Nato nel 1913 in Vietnam, Ngô
Van emigrò in Francia nel 1948 lavorando come operaio alla Simca. Di formazione
trotzchista, in Francia ebbe a frequentare Maximilien Rubel e il gruppo ICO (Informations et correspondances ouvrières)
nato da una costola di “Socialisme ou Barbarie” nel 1958 per poi
proseguire autonomamente su basi consiliariste fino alla formazione della nuova
rete di Echange et Mouvement nel 1975. Il seguente testo sul maoismo è tratto
dal bollettino “Informations et Correspondances ouvrières” datato dicembre 1971- gennaio 1972.
Ngô Van
Con queste note intendiamo contribuire alla demistificazione fra di noi di questo nuovo «ismo» che si manifesta rumorosamente dal maggio 1968, e cercare di far conoscere questo mondo così lontano che partecipa all’universalità del sistema d’oppressione e di sfruttamento inaugurato mezzo secolo prima in Russia sotto la bandiera del marxismo-leninismo.
L’attrazione esercitata dal maoismo sugli spiriti nelle regioni ad economia essenzialmente agricola dove i contadini poveri costituiscono la maggioranza degli sfruttati, e su una frazione agente della gioventù dei paesi fortemente industrializzati, ci sembra provenire da due fatti principali. Esito vittorioso di una guerra contadina condotta da Mao contro la borghesia ed i suoi signori della guerra potentemente sostenuti dagli imperialismi; atteggiamento antiamericano del regime di Mao.
Per i contadini poveri arruolati sotto la bandiera dei partiti nazionalisti, la vittoria di Mao sembra aprire alle loro lotte una prospettiva di successo che fa nascere una speranza paragonabile a quella che agitò il mondo l’indomani della presa del potere da parte dei bolscevichi nel 1917. Per la gioventù occidentale animata da uno spirito di rivolta contro l’annientamento dei deboli da parte dei potenti, e prigioniera di un mondo capitalista in crisi permanente e senza movimento operaio rivoluzionario, «Mao è il cammino, la lunga marcia della vittoria» (La cause du Peuple, 1 agosto 1971).
Che ne è di fatto? Dopo venti anni di regime maoista, il capitalismo di Stato cinese evolve verso l’imperialismo e tende a disputare zone d’influenza con altri imperialisti. «Ma la Cina non è una grande potenza come le altre», ci dicono i maoisti. Certo, se le truppe cinesi hanno occupato il Tibet fu «per liberare i tibetani dal feudalesimo». E «l’internazionalismo d’un nuovo genere» (La cause du Peuple dixit) della Cina di Mao consiste nel difendere i diritti dei bengalesi del Pakistan orientale a farsi massacrare dagli eserciti di Karachi ai quali fornisce aiuto e sostegno in nome dell’integrità territoriale del Pakistan; come contropartita, Mao trova il generale Yahya un alleato militare contro l’India. La repubblica popolare non cede per niente il passo alle altre potenze nella penetrazione in Africa. Con il frutto del lavoro degli operai e dei contadini cinesi, i burocrati di Pechino contribuiscono a consolidare il potere e le basi dello sfruttamento dei borghesi africani in vista di ottenere la loro alleanza. Al «socialista» Sekou Touré non hanno offerto dieci milioni di dollari a titolo di aiuto contro la sovversione nel momento della «invasione portoghese»?
Di recente, dopo la sanguinosa disputa per il potere fra colonnelli e generali a Khartum, dove comunisti e sindacalisti furono impiccati dai vincitori, non appena i russi vennero cacciati dal Sudan arrivarono gli emissari di Mao a proporre i servizi della Cina. I maoisti locali ci spiegarono che era in favore della causa del popolo sudanese!
Non perdiamo di vista la fornitura di armi e di viveri della Cina ai vietnamiti, laotiani, cambogiani, filippini, birmani... contro l’imperialismo americano: ai naxaliti del Bengala contro il potere di Nuova Delhi... Ci viene detto che ciò avviene in favore della causa di questi popoli, per la loro «indipendenza nazionale». Ma non perdiamo nemmeno di vista il fatto che Mao è il discepolo spirituale di Stalin. Si ricorda che Stalin fece un brindisi a Hitler per la spartizione della Polonia, lo si è visto annettere l’Estonia, la Lettonia e la Lituania che una volta appartenevano agli zar e ridurre i paesi dell’Europa centrale a satelliti del nuovo impero russo. Mao saprà bene, sulla scia del suo maestro, utilizzare tutti i movimenti detti di liberazione a profitto delle manovre diplomatiche della potenza cinese. Nel 1936, Mao confidò a Edgar Snow (Stella Rossa della Cina) di essere a favore dell’indipendenza di Formosa contro l’imperialismo giapponese. Adesso Pechino parla di Formosa come di una provincia della Cina, di un «territorio sacro» della grande Cina, e Sie Xue-hong, una comunista formosana clandestina, rifugiata a Pechino, non è stata deportata nel Turkestan orientale (Sinkiang) per aver osato ricordare a Mao il diritto dei formosani di disporre di se stessi? Saranno davvero i contadini poveri di tutte le resistenze del mondo che pagheranno con la loro pelle la politica di potenza della Cina maoista. Da un lato essi vengono ingannati dai “liberatori”, i loro nuovi padroni e futuri sfruttatori, e dall’altro dal salvatore supremo della Cina.
