Eric Stark
il cugino Nicolas
Vincent Giroud: NICOLAS
NABOKOV. Oxford University Press, 2015
Le promesse della vita
parvero ancora intatte al giovanissimo Nicolas Nabokov (1903-1978) nel momento
in cui con la famiglia, vicina a quella zarista, fu costretto all'esilio nel
1919. Dopo gli studi musicali in Germania (anche con Busoni)
la sua momentanea patria divenne Parigi, dove, giocando al russo cosmopolita,
compose anche per i balletti di Diaghilev,
frequentando Joyce oltre ai più dotati colleghi Stravinsky
(che negli anni seguenti lo chiamò “culture generalissimo”) e Prokoviev. Gli anni trascorsero, senza eclatanti exploits nella competiva capitale
francese, con il risultato di una “Sinfonia Lirica”, una “Vita di Pulcinella” o
una “Union Pacific”.
Trasferitosi poi negli Usa, dapprima per insegnare, divenuto cittadino
americano nel 1939, fu durante il secondo conflitto mondiale che l'ex rifugiato
Nabokov, entrato nel “circolo russo” di Washington (conoscendovi I. Berlin e G. Kennan) s'impegnò,
con gli auspici di W. H. Auden, nella “Divisione
Morale” in qualche modo occupata a monitorare e gestire l'uscita dal conflitto
in Europa. Quella svolta, riducendo le sue originarie occupazioni musicali al
rango di “occasione di promozione sociale”, avviò un'intensa collaborazione con
i Dipartimenti preposti alla transizione post-nazi in Germania.
L'esperienza sul campo
berlinese, dirimpetto alla pressione sovietica, avrebbe reso Nabokov un
discreto protagonista della guerra fredda culturale ingaggiata
dall'amministrazione USA per contrastare la “presa” esercitata dall'ideologia
comunista su tanta parte della cultura “alta” americana, tanto da avervi
determinato un atteggiamento alla Polyanna, diffuso
ben al di là del gruppo di “compagni di strada”. Alla contromossa vennero
associati noti dissidenti ex comunisti (con le riviste Commentary,
New Leader o Partisan Review
a fornire le munizioni) allo scopo di prendere le distanze da un pacifismo
unilaterale e manipolato, rivendicando gli apporti universali e umanistici
delle libere società occidentali. Strumento principale dello scontro, tramite
il finanziamento di Fondazioni ad hoc, divenne per oltre 15 anni il “Congress for Cultural Freedom” (di cui Nabokov forte delle origini e del lavoro
berlinese al “servizio russo” della radio Voice of
America) fu segretario e impresario, dedito a smentire le pregiudiziali
anti-americane diffuse nel vecchio continente, rivendicando, con festival e
riviste in risposta alle manipolazione sovietiche, la forza, esibita con
dovizia di mezzi, della cultura occidentale borghese e non corrotta, libera e
non malata. Della battaglia già si occuparono Peter Coleman, nel suo, a tratti
insoddisfacente, “The Liberal Conspiracy”,
Pierre Gremion con “L 'Intelligence de l'anticommunisme” e
più recentemente Frances Stonor
Saunders in “The Cultural Cold
War”. Le iniziative del CCE dovevano ricordare agli stessi scontenti europei
colti di Berlino, Parigi, Londra o Roma, il significato e valore di quanto
raggiunto dalla loro stessa libera cultura nei primi cinquant'anni del secolo,
sprezzantemente tacciati di decadenza e formalismo dalla propaganda
d'oltrecortina, ma già all'epoca qualcuno sostenne che quei festivals
o congressi, nell'accumulo talvolta circense di eventi ed ospiti, promuovessero
più la fama e la reputazione del loro segretario che non la libertà della
cultura. Adesso il francese Vincent Giroud in un
grosso volume rivà a quegli anni, rimettendo mano ad un materiale
ultradecennale di voci discordi, avendo per guida quella solista, fin qui
spesso soffocata, del meno noto cugino dell'autore di Lolita.
