Maurizio Cabona
il delitto viaggia in prima classe. Kenneth Branagh e “Assassinio sull’Orient Express”
In
tempi di crisi il cinema pre-natalizio punta sull’”usato garantito”. Assassinio sull’Orient Express, di e con Kenneth Branagh, è il rifacimento
del film omonimo di Sidney Lumet del 1974. Anche
stavolta c’è un cast stellare (Johnny Depp,
Michelle Pfeiffer, Penelope Cruz, Judi Dench). Viene però reso politicamente corretto lo spirito,
esattamente opposto, del romanzo di Agatha Christie che ne è all’origine: tutto
un succedersi di attriti tra pregiudizi sociali e nazionali di persone
apparentemente costrette a stare insieme, senza volerlo.
Eppure
anche Assassinio
sull’Orient Express in versione 2017 ha dei
pregi: evoca l’epoca dei treni internazionali, che portavano viaggiatori, non
turisti, e dove ai vagoni corrispondeva una classe, non un “livello di
servizio”. Se l’impronta da spot pubblicitario è netta, è
perché quel treno oggi corre di nuovo per l’Europa: del resto i film non si
fanno per guadagnare?
Il
fastidio emerge dal “messaggio” buonista, così estraneo alla Christie, autore
di successo mondiale perché rispecchia la xenofobia
del vasto pubblico di lingua inglese, come Georges Simenon nei romanzi con
Maigret rispecchia la xenofobia del vasto pubblico di lingua francese. Nell’Assassinio
sull’Orient Express, inteso come romanzo, la perfidia della
Christie non risparmia nemmeno i nordici. Memorabile la battuta: “E’ svedese,
poverina”. Il film di Branagh non è perfido: è ipocrita, all’insegna del “qui
lo dico e qui lo nego”.
Il
romanzo della Christie ha una storia. Nel 1932 nel quale lei villeggia a
Istanbul, gli Stati Uniti sono sconvolti, oltre che dalla Grande Depressione,
dal rapimento nel New Jersey del figlioletto dell’eroe nazionale, Charles Lindbergh, primo trasvolatore dell’Atlantico. Quindi il Saturday
Evening Post, allora molto diffuso, chiede
alla Christie una storia connessa a quel clima di orrore e di aspiranti
giustizieri. Poiché a lei sono
consone le atmosfere da caccia alla volpe, non da caccia all’uomo, scansa il contesto
reale, riducendolo ad antefatto di un’immaginaria indagine su un treno, l’Orient-Express, bloccato da una nevicata nel Regno di
Jugoslavia.
Come
Lumet, Branagh fa cominciare il percorso ferroviario
del personaggio principale, l’investigatore belga Hercule Poirot
(Branagh medesimo), dalla stazione di Istanbul nel gennaio 1934, ovvero quando
il romanzo della Christie esce in libro a Londra. La Christie conosce l’Orient-Express – scritto in questo caso col trattino,
giustamente, alla maniera francese - della Compagnia dei Wagon-Lits
per esperienza personale. Lo ha preso per la prima volta tornando dall’Irak, nel 1930. Alla stazione di Milano, sosta prevista di
mezz’ora, lei scende per camminare. Però il macchinista, giunto in ritardo
nell’Italia dei treni sempre in orario, parte prima del previsto e lascia a terra la
Christie. Lei allora noleggia
auto e autista, rincorrendo il
convoglio e a Domodossola risale sul treno, che l’ha attesa per
intervento della Wagon-Lits. Qui ritrova i bagagli,
ma si separa da tutto il suo contante per saldare l’autista. Così a Londra la
nuova suocera (il primo marito ha piantato la scrittrice nel 1927) si sente
chiedere per prima cosa un prestito dalla nuova nuora.
Un
episodio movimentato, ma non drammatico, raccontato ne La mia vita (Mondadori, 1978). Dove
non si dice, però, che a rimborsare le spese dell’inconveniente milanese sarà
il romanzo commissionato dal settimanale americano. Ideato secondo il principio
di unità di tempo e di luogo, come una commedia, Assassinio sull’Orient Express ha un personaggio
ferroviario determinante nell’intrigo: il direttore della Wagon-Lits.
Senza di lui, l’investigatore Poirot – privo di
prenotazione – resterebbe a terra a Istanbul, proprio come la Christie era
rimasta a terra a Milano.
Il
direttore si chiama Monsieur Bouc, ma nel film di Lumet diventa il Signor Bianchi (lo interpreta Martin Balsam), nel quale si può scorgere Giuseppe Volpi,
diventato proprio nel 1932 reale vicepresidente della Wagon-Lits
e fondatore della Mostra del cinema di Venezia. Ma c’è anche Istanbul nel suo
passato, perché lì, nel 1911-12, durante il conflitto tra Regno d’Italia e
Impero Ottomano per la Tripolitania e la Cirenaica, ha salvaguardato
l’interesse nazionale italiano fino alla pace di Losanna del 1912.
Bernard
Poulet, nella biografia Volpi, Prince de la Venise moderne (Editions
Michel de Maule, Paris,
2017), racconta che nel 1935, “a un amico incaricato di restaurare un’antica
ambasciata della Serenissima, Palazzo Venezia a Istanbul”, Volpi intima:
“Ovunque ci sia un Palazzo Venezia, va conservato”. Continua Poulet: “Quando ha l’onore di restaurare Palazzo Venezia a
Roma” [quello dove il Duce governa – NdR],
Volpi precisa: ‘Per me quello di Istanbul ha ben più significato che quello di
Roma. E’ infatti simbolo di Venezia in
tutta la sua gloria, in tutta la sua tradizione mediterranea’”.
Tornando
ai treni di allora, il figlio di Giuseppe Volpi, Giovanni, mi racconta: “Ci sono
adesso prove che le carrozze dell’Orient-Express, poi
restaurate e ancora circolanti, sono sopravvissute alla seconda guerra mondiale
perché mio padre le salvò dai
tedeschi”. Allude al fatto che la Wagon-Lits aveva
sede a Bruxelles, occupata dalla Germania nel 1940. E che da allora al 1944 la
compagnia ferroviaria germanica Mitropa - il cui cupo
destino nel 1945 ispira il film Europa di Lars von Trier (1991) – la voleva
assorbire. Nel 1974, all’uscita dell’Assassinio
sull’Orient Express di Lumet,
ci si chiedeva perché il dirigente belga della Wagon-Lits
fosse diventato
italiano passando dal romanzo al film. Ora lo sappiamo.
“La
Verità”,
28 novembre 2017