Il
saggio che segue è tratto da L’oro e
l’alloro. Letteratura ed economia nella tradizione occidentale, vale a dire
dagli Atti del convegno tenutosi a San Salvatore Monferrato tra il 10 e il 12 maggio
del 2001, oggi pubblicati in volume, a cura di Giovanna Ioli, da Interlinea,
Novara 2003.
Massimo Bacigalupo
l’impatto di un dollaro:
economia e letteratura in America
Make the whole stock exchange your own!
Robert Frost
Il motivo economico ha grande rilievo nella letteratura americana. Dopo
tutto fra i padri fondatori degli USA è Benjamin Franklin, che escogitò una
sorta di bilancio quotidiano delle virtù e spiegò come applicare il suo metodo
nell’Autobiografia. Fra le tredici
virtù che egli invita a scrutare di giorno in giorno c’è la Frugalità (“Non
fare spese se non per il bene altrui o tuo, cioè non sprecare nulla”) e la
Laboriosità (“Non perdere tempo. Sii sempre occupato in un’attività utile.
Elimina tutte le azioni non necessarie”). Gli yankee, cioè propriamente i
coloni della Nuova Inghilterra, avevano la reputazione di tenere ai soldi:
coltivatori che dovevano badare alle spese o mercanti animati dallo spirito
calvinista. Gli scrittori grandi e anomali della metà Ottocento -- Emerson,
Hawthorne, Poe, Thoreau, Melville, Whitman -- scrutarono le maniere acquisitive
dei contemporanei e spesso le sottoposero a critica. Thoreau ad esempio nel suo
libro-diario-sermone Walden,
prende alla lettera le ingiunzioni di Franklin, intitola il primo lungo
capitolo “Economia”, e ci spiega quanto esattamente gli è costata la casupola
che si è costruita sulle sponde del laghetto Walden; 28 dollari e 12,5 cents
tutto compreso. “Scoprii così che lo studente che necessiti di un riparo può
farsene uno per una vita a un costo non maggiore dell’affitto che ora paga
annualmente” (una stanza al college di Harvard, spiega, costa trenta dollari
all’anno). E continua trattando analogamente le altre prime necessità: cibo,
abiti e “in questo clima” combustibile. Tutto il ragionamento paradossale di
Thoreau dimostra che si può vivere con il lavoro delle proprie mani ed avere
ancora molto tempo da dedicare alla lettura e alla riflessione. L’errore della
società moderna è di lavorare indefessamente per produrre cose che ritiene
necessarie ma non lo sono. Egli fornisce una versione romantica (non di rado
barocca nello stile) dei precetti illuministici di Franklin. Thoreau è rimasto
un maestro a generazioni di solitari in rotta con la società, oltre che in
primo luogo uno scrittore notevole per quanto difficile.
Melville, che come
Thoreau ha uno stile che si ispira volentieri al Seicento, un secolo che ha
lasciato molte tracce nel Nuovo Mondo, cita la borsa vuota di Ishmael nella
prima frase di Moby-Dick come
causa diretta della sua decisione di “navigare un po’ in giro e vedere la parte
acquea del globo”. E quando Ishmael viene ingaggiato a Nantucket gli armatori
sono tipici yankee nel concedergli una paga assai ridotta. La baleneria è
un’industria che va a cercare e lavoraee la materia prima in tutti gli oceani.
La pazzia di Ahab si rivela non tanto nella mania della caccia alla Balena
Bianca, quanto nel sacrificare ad essa il motivo unico per cui gli è stata
affidato il comando del “Pequod”: guadagnare soldi per sé, i suoi uomini e
soprattutto gli armatori quacheri che
abbiamo conosciuto spassosamente all’inizio. Melville stesso combatté una
battaglia perdente per mantenersi con la scrittura e la fattoria presso Pittsfield, ma avendo famiglia
numerosa scoprì che era assai meno facile di quanto sostenesse Thoreau. Mentre
finiva Moby-Dick, nel giugno
1851, scrisse a Hawthorne: “I dollari mi dannano; e il Diavolo malvagio mi ride
sempre in faccia, tenendo la porta socchiusa... Ciò che più desidero scrivere,
è bandito: non paga. Eppure scrivere del tutto all’altro modo non posso.