Quale insegnamento traiamo dalle «Citazioni del Presidente Mao Tse-tung»?
Sotto questo titolo è stato raccolto in un libretto rosso un insieme degli estratti degli scritti di Mao fra il 1926 ed il 1964, che fu pubblicato a Pechino nel 1966 dal «Commissariato politico generale dell’esercito di liberazione». Sono presentati da Lin Piao, attuale capo dell’esercito, che esorta «le masse di operai, contadini, soldati, dirigenti rivoluzionari e intellettuali... a studiare le opere del presidente Mao, seguire i suoi insegnamenti ed agire secondo le sue direttive» di cui l’essenziale si concentra in questo catechismo: «È giusto ciò che riesce, è falso ciò che fallisce».
La burocrazia militare che preparava il vasto regolamento di conti che fu la «rivoluzione culturale», d’altronde valvola di sicurezza della fermentazione libertaria contro un partito burocratico opprimente, pubblicò questo opuscolo in milioni di copie diffondendo così le parole di un «capo militare», di un «maestro che istruisce» e che è riuscito, quindi che è giustificato dalla storia: «In generale, è giusto ciò che riesce, è falso ciò che fallisce».
Maoismo e contraddizioni confuciane
La burocrazia del capitalismo di Stato, militare e maoista, fa di questo libretto rosso la base morale e politica necessaria alla sua autorità, proprio come i funzionari-alfabetizzati dell’antica burocrazia imperiale trovavano sostegno nei testi canonici confuciani. Il confucianesimo, espressione dell’ideale morale e politico feudale della Cina antica, venne più di una volta rivisto dalla burocrazia imperiale per essere adattato alle forme politiche del potere, ma i suoi precetti di base — rispetto per il potere dell’imperatore e dei suoi mandarini, rispetto della gerarchia sociale e familiare, sottomissione volontaria dell’inferiore al superiore, dove ognuno compie i doveri della sua condizione (il principe deve comportarsi da principe, il suddito da suddito, il padre da padre, il figlio da figlio) — sono sempre stati utilizzati dai governanti e lo rimangono ancora nella Repubblica popolare, secondo il catechismo rosso attuale: «sottomissione dell’individuo all’organizzazione; sottomissione della minoranza alla maggioranza [il che si traduce nella sottomissione di ottocento milioni di contadini e operai a una decina di milioni di dirigenti maoisti]; sottomissione del grado inferiore al grado superiore; sottomissione dell’insieme del Partito al Comitato centrale». Il culto del capo geniale corona tutto questo edificio «popolare».
Osserviamo che, a fianco del confucianesimo, nel libretto rosso viene invocata l’autorità di altri saggi dell’antichità cinese, come Lao-tse e Suen-tse. Si trovano ugualmente degli adagi millenari che esprimono la morale ideale di una società agraria, in maniera tale che questi testi infarciti di luoghi comuni del materialismo storico e della dialettica materialista, Marx-Engels-Lenin-Stalin, si ritrovano amalgamati con l’antico pensiero cinese. Prima della suo accesso al potere, Mao si ispirava alla Scuola delle Leggi d’avanti Cristo — arte di governare attraverso le leggi, le punizioni e le ricompense, opposta all’arte di governare attraverso la morale e i riti, professata dai confucianisti — per la redazione del programma del Partito (11-6-1945), capitolo X, art. 63: «I membri del Partito... che si distingueranno nell’esecuzione del programma del Partito così come nella politica e nelle decisioni del CC e degli organi superiori... saranno ricompensati».
Appoggiandosi sul pensiero antico in favore della causa di un nuovo regime di sfruttamento, Mao non ha fatto che seguire le orme degli antichi mandarini (che, come lui, credevano spesso di operare per un mondo migliore). Esattamente come quando afferma che «in ultima istanza, il regime socialista si sostituirà al regime capitalista; si tratta di una legge oggettiva, indipendente dalla volontà umana»; anche i mandarini credevano che il regime della loro epoca — il regime imperiale — fosse concesso dal Cielo (t’ien-ming).