Mentre Washington
foraggiava la musica, per tessere la rete in Europa Nabokov era aiutato dal
lituano d'origine Michael Josselson, lui sì
consapevole della provenienza dei fondi; superfluo ricordare qui i tanti
beneficiari dell'autentico piano Marshall culturale, dai Koestler
e Silone, agli Aron e Maritain:
l'elenco di convegni e riviste è nutrito. Giunto al coinvolgimento politico
partendo da esperienze educative e didattico-musicali,
Nabokov continuò a sottolineare la centralità della musica, per eccellenza arte
la più soggetta ad accuse di formalismo (e a costo di sostenere figure, come Furtwängler o Karajan, già conosciute ai tempi della
denazificazione): diffondere e rivendicare le conquiste della civiltà musicale
novecentesca (Stravinsky e Schoenberg
in primis) era il suo modo di scendere in campo contro le scomuniche sovietiche
che riconduciamo al nome di Ždanov. Entrato nel
gruppo degli intellettuali newyorkesi formatosi intorno a D. Macdonald e Chiaromonte, in un
articolo del 1948 su politics, riferendosi
alle “purghe” musicali, paradigma per altre esclusioni, Nabokov rovesciava le
accuse di decadenza borghese rivolte alle produzioni culturali del mondo
libero, rivendicando il valore del formalismo, in primis della musica, in
quanto conquista e non vizio della cultura europea. Esplicitando i punti fermi,
accusava il Politbüro di atteggiamenti xenofobi verso
la cultura europea fin dal 1929, più o meno virulenti a seconda dei momenti
opportuni, e indicava nel compagno Ždanov il
momentaneo protagonista della campagna di depurazione (dei teatri prima, della
letteratura poi) da ogni legame con le correnti pre-rivoluzione
del 1917 cominciata già negli anni trenta: tutto quel periodo veniva definito
il più degradante, decadente e vergognoso nella storia della intelligentsia russa. Simbolisti, imagisti, decadenti,
tutti insaziabili sadici erotomani, tagliati i legami col sano popolo,
avrebbero diffuso i principi dell'arte per l'arte, predicando intenzionalmente
la mancanza di ideologia per coprire con belle forme la propria decadenza
morale. (Anche uno stressato Šostakovic presenziando
nel 1949 alla Waldorf Conference
pro-URSS avrebbe definito il demone Stravinsky un corruttore dell'arte occidentale).
Rovesciandone il segno in positivo, erano proprio questi esiti che, tramite le
attività promozionali in tutti i paesi sottratti al diretto controllo
sovietico, Nabokov intendeva riprendere e diffondere, rivendicandone il valore
assoluto per la cultura europea tout court e non solo borghese. Quanto questa
strategia sfiorasse i territori parassitari del mid-cult
temuti dall'amico Macdonald è un altro paio di
maniche. Barcamenandosi fra sinistra non comunista, liberali e conservatori,
l'attivismo di Nabokov al di là dell'atlantico cercava di correggere la
percezione, diffusa nella stessa America, dell'ambiente di Washington come
indifferente, se non ostile, al mondo artistico e letterario: ormai membro
permanente della Repubblica della Musica, fin dal 1961 scambiò lettere con
Jackie Kennedy, fresca first lady, affinché quel pregiudizio fosse corretto (le
conseguenze del cambiamento furono manifeste, in Italia, con lo sbarco
massiccio e l'incoronamento di Rauschenberg e soci
alla Biennale del 1964).
Né si trattava di
faccende solamente estetiche; oltre che organizzare megaconvegni (all'isola
veneziana di San Giorgio, per es.) in Italia quando non ci si occupava del
visto per l'America negato a Moravia, considerato più anti-americano che
filo-comunista, c'era da mediare tra italiani guastati dall' ideologia crociana,“intossicati dall'antifascismo” e traviati da
un'arroganza anticattolica. Altrove occorreva agevolare nel 1954 il passaggio
ad ovest del compositore polacco A. Panufnik e nel
1956, grazie ai musicisti ungheresi rifugiati, dare una mano alla creazione
della Philarmonia Hungarica.
La composizione, spinta spesso in secondo piano da tali pratici impegni, tornò
ad intermittenza nelle collaborazioni con S. Spender per l'opera “La fine di
Rasputin” (1959) o con Auden per “Love Labour's Lost”(1973). Pene
perdute sembrarono le stesse iniziative del CCF quando nel 1967 si palesò il
ruolo maggiore svolto dalla CIA nelle operazioni del CCF e delle sezioni
affiliate; anche Nabokov, infiltrato a sua insaputa, fu colpito dal discredito
(forse eccessivo, ma erano gli anni del Vietnam) e, ribadendo la propria onestà
intellettuale e buona fede, continuò a lavorare nelle università americane,
fino a consegnare la sua versione nelle memorie, a volte reticenti, pubblicate
nel 1975. “Fogli di Via”, marzo-luglio 2016