Così il prodotto ultimo è un minestrone, e tutti i miei libri sono pasticci.
Sono forse un po’ amaro in questa lettera; ma ecco la mia mano: quattro
vesciche sul palmo, prodotte da rastrelli e martelli negli ultimi giorni. E’
una mattina piovosa, così sono in casa, e il lavoro è sospeso. Sono abbastanza
allegro, e per questo scrivo un po’ malinconicamente. Ci fosse del Gin!”. Pochi
anni dopo Melville diede praticamente addio alla scrittura, e riparò in un
impiego alla Dogana di New York.
Ma è prevedibilmente
verso la fine dell’Ottocento, con il realismo e il naturalismo, che il tema
economico diviene centrale nel romanzo americano. Mark Twain dà un nome
all’“età dorata” -- la Gilded Age, postbellica, età di corruzione politica e
grandi fortune - e spesso parla di denaro nei suoi racconti (per tutti L’uomo che corruppe Hadleyburg).
Henry James, per quanto lontano dal realismo sociale, pone il motivo economico
al centro del suo primo capolavoro, Ritratto
di signora. Infatti la molla della vicenda è la fortuna che la
protagonista Isabel riceve in dono per intervento del cugino, convinto di
assicurare così campo libero alle sue eccezionali doti umane, e invece
rendendola facile preda del primo cacciatore di dote. Per cui il denaro si
rivela tentazione e maledizione, anche se si può dire che, esponendo Isabel al
suo tragico errore, la sua fortuna le permette anche di iniziare un processo di
maturazione, di divenire veramente “signora”. Il denaro come felix culpa,
dunque. Un’altra spietata vicenda di cacciatore di dote è Washington Square, operetta che lascia poca speranza nel
rivelare un mondo gretto e privo di amore dove la sgraziata protagonista non ha
nemmeno il riscatto della dignità tragica per il suo amore inappagato. Invece
nelle protagoniste di Ritratto di
signora e poi Le ali della
colomba James ha sognato delle eroine purissime che affrontano e
debellano il drago dollaro.
E’ superfluo suggerire
al lettore di rivisitare i bassifondi di Theodore Dreiser e Frank Norris, il
cui McTeague è un romanzo cupo sull’efferatezza del
bisogno e dell’avidità, molto notevole anche dal punto di vista letterario
tanto da non avere nulla da invidiare al capolavoro del muto che ne ricavò
Stroheim, Greed. Il sogno
dell’agiatezza economica è anche quanto conduce alla rovina Clyde Griffith in Una tragedia americana di
Dreiser, e l’obiettivo perseguito da Sister
Carrie, la ragazza di Chicago che da commessa e mantenuta e
sciupauomini si avvia a divenire un’anima forte al centro della cultura di New
York. Per Dreiser la legge della giungla ha una sua logica, e chi ha la meglio
è anche il migliore.
