Maurizio Cabona
il verboso abbrutimento di On the Road
Durante
una tournée a fine anni ‘70 Francesco Guccini si concede – tra una canzone e
un’altra – un apologo sui miti letterari. Nota che la seduzione di certe frasi
da romanzo beat americano degli anni ‘50, tornati in auge nel periodo hippie, deriva,
almeno per gli europei, dall’ambientazione esotica. E cita, inventando:
“Facemmo tutta una tirata, da Omaha a Tucson, con la vecchia Ford del padre di
John”. Mentre “Facemmo tutta una tirata da Piumazzo a Sant’Anna Pelago con la
vecchia 1100 del babbo di Giovanni”, dice, “non è la stessa cosa, non è la
stessa cosa...”.
Fin
dagli anni ‘30 certi romanzi americani affascinano gli intellettuali italiani.
Elio Vittorini ancora dirige il settimanale della Federazione fascista di Firenze,
“Il bargello”, quando – ignaro dell’inglese – cura l’antologia Americana
(Bompiani); Cesare Pavese, che a Torino è tra gli animatori dell’Einaudi, sa un
inglese da liceale quando traduce Melville e fa pubblicare Shewood Anderson. L’America
del decennio tra le due guerre, descritta da Caldwell, Dos Passos, O’Hara,
Saroyan, Steinbeck, ha l’acre sapore della miseria. Nel 1939 i disoccupati
negli Stati Uniti sono tredici milioni, su centottanta milioni di abitanti.
Fatte le proporzioni, è come se l’Italia, coi quaranta milioni di abitanti di
allora, avesse tre milioni di disoccupati. Se non è il benessere, allora che
cosa, dell’America, incanta gli intellettuali italiani? La libertà di muoversi
in un grande Paese pianeggiante, esteso come un continente, dove l’anonimato
metropolitano (la società, versione protestante) pare un’oasi di libertà a chi
la osserva dalla provincia (la comunità, ancora essenzialmente cattolica).
Connessa
a tutto questo c’è l’invidia per la relativa tolleranza – più che libertà –
sessuale vigente tra gli intellettuali e gli artisti in genere. E pazienza se
costoro sono una rumorosa minoranza. Col senno di poi, ma anche senza, si può dubitare
del fondamento di questa simpatia transoceanica, ma è un fatto che tuttora, in
Italia, si legge “Santuario” di Faulkner e “Il lungo addio” di Chandler, per
fare due esempi, molto più facilmente che i libri della Deledda, di Gotta,
Papini, V. G. Rossi, Bacchelli, ben radicati nell’Italia che fu. O forse è proprio
per questo che sono ormai illeggibili. Insomma, il modo di vita americano
influenza in Italia anche chi, per schieramento politico, si crede molto, molto
italiano. Ciò non toglie che anche la narrativa americana più seducente risenta
del tempo. E il cinema rivelare crudelmente ciò che smette di essere nuovo, senza
esser diventato antico: insomma, ciò che è superato. Oggi esce il film “On the
Road” di Walter Salles, in concorso all’ultimo Festival di Cannes. Alcuni andranno
a vederlo più per la fama del romanzo ispiratore (“Sulla strada” di Jack
Kerouac, Mondadori) che per i notevoli meriti pregressi del regista, vincitore
dell’Orso d’oro al Festival di Berlino nel 1998 con l’ottimo “Central do
Brasil”: anche quello un film di viaggio. Come lo è “I diari della
motocicletta”, presentato al Festival di Cannes nel 2004 e ispirato
dall’esplorazione delle Americhe, da sud verso nord
e viceversa, di Ernesto Guevara (non ancora noto come Che) e del suo
amico, medico come lui, Alberto Granado. Ebbene, nel vagabondare da est verso
ovest e viceversa degli Stati Uniti alla fine degli anni ’40, i personaggi di
“On the Road” – Garrett Hedlung interpreta Neal Cassady, Sam Riley interpreta Jack
Kerouac – si librano nei loro sogni e sprofondano nelle loro esistenze. Ma
troppe volte il cinema ha infilato attori in un torpedone, in un’auto o li ha messi
a cavallo di una motocicletta, mandandoli a zonzo per strade americane di
grande comunicazione: dunque s’avverte il déjà vu. E troppe volte si sono visti
sullo schermo giovani ambiziosi, divorati dalla voglia di vivere, logorati dal non avere tutto e subito, che si danno
a ogni eccesso sessuale. “Sulla strada” di Kerouac – scritto entro il 1952, ma
edito in originale solo nel 1957 – è l’archetipo di questo tipo di storie.
