Jean Montalbano

Nico, bersaglio mobile

Sa di unplugged ante-litteram la recente pubblicazione su compact disc (Alchemy Entertainment 2003) del concerto tenuto da Lou Reed, John Cale e Nico al Bataclan di Parigi nel gennaio 1972: solo pochi allora la considerarono, accigliati, una rimpatriata (inutili, per quei soggetti, le risorse del marketing) poichè le ceneri, ancora calde, dei Velvet Underground tenevano lontani, in quegli anni di rock progressivo, glam o hard le occhiate fredde che dovevano accompagnare la riunione di venti anni dopo. Reed era sulla via di Berlin, mentre Cale, oltre ai lavori solistici, aveva firmato o stava per completare produzioni con, tra i tanti, gli Stooges, Riley e la stessa Nico, ritornata in Francia per proseguirvi l’oscura “carriera” cinematografica con Garrel; neppure stavolta la defilata berlinese riuscì a ritagliarsi quel ruolo spigliato e confidente, da padrona di casa o da accorta manager di sé stessa, che oggi una qualsiasi Carla Bruni riesce a imporre almeno al vecchio continente.

 A confermare un percorso in minore, già la precedente riedizione “gonfiata” dell’esordio velvetiano sembrò fare di Chelsea Girl (l’inizio solistico di Nico) una nota a margine dell’opus magnum di Reed e Cale, il che aumentò lo scontento di quanti, annoiati dalla deriva consensuale cresciuta intorno all’album-banana di Warhol pervicacemente, e con sospette punte di snobismo, si ostinano a frequentare, in luogo dei marciapiedi di Lou, le diramazioni meno battute e i terrains vagues solistici degli ex compagni. Ma c’è poco da fare: l’elastico delle storie personali pur sempre alla factory newyorkese deve tornare e alle ambizioni di un leader di r’n’roll band che non disdegnava la collaborazione a riviste d’elite come “Aspen”.

La scomparsa di Nico, avvenuta nel 1988 in quella stessa isola balearica, non ancora carnaio, conosciuta oltre trent’anni prima, la sottrasse alla gratificante tentazione di un ultimo appello (“vi farò guadagnare un mucchio di dollari” pare suonasse l’argomento di Reed) cui si arresero gli altri del gruppo, confermandone la sostanziale estraneità ai palchi-barnum e ribadendone la natura, per origine e destinazione, intimamente europea. Negli ultimi tempi l’ex modella di Maywald ed attrice teneva, in vista di una probabile autobiografia, un diario in inglese, da cui sono tratti i passi che seguono:

 

      “ Tutto quanto avevamo a Berlino, mia madre lo vendette per 1000 marchi; lasciammo Berlino per sempre, almeno questa era la nostra intenzione. In una mattina dell’estate 1954 giungemmo in barca ad Ibiza; con noi c’era uno scrittore americano, Steve Cealey; la parte vecchia d’Ibiza è sempre stata rumorosa. Quasi subito trovammo un posto alla fine del porto, e dal momento che non era molto accogliente per mia madre, affittammo a Figueretas, dove passammo due mesi di gloria, i soldi finirono, ne presi a prestito per il battello e il treno per Parigi, dove subito cominciai a lavorare per Maywald e la rivista “Elle”. Al principio stavo in un piccolo hotel di place de la Contrescarpe, la sola toilette era in fondo alle scale e c’era un buco con due appoggi per i piedi, Hemingway stava lì vicino, al Grand Hotel, a scrivere un romanzo, non so quale. Poco dopo l’arrivo a Parigi, Maywald mi portò sulla costa azzurra, dove un’intera collezione d’abiti da sera doveva essere fotografata, inclusi cappelli senza dubbio tra i più grandi mai portati e più adatti a mature signore. Saint Tropez era quel che era, un posto giusto con un bel ragazzo, il cigno nero cui diedi l’impressione d’essere un giovanotto, con i miei capelli corti e il tono grave della voce, il mio nome era principe Myshkin. A quel tempo avevo un debole per i gay e volevo spacciarmi per tale. Penso ancora che mi credessero tale. Con i soldi guadagnati in Francia ho sempre cercato di ritornare in Spagna per le vacanze e stare con la mia cara mamma e amica; era una gran donna, nessuna meraviglia che mio padre l’abbia amata in quel modo. Aveva il dono di predire con giustezza le cose che stavano per accadere. In Spagna i marginali americani trovavano casa, erano scrittori, pittori e musicisti che diffusero LSD nell’isola, presi a portarne fuori dal paese in flaconcini contagocce per darlo agli amici di New York, Al Aronowitz guidava su e giù per Manhattan fatto di acido con me ad accompagnarlo, una sera andammo a vedere al Café Bizzarre un nuovo gruppo, The Velvet Underground, che suonava per l’ultima volta poiché la gente non poteva ballare con quella musica e loro dovevano andarsene. Di loro avevo parlato a Bob Dylan, ma era troppo occupato con gente del Kettle of Fish nel Village e non sarebbe venuto a sentirli, forse gli stavo sui nervi, essendo innamorata di lui alla mia maniera, dopotutto adesso era pure sposato ed in attesa del primo figlio. In profondo, amavo ancora Alain ma lui a me non ci pensava proprio, molto semplicemente non mi capiva ed essere una modella non è poi gran cosa, più tardi ho fatto dei film con Andy Warhol, loro mi seguivano girando per tutta la città, talvolta ero stufa di esser sempre filmata, anche quando proprio non me la sentivo. Girare con i Velvets e Ari era divertente ma i soldi erano scarsi, ciascuno prendeva cinque dollari al giorno per vivere, ora che ci penso, quel che i giornali dissero delle somme favolose guadagnate, a volte non avevamo un letto dove dormire e dovevo passare la notte in macchina con il piccolo Ari, per quanto fosse stanco. Le persone impegnate e che viaggiavano con noi erano tante, anche quando non avevano nulla da fare, volevano tutte essere nel giro. Il Plastic Exploding Inevitable ? “