Quando Fitzgerald scrive i
suoi romanzi nell’età del jazz egli difende Norris e Dreiser e ne riprende la struttura
di ascesa-caduta e il motivo economico. Belli
e dannati è la storia dell’attesa di un’eredità in cui i protagonisti
si rovinano; Tenera è la notte
è una parabola sulla spietatezza dei “ricchi” nell’assumere i loro partner e
accompagnatori-curatori e liberarsene quando non servono più; Il grande Gatsby ha tema
analogo nel narrare ascesa e caduta di Jay Gatsby che con il denaro accumulato
in operazioni poco pulite non riesce a comprarsi l’accesso al mondo esclusivo
della sua amata, la cui voce ha “il suono del denaro”, per cui paradossalmente
è lui, il faccendiere Gatsby, a fare la parte dell’innocente che cade nella
trappola di chi è più astuto e ricco e spregiudicato di lui, e ci rimette anche
la pelle. Fitzgerald presenta più
brevemente il sogno della ricchezza nel racconto Sogni d’inverno, dove il giovane protagonista si licenzia da
caddy nel golf club per non essere trattato da “ragazzo” dalla ancor più
giovane ricca bellezza che gli è comparsa davanti, riesce ad arricchirsi e a
divenire uno dei suoi corteggiatori per apprendere infine che ha fatto un
matrimonio infelice e che è precocemente sfiorita, e con ciò assistere al dissolversi del suo
sogno. Qui non c’è un giudizio morale sulla corruzione del denaro, solo
l’affermazione di un sogno che poi finisce. Fitzgerald era fin dalle prime
prove sensibile alle tematiche sociali, ciò nonostante egli ricrea a tratti il
fascino inattingibile delle grandi ricchezze e ne narra lo spegnersi. Donde le
affermazioni spesso citate nel racconto Il
ragazzo ricco (1926):
Lasciate che vi parli
dei molto ricchi. Sono diversi da voi e me. Possiedono e godono presto, e
questo gli fa qualcosa, li fa morbidi dove siamo duri, e cinici dove siamo
fiduciosi, in un modo che, se non siete nati ricchi, è difficilissimo da capire.
Pensano, nel profondo del cuore, che sono migliori di noi perché abbiamo dovuto
scoprire i compensi e rifugi della vita per nostro conto. Anche quando entrano
veramente nel nostro mondo o scendono sotto di noi, pensano ancora di essere
migliori. Sono diversi.
Affermazioni citate soprattutto da Hemingway in Le nevi del Kilimanjaro, dove il protagonista moribondo
prova risentimento nei confronti della moglie ricca, Helen, ha cui ha venduto
il suo talento di scrittore per condurre una vita superficiale e agiata. E
ricorda “il povero Julian e la sua venerazione romantica per i ricchi e come
una volta aveva iniziato un racconto così: ‘I molto ricchi sono diversi da voi
e me’”. Nella prima stampa di Le nevi
Fitzgerald era citato per nome, e l’interessato protestò: “Tieni giù le mani da
me per iscritto... Senza dubbio avevi le migliori intenzioni ma mi è costata
una notte di sonno. E quando ristampi il racconto in un libro ti dispiace
togliere il mio nome? E’ un bel racconto, uno dei tuoi migliori, anche se ‘il
povero Scott Fitzgerald’ l’ha un po’ guastato per me” (agosto 1936). Dove si
vede la tolleranza di Fitzgerald rispetto all’amico e collega maligno. Così
anche Le nevi presenta come peccato originale l’oro. La fanciulla ricca
sognata da Fitzgerald è divenuta una corruttrice, o una tentatrice che serve
allo scrittore come scusa per tradire la sua vocazione più ardua. E come si sa,
Harry aspettando la morte passa in rassegna gli episodi che avrebbe ancora
voluto raccontare. E ora son perduti per sempre. Ma non nel testo di Hemingway.
In un clima quasi
naturalista si inserisce anche il ruolo del denaro nell’epopea sudista di
William Faullkner. In L’urlo e il
furore abbiamo un grandioso personaggio di gretto avaro, Jason Compson,
borghese decaduto, modesto impiegato in una bottega, che deruba la nipote adolescente dei soldi
che la madre le manda e li accumula nella sua stanza, dove la nipote
spalleggiata da un bellimbusto riesce a stanarli prima di scomparire nel nulla.
