si considera un genio, soprattutto perché non è ancora in grado di guidare. Naturalmente Ralph adora la sua mamma, mentre ha un pessimo rapporto con il padre, “un poststrutturalista fallito”, permaloso e piuttosto in carne. Quando la notizia delle doti portentose del bambino comincia a diffondersi, sono in molti a volerne trarre vantaggio, tra cui la dottoressa Davis, con il suo scimpanzé, e l’agente segreto Nanna. Di rapimento in rapimento, da una cella di massima sicurezza alla stanza di un prete pedofilo, il piccolo Ralph, in realtà, non fa altro che prendersi gioco dei suoi carcerieri, senza smettere nel frattempo di ragionare su teorie filosofiche e linguistiche. Fino a una conclusione semplice e sorprendente, che forse solo un bambino geniale può scoprire in sé: il primato dell’amore sull’intelligenza. (trad.: M. Rossari)

 

>Cancellazione, Instar Libri, 2007

Thelonious Ellison è uno scrittore afroamericano. E' figlio e nipote di medici e ha una biografia perfettamente borghese. I suoi romanzi sono considerati poco realistici, lontani dalla "vita vera dei neri americani", come se la sua esistenza, senza miseria e senza violenza, fosse falsa. In un rovesciamento grottesco, il pubblico e il mondo della cultura trovano più autentica un'opera come "Vita nel ghetto", di Juanita Mae Jenkins, romanzo scritto in un linguaggio da rapper semianalfabeta, su una baby-mamma che si riscatta ballando il tip tap. Questo successo diventa per Ellison un'ossessione, cui si aggiunge una crisi familiare provocata dalla morte della sorella ginecologa, assassinata da un antiabortista. Costretto a trasferirsi a Washington per occuparsi della madre malata, in preda alla rabbia scrive un libro ancora più grottesco di "Vita nel ghetto". Il suo editore ne è entusiasta. Pubblico e critica anche. Everett mette a nudo i pregiudizi che condizionano la vita di tutti noi, e lo fa con un virtuosismo linguistico che sperimenta ogni gamma del linguaggio. Un romanzo sugli stereotipi, sulle semplificazioni e sull'intelligenza, che usa l'ironia come antidoto contro ogni razzismo. (Trad.: M. Bosonetto)