Camilla
Scarpa
Paolo
Nori, l’Achmatova e l’egemonia culturale
“Vi avverto che vivo per l’ultima volta”
(Mondadori, febbraio 2023, 18 euro e 50) è il titolo dell’ultima fatica
letteraria di Paolo Nori. A dirla tutta il verso in questione, che dà il titolo
all’omonima poesia contenuta nella raccolta Einaudi “La corsa del tempo”, nella
traduzione di Michele Colucci recita piuttosto “(Ma) io vi prevengo che vivo
per l’ultima volta”. Era però destino che Nori, professore di traduzione,
facesse trasparire la sua personale visione di ogni cosa, e anche dei versi di
Anna Achmatova, perfino dal titolo del libro, che è infatti integrato da un
sottotitolo chiarificatore: “Noi e Anna Achmatova”.
Preliminarmente,
va detto (cosa che hanno fatto già molti critici, tra i quali spicca il
brillante Davide Brullo su Pangea) che il libro dice ben poco della Achmatova,
di quella Achmatova su cui Zdanov sentenziò,
escludendola dall’Unione degli scrittori, “Mezza suora, mezza prostituta, o
meglio, sia suora che prostituta, mischia il sesso alle preghiere; con la sua
piccola, misera vita privata, le sue emozioni insignificanti e il suo erotismo
mistico-religioso; la sua poesia è lontanissima dal popolo”, e il cui secondo
marito dirà “Anna è capace di unire in modo straordinario l’inutile al non
dilettevole”. Non è che, cercandole col lanternino nelle 250 pagine del volume,
non si trovino le informazioni di base sulla Achmatova, ci mancherebbe – ha
avuto tre matrimoni, tutti rigorosamente infelici, una storia con Modigliani,
un figlio con Gumilev, che ha reso assai infelice,
eccetera -, è solo che la strabordante personalità di Nori si pappa in un
boccone la defunta (e quindi inevitabilmente inerte) Achmatova come fosse un pel’meni poco
ripieno, ecco. Alla fine della lettura non sappiamo molto più di prima della
Achmatova, però in compenso sappiamo tutto – ma proprio tutto! – di
Nori: che sua nonna si chiamava Carmela, il soprannome di sua figlia e quello
della sua compagna, l’argomento della sua tesi di laurea, dove va a fare la
spesa, perfino i risultati dei suoi tamponi antigenici alla vigilia di un
viaggio importante.
E però… c’è un
però, che impedisce a queste poche righe di diventare una stroncatura,
l’ennesima. “La situazione era un po’ più complessa”, come ebbe a dire
Andreotti a Eugenio Scalfari in una memorabile scena de “Il Divo” di Paolo
Sorrentino. Già, perché Nori, complice lo scivolone della Bicocca sui corsi su
Dostoevskij e grazie al suo stile un po’ arruffato, apparentemente molto naïf,
riesce in un’impresa comunicativa straordinaria: dire con nonchalance una serie
di cose che, di questi tempi, a molti sarebbero costate la carriera e la
reputazione. Cita una lettera di Solženicyn a Karavanskij, ad esempio, che denuncia la contraddizione
insita nella difesa da parte degli Ucraini, dei “sacri” (sic, con
tanto di virgolette quasi di scherno!) confini leniniani, e menziona le mire
dalla Nato in Ucraina e la crescente oppressione dei russofoni nel paese. E non
è finita qui! Il libro si chiude addirittura sull’attentato che ha ucciso Dar’ja Dugina, di cui Nori dice
“Chi gioisce dell’esplosione di una donna di ventinove anni, per quanto
aberranti possano essere le idee di quella donna, secondo me è una bestia”.
Banale, si dirà, ma quanti “esperti di Russia” hanno avuto il coraggio di
dirlo, e di scriverlo? Anzi, Nori rincara la dose: riporta le parole di Sergej Zirnov, ex agente del KGB
redento, che ha insinuato che l’autore dell’attentato potesse essere il suo
principale beneficiario mediatico, ossia Dugin
stesso, e le commenta così: “Io, in questi mesi, ho sentito dire molte cose che
mi sono sembrate sbagliate, assurde, incomprensibili, paradossali, ma quella lì
[…] mi ha proprio disgustato”. Così, dritto al punto. E si domanda: “Ma noi,
noi, oggi, dobbiamo per forza reagire così meccanicamente, da cani di Pavlov,
alle tendenze del periodo storico?”.
E tutto questo
senza farsi marginalizzare o irridere dal mainstream
come un Orsini qualsiasi, e continuando placidamente a pubblicare per editori
blasonati: UTET, Mondadori, Salani, Marcos y Marcos.
Un’operazione di controegemonia culturale che avrebbe
suscitato gli applausi di Gramsci in persona.
Insomma, Nori
nel corso del libro piange tanto – è legittimo pensare che almeno un po’ fotta
anche, per mantenere il parallelismo suggerito dalla tradizione napoletana,
specie quando affetta la trendyssima “sindrome
dell’impostore” – ma dietro al velo di megalomania e di lacrime (di
coccodrillo?) cela una robusta dose di libertà di pensiero, il che non è poco,
affatto.
“Lode a Mishima e a Majakovskij”, cantavano i CCCP, forse in aria
di reunion… e un po’ anche a Paolo
Nori, chiosiamo più umilmente noi.
“Barbadillo.it”, 11 giugno 2023