L’inarrestabile ascesa del demoniaco mercante Flem Stopes è il filo conduttore
della trilogia Il borgo, La città, Il
palazzo (1940-1959): Faulkner è affascinato dal personaggio negativo
che schiaccia tutto sul suo passaggio, ma non entra qui dentro Flem, lo lascia
cogliere con stralci di racconti dei tanti testimoni, come un coro tragico in
una cittadina miserabile. Del resto nel suo mondo non è dato libero arbitrio,
tutto avviene ineluttabilmente e gli uomini sono come forze della natura, per
lo più distruttive. Flem riesce a sposare la ragazza più desiderata, la
madre-terra, perché incinta e abbandonata dal fidanzato; come Alberich nell’Oro del Reno, per ottenere
l’oro deve rinunciare all’amore.
Uno dei più originali
esponenti del naturalismo di fine Ottocento, Stephen Crane, è autore anche di
poesie in versi liberi di carattere meditativo-sarcastico. Fra queste una
singolare evocazione del mercantilismo, L’impatto
di un dollaro:
L’impatto di un dollaro su un cuore
ride calda luce rossa,
espandendosi roseo dal focolare sul tavolo bianco,
con le ombre fresche di velluto appese
che muovono piano contro la porta.
L’impatto di un milione di dollari
è un rovinio di servi,
ed emblemi sbadiglianti di Persia
appoggiati a quercia, Francia e sciabola,
il grido della vecchia bellezza
prostituita da mercanti ruffiani
che la sottomettono a vino e chiacchiere.
Sciocchi contadini arricchiti pestano tappeti degli
uomini,
morti che sognarono fragranza e luce
nei loro orditi, le loro vite;
il tappeto di un orso onesto
sotto il piede di uno schiavo indecifrabile
che parla sempre di gingilli,
dimenticando stato, moltitudine, lavoro e stato,
tramestio e mastichio di cappelli,
con uno squittio rattesco di cappelli,
cappelli.
Non posso dire di capire questo testo, che sembra descrivere l’effetto
della ricchezza attraverso gli interni che essa crea col suo “impatto”: da
quello più modesto del singolo dollaro (nella prima strofa, dove c’è un gioco
di parole su heart “cuore” e hearth “focolare”), a quello di un
milione di dollari che riempe palazzi di tappeti persiani. Qui abitano servi e
schiavi (i milionari) che pestano i tappeti emblemi di sogni parlando come topi
di “cappelli”, con frivola dimenticanza delle masse, vedi il quart’ultimo
verso, che illogicamente ripete la parola state, tanto da far venire il
sospetto di un errore di stampa. L’impressionismo di Crane sembra celare i suoi
contenuti, ma evidentemente l’impatto del denaro accumulato in grandi quantità
dà il via a una serie di associazioni sgradevoli e sprezzanti. L’insistenza sui
“cappelli” è un altro elemento paradossale. Se pensiamo al mondo americano e
inglese della fine dell’Ottocento, con le sue ricchezze e disuguaglianze
sociali, forse cominciamo a comprendere la critica indiretta ma corrosiva di
Crane.
Uno dei maggiori poeti
del secolo XX, Robert Frost, nato in realtà solo quattro anni dopo Stephen
Crane, offre delle notevoli rappresentazioni dello spirito yankee nelle sue
poesie che combinano realismo con un buon senso economico assai prossimo al
cinismo. In Alberi di Natale
(1916) un coltivatore tratta con un compratore giunto dalla città per
acquistare “qualcosa che aveva lasciato dietro e di cui non poteva fare a meno
per solennizzare il suo Natale”, cioè gli alberi. Il campagnolo esita, ma poi
riflette che la ragione economica deve dire la sua:
... I’d
hate to hold my trees except
As others
hold theirs or refuse for them,
Beyond the
time of profitable growth,
The trial
by market everything must come to.
Mi spiacerebbe tenere i miei alberi, se non
come altri tengono i loro o per essi rifiutano,
più del tempo della crescita vantaggiosa,
la prova del mercato a cui tutto deve sottoporsi.
