Eric Stark

Notte da Maud. Condannati alla provincia (senza essere gesuiti)

Sandro Volpe La mia notte con Maud. Ritorno a Clermont-Ferrand (Kaplan 2016)

"La mia notte con Maud" non è soltanto il film di Eric Rohmer del 1969, è pure una storia, lunga trent'anni (1944-1974), di trattamenti, racconti e sceneggiature che ne precisano o complicano la linea narrativa e la scansione delle sequenze. Quando uscì, Gilles Jacob espresse il desiderio che la notte da Maud non finisse mai accompagnando, con il suo mondo in bianco e nero (semplificato, agli occhi d'oggi) e i dialoghi intelligenti (non cerebrali, pur nei riferimenti a scommesse pascaliane e giustificazioni gesuitiche) tra Françoise Fabian e Jean Louis Trintignant, la vita di ogni devoto rohmeriano.

In un classico di Arthur Penn, Bersaglio di notte, uno dei personaggi ne rifiutava la visione insinuando di non voler pagare un biglietto per sbadigliare. Per Volpe, e non solo per lui, è uno dei film della vita, di quelli cui periodicamente si ritorna anche per condividerne il piacere della visione con conoscenti che ancora lo ignorano e di cui si spiano le reazioni. C'è anche chi deliberatamente si guarda bene dalla sfidare una "materia" così intellettuale e troppo parlata, per tacere poi di un argomento, il matrimonio, che in quegli anni, se non bellamente ignorato, perlopiù veniva tirato in ballo solo per essere sbeffeggiato nelle coppie aperte e nelle relazioni pericolose portate sullo schermo dagli ormai ex colleghi di Rohmer, come lui passati dai testi di critica o teoria cinematografica alla regia, ma più di lui vestendo il ruolo da "cinefilo militante". All'opposto della concitazione dell'impegno, con la sua riserva e l'accento posto sulla condotta morale (sul senso da dare al proprio vivere) il "cattolico" Rohmer pareva chiudere con buon anticipo, anche quando ne condivideva i luoghi, le vacanze disordinate (tra Marx, Sade e Freud letti con Mao e Althusser) degli altri autori supportati dai Cahiers du Cinéma. Con i suoi sei "racconti morali" (di cui il film in esame costituisce il terzo capitolo) Rohmer giudicava il mondo parigino al cui centro si era installato senza farsene travolgere, mostrando di aver fatto i conti con le seduzioni della letteratura libertina (e quando se ne scandaglieranno gli inediti è probabile che un testo come quello recentemente pubblicato su Les infortunes de la vertu non resti isolato a conferma di dove venissero chiarezza e trasparenza del suo cinema). Schematizziamo: se Rohmer risaliva ai Pensieri di Pascal, i suoi colleghi ai Cahiers scommmettevano sulla lettura barthesiana di Sade, Fourier o Loyola.

Nell'ultima parte del testo, la più personale, l'autore rende conto del proprio pellegrinaggio sui luoghi delle riprese, registrando conferme e delusioni comuni ad ogni impossibile e temuto ritorno verso il mondo ritenuto più semplice, per quanto disturbato, dell'adolescenza: qui, ripercorrendo i passi del protagonista Jean Louis, nell'ennesima svolta della circolarità interpretativa, non ci resta che ammirare, nel riproporsi smaccato di zone oscure o lacunose, l'inestricabile annodarsi delle biografie nella felice casualità degli incontri più che per il gioco matematico delle probabilità.

“Fogli di Via”, gennaio 2018