Qualche tempo fa pubblicammo la rimbeccata di Carlo Luigi Lagomarsino a un articolo di Wolf Bruno (vedi la “Circolare” del 2002). Inutilmente abbiamo chiesto all’interessato di reagire a sua volta. Improvvisamente, qualche giorno fa, nel giugno del 2004, l’amico Wolf ci ha consegnato questo testo. Forse non è finita qui, ma gli anni passano...  ubblicammo la rimbeccata di carlo Luigi Lagomarsino a un  

Wolf Bruno

io, nichilista

Mi viene da pensare che le parole siano tutte più vaghe di quanto lascino supporre. Dal momento che penso delle parole, anche i miei pensieri han da esser fuggevoli, magari vacui, ammissibilmente scriteriati e forse frivoli. Ciò nondimeno, nel manicomio dove mi agito con qualche altro miliardo di miei consimili di solito ci se ne infischia. Si è loquaci o pensosi a seconda di occasioni determinate di volta in volta da obblighi secolari, dalla necessità di spiegare e farsi spiegare, dai capricci nostri e altrui, cosicché fra i pensieri e i discorsi che nascono  e rinascono c’è frequente quello di oltrepassare le grate imposte alla nostra vita. È difficile stabilire se il problema si presenti più frequentemente nei termini di una scelta urgente come quella di scansare un conoscente impiccione e - a proposito di parole - ciarliero, oppure lo si tenda porre al riparo di un certo numero di idee fisse. In questo caso, l’intrepido uomo d’azione che svolta l’angolo onde non incappare nell’altrui facondia si lascia andare al pensiero di rifugiarsi in isole alla fine popolose ma ancora sufficientemente lontane dalle comuni abitudini, di allontanarsi dai vincoli che pure a suo tempo si è dato con entusiasmo, di fuggire anche da se stesso – cosa in fondo tutt’altro che insolita benché di fatto comporti soluzioni che appaiono estreme.

Quanto alle parole usate, una in particolare spicca  per l’uso indifferentemente avventato o incerto, quando non venga considerato sciocco o, viceversa, elevato: Libertà. Questo non ha impedito la ricerca di spiegazioni il più possibile concrete, ma con tutta la nobiltà d’animo che pur si è profusa nell’impresa i risultati sono rimasti in fin dei conti modesti, e ciò in qualche modo è ammesso proprio dai più reputati fra i suoi dotti propugnatori. Comunque essi si chiamino, la cosa più toccante è l’impulso romantico a gettarsi nella mischia – tanto più commovente quanto più è evidente in alcuni fra di loro la professata distanza da ogni romanticismo. Ma se poi si volesse proprio abbattere ogni residuo di questa componente poiché altro non darebbe che un vuoto attivismo sentimentale, che cosa si dovrebbe fare di quel che resta, vale a dire tutte le ragionevoli distinzioni di un approccio dottrinale?

Difficile pensare a qualcosa d’altro se non che la Libertà non è mai quella di far ciò che si vuole, perlomeno non lo è mai del tutto. E se le regole sono quelle pensate da Berlin piuttosto che da Mill, da Bakunin invece che da Hayek, da Constant e non da Rothbard, la sostanza in fondo è sempre la stessa, ideologicamente configurata e nei fatti inservibile se non come fede, idea scatenante, inarrivabile tema di vita, sfondo interpretativo, disciplina sdoppiata nelle sue incarnazioni pubbliche e private.

 Ho ancora in mente certi vecchi anarchici che un po’ si schermivano (seppur con intima soddisfazione) a dichiararsi tali, come se la loro idea della libertà fosse a tal punto madornale da non poterla accettare veramente se non come un desiderio inesprimibile. Ma se cotanto pudore - apparente che sia - si trasfigura in altri nella certezza dell’azione in quanto tale, la certezza senza pudore - si vedano al proposito i libertari rothbardiani - ha bisogno di espressioni come “diritti naturali”, “individualismo metodologico”, “etica del mercato” per configurare infine una precisa idea della libertà, la quale, proprio perché precisa, è una volta di più e con gran vigore avversa ad ogni libertà che non  sia legge, così come per l'appunto c’è da chiedersi quanto sia individualista l’individualismo metodologico, o non sia piuttosto soltanto “metodo”. D’altra parte, quando si parla di “diritto alla vita” che ruolo si dà - ammesso che lo si dia - alla morte? Fra tanti capricci verbali, quale è alla fine il più bizzarro, quello che argomenta del “diritto naturale” o quello che si fa sostenitore del “diritto divino”?

Quando Locke attaccando il patriarca di Filmer attacca il diritto divino, in realtà, voglia o non voglia, tenta la demolizione di una comprensibile metafora con un’altra metafora ugualmente comprensibile, ma si lascia sfuggire del tutto le loro reciproche ragioni. E’ il difetto dell’ illuminismo quello di combattere la superstizione senza capirla. Al fondo c’è un disprezzo per l’uomo tale quale è. Non dico che i singoli uomini non siano disprezzabili, ma la libertà di esserlo?

Spinoza, contemporaneo di Locke, aveva l’impressione che una volontà pienamente libera non potesse appartenere che a Dio, seppure gli uomini – coi limiti imposti loro dalla fastidiosa circostanza di essere tali – non sbagliassero a seguire liberamente la propria inclinazione, anche quando fosse delittuosa. Si può dire che tali sembianze sconvolgenti della libertà abbiano preso a un certo punto soprattutto l’aspetto delle argomentazioni di Donatien-Alphonse-François de Sade. Col tempo simili argomentazioni sono diventate perfino qualcosa che assomiglia a un genere letterario i cui modi non sempre pensosi - che vi venga espressa una salda riprovazione morale o meno - tendono ad illustrare le paradossali facoltà del peggio. Per quanto siano state a lungo trascurate, sono di fatto le idee di Sade con le quali ci si continua a confrontare nello specifico. Sembra ovvio che ciò avvenga in un contesto pruriginoso e che questo lo si cerchi di arginare - quando non  lo si voglia invece vivere con allegria - attraverso aggettivi come “ributtante”, “folle”, “infantile” o altri più o meno analoghi, ma ciò dipende in realtà da quel complesso di distinzioni cui indulgono gli specialisti della filosofia che di passaggio citano sì il Sade, ma preferiscono in genere spostare le relative questioni su altri nomi.

Ma non è questo l’importante.

Sta di fatto che è convinzione comune - rifacendosi perlomeno alla saggezza infusa nei proverbi - che al peggio non ci sia  limite e sarebbe per questo che dei limiti si devono imporre alla libertà. Come minimo, senza scomodare i diversi sistemi di governo, questi limiti dovrebbero essere quelli dettati dalla morale, per cui a determinare la vita di ognuno non sarebbero le personali inclinazioni insieme alle molto individualistiche convenienze, ma le regole astratte, gli statuti del bene, la sovranità del tutto sulla parte. Mi chiedo a questo punto, cos’è quel libero ed etico mercato propugnato dai libertari rothbardiani: il luogo reale dove gli uomini si scambiano i loro prodotti - ognuno seguendo la propria astuzia - o il luogo immaginario nel quale – come in una sorta di giudizio universale – gli uomini vengono resi misurabili? Eccolo dunque il capolavoro della burocrazia che nemmeno i più immaginosi fra i comunisti riuscirono a lasciare in dote.