Ma viene tolto dall’impaccio quando l’acquirente, verificato che ci
sono mille piante adatte al commercio, offre 30 dollari in tutto. Tre centesimi
per un albero che agli amici cittadini costerà un dollaro è davvero troppo
poco. Il conto viene fatto per esteso nei versi colloquiali di Frost, che pure
riescono a seguire soavemente lo schema della pentapodia giambica:
Then I was
certain I had never meant
To let them
have them. Never show surprise!”
But thirty
dollars seemed so small veside
The extent
of pasture I should strip, three cents
(For that
was all they figured out apiece)
Three cents
so small beside the dollar...
Allora fui certo di non aver mai pensato
a venderli. Mai mostrarsi sorpresi!
Ma trenta dollari mi parve così poco
per tutto il pascolo che avrei dovuto spogliare,
tre centesimi (tanto veniva per albero),
tre miserabili cent... (trad. G. Giudici).
Fare umorismo e poesia di una contrattazione è un bel risultato, e
anche assai insolito. C’è tutta la filosofia bonaria di Frost, che procede per
cenni. Nella sua poesia è difficile capire non il senso primo ma
l’atteggiamento mentale. Ed egli dimostra un realismo sorprendente
nell’enunciare il principio del “trial by market” a cui tutto deve sottoporsi.
Anche la poesia: come ben sanno, ma di rado dicono, i poeti.
In un tardo testo
altrettanto facile-difficile, Provide
provide (1936), Frost parla delle brutture della vecchiaia e di come
occorre provvedere per tempo per porvi riparo:
Muori presto, evita questo fato.
O se un tardo morire t’è destinato
fa modo di morire in ricco stato.
Fa tua la Borsa, tutta la borsa valori!
Occupa un trono, se questo bisogna,
dove nessuno darà a te di vecchia carogna...
Meglio un tramonto bene ossequiati
con al fianco amici comprati
che nessuno. Rimediate, rimediate!
Sono consigli ironici, perché tutti sperano di avere vicino amici
fidati nella vecchiaia, ma l’esperienza insegna che non sempre è così. Il
consiglio è anche ironico perché i rimedi suggeriti, come divenire re o
milionari, non sono alla portata di molti. Sicché -- questa probabilmente la filosofia -- non
c’è rimedio. Se non un altro ordine di valori, che però il sermone sardonico di
Frost lascia solo immaginare, anche se la terzina sulla borsa (Make the
whole stock exchange your own!) è seguita dai versi misteriosi:
Alcuni hanno puntato sul loro sapere;
altri sull’essere semplicemente sinceri.
Per te, come per loro, questo può valere. (trad. G. Giudici)
Sono consigli e detti della Sibilla che pongono più domande di quante
ne risolvano. Ma vediamo un poeta che guarda spassionatamente la realtà
economica senza per questo compromettere la sua forza lirica. La poesia (sembra
di capire) non addolcisce la pillola, è un modo più robusto e spietato di
guardare la realtà e dunque in qualche modo (ironico) dominarla.
Nella tradizione
americana esiste una forte tensione fra federalismo e populismo, centro e
periferia, capitale finanziario e mondo agrario, est e ovest (e nord e sud).
Gli eroi della periferia agraria sono stati i presidenti Jefferson, Jackson e
Van Buren, e più tardi William Jennings Bryan, candidato democratico alla
presidenza nelle elezioni del 1896, 1900
e 1908, rimasto famoso per il motto: “L’umanità non sarà crocefissa su una
croce d’oro” (e per aver rappresentato l’accusa nel processo Scopes intentato a
un insegnante del Tennessee colpevole di divulgare il darwinismo). Fra i poeti
americani il populismo è rappresentato dalla scuola di Chicago di Edgar Lee
Masters, Carl Sandburg e Vachel Lindsay, quest’ultimo una sorta di menestrello
vagabondo che cantava i suoi versi su motivi popolareschi. Nel poemetto Bryan, Bryan, Bryan, Bryan. La campagna
del 1896 come la vide all’epoca un
sedicenne evoca lo spirito con cui le masse lavoratrici riconobbero i
loro campioni in Bryan e John Peter Altgeld (1847-1902), L’aquila dimenticata di un altro testo di Lindsay, e la
sconfitta di questa spinta popolare:
Notte di elezioni, mezzanotte:
sconfitta di Boy Bryan.