Però
il film di Salles arriva per ultimo. Arriva dopo “Easy Rider”, “Un uomo da
marciapiede”, “Cuore selvaggio”, “Natural born killers”, “Belli e dannati”,
“Thelma & Louise”, “Kalifornia”, ecc. E le trasgressioni son sempre quelle:
rubare, tradire, prostituirsi, sodomizzarsi, drogarsi, abortire, ubriacarsi, suicidarsi,
lasciarsi morire, farsi ammazzare. Poiché l’emancipazione sessuale sbocca – nei
libri e nei film – nell’estinzione fisica, lo spettatore riceve un messaggio
libertino, ma anche un consiglio retrivo. Le due ore e dieci minuti di “On the
Road” sono quelle di un verboso abbrutimento: verboso anche per iscritto,
infatti Salles dimentica il monito (“Mai inquadrare uno scrittore al lavoro”)
di Francis Ford Coppola a Wim Wenders che dirigeva il film “Hammett”. Così,
sebbene siano i figli di Coppola a produrre “On the Road”, vi si vede fin
troppo Kerouac annotare su un taccuino... Ma intorno che cosa accade? Si è tra
il 1948 dell’inizio della guerra fredda e il 1952 del conflitto in Corea, in
mezzo a giovani intellettuali che trascinano la propria vita tra bar e strade
statali, usando le case di genitori e amici come ricoveri, prima di rimettersi in
movimento (il dialogo più noto del romanzo di Kerouac è: “Dobbiamo andare”. Dove?
“Non lo so, ma dobbiamo andare. E non fermarci prima d’esser arrivati”).
Che,
dopo vari tentativi falliti di trasposizione, “On the Road” sia comunque diventato
film, indica sia l’importanza di Kerouac che della generazione beat in genere:
personaggi del film sono infatti anche Allen Ginsberg (Tom Sturridge) e William
Borroughs (Viggo Mortensen). Salles ostenta la bisessualità di ognuno di loro,
salvo per Ginsberg, omosessuale puro. E affida l’evocazione del clima politico
solo ai titoli di giornale e a frasi dei notiziari radio. La natura ribelle
della generazione beat (che sta per battuta, ma anche per beata) indurrebbe a
pensare progressisti i suoi esponenti. Ginsberg lo è. Non Kerouac, né il suo
maggiore ispiratore, Henry Miller, né il suo maggiore ispiratore europeo,
Louis-Ferdinand Céline. Del resto, nato Jean-Louis Lebris de Kerouac, il
romanziere discende da nobile famiglia francofona originaria del Quebec, Stato
del Canada che ha per simbolo il giglio della monarchia francese e per motto
“Je me souviens” (mi ricordo). Se Kerouac è trasgressivo sessualmente, è anche conservatore
politicamente. Fernanda Pivano, sedicente portavoce italiana della generazione
beat, è rimessa al suo posto di traduttrice appena Kerouac arriva in Italia - è
il 1966 – per conferenze in occasione della prima edizione italiana di “Sulla
strada”. A Napoli lo scrittore ha uno scontro col pubblico, stupito che egli
sostenga la guerra americana nel Vietnam... Per questo episodio la cultura di
sinistra guarda altrove, specie a Ginsberg; per questo episodio, quella di
destra perdona a Kerouac - come ha fatto con
Brasillach, come farà con Mishima - l’ambiguità sessuale. “Secolo
d'Italia”, 11 ottobre 2012