Sconfitta dell’argento dell’ovest.
Sconfitta del grano.
Vittoria delle filze
e miglia di plutocrati
con simboli di dollari sulle giacche,
catenelle di orologi di diamanti sui panciotti
e ghette ai piedi.
Vittoria dei custodi, di Plymouth Rock,
e tutta la progenie dei padroni consanguinei.
Vittoria degli schizzinosi.
Sconfitta di pinete e delle valli del Colorado,
campanule delle Montagne Rocciose,
e cuffiette del vecchio Texas, da parte dei vicoli
di Pittsburgh.
Sconfitta dell’alfalfa e della Mariposa.
Sconfitta del Pacifico e del lungo Mississippi.
Sconfitta dei giovani da parte di vecchi e sciocchi.
Sconfitta dei tornado da parte di serbatoi supremi
di veleni.
Sconfitta della mia giovinezza, sconfitta dei miei
sogni.
Questa è poesia-canzone come passione politica con uno sfondo di
rivendicazione sociale nonché economica.
Ciò che in Lindsay è
epica popolaresca diventa nel suo quasi coetaneo Ezra Pound una vera e propria
storia del “bellum perenne fra l’usuraio e l’uomo che vuol fare un buon
lavoro”, la distinzione restando altrettanto categorica. Ma in Pound più
discutibile in quanto Lindsay narra una situazione politica “vista da un
sedicenne” cioè Lindsay giovane, Pound racconta la storia americana come la
vede lui oggi. Nei Cantos,
il poema iniziato intorno al 1915 come una sorta di moderno Pellegrinaggio del giovane Aroldo
di Byron, e che tale rimane nella sua struttura profonda, Pound --
traumatizzato dalla guerra, Woodrow Wilson e la crisi del 1929 -- si volse a
partire dal 1930 a un compito di riesumatore delle guerre condotte nel corso
della storia americana contro lo strapotere della “Banca” nazionale, ad opera
appunto di Jackson e successori. Aveva sviluppato la forma del “canto” cioè del
testo di diverse pagine che con altri “canti” forma dei gruppi (“decadi”),
alternando temi storici, mitici, letterari, autobiografici secondo la
forma-sonata (tema, controtema, ripresa ecc.). Ed ecco dunque una serie di
ritratti di eroi antimonopolistici trattati in uno o più canti contigui:
Jefferson (canti 31-33, 1934), John Quincy Adams (34), Martin van Buren (37),
John Adams (62-71, 1940), Andrew Jackson (88-89, 1955). Il metodo è un collage
di citazioni tratti da diari discorsi e lettere con interventi e commenti del
poeta-cronista, che da Rapallo e poi da Washington propone la sua immagine alternativa
dell’America nel nome dei grandi presidenti. E intanto espone una
interpretazione della storia basata sull’economia. Pound partiva dalle arti e
lamentava la loro decadenza soprattutto nell’odiato Ottocento mercantilista,
mentre vagheggiava con Ruskin un Medioevo e Rinascimento di popoli artigiani e
principi mecenati. A differenza di Frost, che accetta ironicamente la legge
ineluttabile del mercato, Pound pensa a un Eden di libertà dal bisogno creata
da una saggia amministrazione in cui finalmente l’espressione – e la vita --
non sarà condizionata dal mercante, e poi la storia mondiale non sarà
condizionata dai mercanti di armi e dalle banche. Arrivato agli anni euforici
del presunto trionfo di Mussolini in Etiopia, egli dedica diversi canti (42-44)
alla storia della Toscana e in primis a Siena e al Monte dei Paschi dal
suggestivo nome agrario, per poi lanciarsi in quella chiave dei Cantos
che è l’invettiva contro l’usura del canto 45: un elenco di tutto ciò che
l’usura distrugge e di tutto ciò che senza di essa l’uomo ha fatto.
con usura
nessun Gonzaga vedrà eredi e concubine
nessuna pittura sarà fatta per durare e per viverci
ma sarà fatta per vendere, vendere in fretta
con usura, peccato contro natura,
il tuo pane sarà sempre più di stracci stantii
il tuo pane sarà secco come carta,
senza frumento di monte, senza grano duro,
con usura la linea ingrosserà
con usuira non vi sarà chiara demarcazione
e nessuno troverà sito per la sua casa.
L’intagliatore sarà tenuto lontano dalla pietra
il tessitore dal telaio...
Il riferimento iniziale è alla Camera degli Sposi dove il Duca è
circondato da “eredi e concubine”. (Ho usato il tempo futuro in luogo del
presente arcaico di Pound - seeth no
man Gonzaga his heirs and his concubines - per rendere l’accentuazione del verbo.) La sessualità deviata è
una delle conseguenze dell’usura, che anche in questo campo interferisce.
“L’intagliatore sarà tenuto lontano dalla pietra...” Pound è vicino nel suo
utopismo tanto a Lawrence quanto a Thoreau (il sito della casa) quanto a Henry
Miller, che se ben ricordiamo inveiva contro il pane di fabbrica americano in L’incubo ad aria condizionata.
La tradizione anticapitalistica e populista americana, congiunta alla crisi
economica del 1929 e alle ambizioni di storico e clinico della civiltà di Pound
hanno prodotto un poema che è anche (fra tante cose) un trattato di economia, o
ne assume le fattezze.
Pound infatti amava indossare
maschere, e le maschere erano di solito i testi in cui si calava e che
riproduceva a brani sulle sue pagine, spesso senza curarsi di riproporli in
forma di racconto. Bastava la citazione, il frammento, e naturalmente errori e
storture non mancano. Per esempio negli opuscoli italiani e nei Cantos ritorna spesso con
fanfara il nome di Claudio Salmasio, autore di un De Modo Usurorum
nonché (altro titolo meritorio) di un attacco contro John Milton. In realtà
Salmasio nel suo trattato difendeva l’usura (v. G. Accame, E.P. Economista. Contro l’usura,
Roma, 1995, p. 85).
Passato dall’arte
all’economia come campo che la condiziona, Pound passò inoltre dall’economia al
monetarismo, cioè ai modi dell’emissione e circolazione del denaro, che
evidentemente possono essere e sono manipolati da chi li controlla. Negli anni
1950 scoprì un oscuro storico americano della moneta, Alexander Del Mar
(1836-1926) e i suoi libri Storia dei
sistemi monetari (1896) e Barbara
Villierso storia dei crimini monetari. Se apriamo il canto 97 troviamo
diverse pagine di citazioni dai Sistemi
(magari alternate a un richiamo al giornalaio di Rapallo che in mancanza di
spiccioli distribuiva intorno al 1943 dei bigliettini, come ne vedremo ancora
trent’anni dopo: “E Bafico aveva giornali, quotidiani”).
L’interesse, diremmo
ossessione, di Pound per la moneta (forse inconsciamente legata al suo stesso
nome), a parte l’eccentricità poetica con cui egli svolge le sue lezioni di
economia, ha trovato di recente un espositore lucido in Accame, secondo cui nel
2000, tramontato il conflitto di classe e l’opposizione di capitalismo e
socialismo, emerge agli occhi di tutti la centralità del tema economico, se è
vero che dalla banca mondiale dipendono le sorti delle nazioni, il benessere e
la miseria di interi continenti, e se la
nozione di denaro continua a essere misteriosa, ora che la maggior parte degli
scambi sono virtuali. Pound avrebbe insomma scritto una ballata che ancora oggi
fa riflettere, oltre all’unico poema che si conosca che ha al suo centro l’oro
e le sue sorti.
Certo l’oro appare già nei
monili di Venere alla fine del canto 1, e ritorna a baluginare sull’ultima
pagina del poema (canto 116) quando Pound percorrre nel 1959 una viuzza di
Rapallo che porta il nome fatale di “Vico dell’Oro”. Questo è l’oro del
paradiso dell’arte e dell’eros. Al quale si contrappone l’inferno della frode e
dell’usura, per cui egli si rifà alla visione dantesca:
ruotando nei vortici d’aria; in fretta;
i 12: a occhi chiusi nel vento oleoso
questi furono i reggenti; e un canto amaro dalle
pieghe del ventre
cantò Gerione; sono l’aiuto dei vecchi;
pago gli uomini perché parlino di pace;
donna di molte lingue; mercante di calcedonio
sono Gerione gemello di usura,
voi che avete vissuto su un proscenio.
Migliaia eran morti nelle sue pieghe
nel cestino del pescatore di anguille
Tempo fu della Lega di Cambrai (canto
51)
Non siamo molto lontani dalle denunce di Lindsay dei banchieri
“vecchi”, salvo l’importazione dell’immagine dantesca (che occorre conoscere
per comprendere il brano), e il dettato staccato, a sprazzi nominali,
tipicamente poundiano. Che si conclude evocando la Lega di Cambrai, sicuramente
alludendo alla Lega delle Nazioni e alle sanzioni contro l’Italia imperiale,
imposte in nome della “pace” che per una volta – nel 1937 -- Pound sembra
ritenere una frode. Così i nodi della visione poundiana vengono al pettine, ma
occorre leggere il suo trattato di economia come cronaca appassionata di un
uomo di parte. Dopo tutto è questo che dà vivacità alla sua trattazione;
l’ossessione dinamizza l’arida notazione. E credo che il brano citato comunichi
efficacemente l’avversione per la Banca
di Inghilterra e i suoi “reggenti”, che erano in numero di dodici. Pound resta
un caso a sé perché il suo Bryan è in definitiva Mussolini, e noi lo leggiamo
con particolare predisposizione a causa delle sue frequentazioni e
compromissioni italiane. Ma in uiltimo resta valido il modello del Giovane Aroldo e del Don Giovanni di Byron, che con maggiore distacco ironico e versi
altrettanto diseguali si scagliava contro la politica dell’allora “reggente”
inglese.
L’indagine potrebbe
continuare, ad esempio in quel testo corale di Eliot che è La roccia, che risente del clima economicista degli anni
1930, o negli altri due principali poeti americani del periodo, William Carlos
Williams, che narrò le sorti di una cittadina industriale con documenti e
frammenti lirici nel Paterson
(altro poema di storia, luoghi e commerci), e Wallace Stevens, che era
dirigente di una grossa compagnia di assicurazione nella yankissima Hartford
del Connecticut, e che ci ha lasciato il curioso aforisma: “Il denaro è una
sorta di poesia”. Ma specialmente con Stevens e i suoi modi molto indiretti e
pietrosi di affrontare i temi sociali ci avventureremmo in terreni impervi.
Basti aver fornito questi cenni sull’ampio e particolare ruolo che il motivo
economico ha nella cultura americana. In
un paese di grandi fortune e masse lavoratrici e una classe borghese e imprenditoriale
in competizione per mantenersi al di sopra della soglia di povertà (classe a
cui in genere appartengono gli scrittori) era inevitabile che il tema economico
si esprimesse ora in un conflitto epico fra capitale e lavoratore (populismo),
ora in una teoria del risparmio e del “provvedere”, ora in una metafora dello
stesso sogno americano (Gatsby e Daisy, entrambi ma in modi diversi “very
rich”).