Dittatura del proletariato cinese o dittatura sul proletariato ed i contadini cinesi?
Consideriamo la vittoria militare di Mao come la vittoria di una guerra di contadini nella tradizione millenaria delle guerre contadine in Cina, che fino ad ora non hanno contribuito ad altro «sviluppo storico» che alla caduta delle dinastie e alla fondazione di nuove; questo popolo di servi da sempre non ha visto che cambiamenti di padroni.
Prima di Mao, tre capi contadini avevano avuto successo: il primo, Lieu Pang, fondatore della prima dinastia Han nel 206 a.C.; il secondo, Tchu Wen, fondatore della dinastia Leang nel 907, ed il terzo, Tchu Yuan-tchang, diventato imperatore Ming nel 1368. Mao, nella congiuntura storica del declino dei vecchi imperialismi, ha potuto vincere la borghesia, i signori della guerra appoggiati dalle potenze, eliminare il compradorismo che egli chiama capitalismo burocratico, il regime della proprietà fondiaria che egli chiama feudalesimo e la classe dei proprietari terrieri; dichiara che il suo Stato è fondato sulla dittatura del proletariato che si propone di realizzare l’industrializzazione della Cina e di modernizzare la sua agricoltura; che il proletariato industriale è la forza dirigente della sua rivoluzione.
Che avviene nella realtà? Questo «Stato popolare che protegge il popolo» con la sua polizia, il suo esercito, ed i suoi quadri gerarchizzati ad immagine del mandarinato dell’antica Cina, è un apparato di coercizione e di repressione nelle mani nella nuova classe sfruttatrice, la burocrazia del capitalismo di Stato contro i contadini e gli operai che ancora non costituiscono che una piccola parte della popolazione e non hanno alcun altro ruolo che quello di produrre per realizzare i piani dello Stato. Questo Stato paternalista estrae dal lavoro degli operai e dell’immensa massa di contadini la ricchezza necessaria all’accumulazione capitalista.
Lo Stato non può essere il proletariato; il proletariato vedrà la fine della sua schiavitù solo con la morte dello Stato. Se il compito attuale «è quello di rafforzare l’apparato dello Stato popolare, e principalmente l’esercito popolare, la polizia popolare e la giustizia popolare», i cui membri lavorano solo occasionalmente in fabbrica o nei campi, «la dittatura democratica popolare diretta dalla classe operaia» indica esattamente la dittatura di qualche milione di burocrati, poliziotti e militari, del partito e dell’amministrazione su sei o ottocento milioni di uomini e donne nei confronti dei quali viene loro raccomandato di usare la persuasione.
Tuttavia, al fine di poter esercitare una attività produttiva efficace, studiare con successo e vivere in condizioni in cui regni l’ordine, il popolo esige dal suo governo dei dirigenti della produzione e dei dirigenti delle istituzioni culturali ed educative che diano ordini amministrativi appropriati aventi un carattere obbligatorio. Il buon senso indica che senza questi ultimi sarebbe impossibile mantenere «l’ordine nella società» (si ritrova qui in tutta la sua purezza lo spirito della Scuola delle Leggi sopra evocata).
Mistica della nuova Bibbia
Tutti i luoghi comuni del marxismo-leninismo contenuti in questo libretto infiocchettano il fatto fondamentale di una società di sfruttamento e oppressione, nello stesso modo in cui la dottrina di Confucio piena di eccellenti precetti morali evocava il Cielo per infiocchettare la schiavitù feudale senza limiti dei contadini. Si può dire che il libretto rosso sia un trattato di morale e di saggezza, se per saggezza si intende l’adattamento più riuscito alla società burocratica prodotta dalla vittoria di una guerra contadina, che nutre l’illusione di una società egualitaria e libera per un avvenire lontano predicando il sacrificio gerarchico e la soggezione nel presente.
Nemmeno i due grandi movimenti insurrezionali contadini del II secolo, quello dei Turbanti Gialli e quello dei Cinque Sacchi di Riso dei Maestri Celestiali alla fine dei secondi Han (25-220), come tutti gli altri del resto, mancavano di una mistica sociale. Ebbero la loro bibbia in cui si esprimeva il sogno della fine della sofferenza contadina. Per i Turbanti Gialli fu il T’ai-ping king, Libro sacro della Grande Pace; per i Cinque Sacchi di Riso fu il Tao-te king, Libro sacro della Via e della Virtù, che si sono conservati fino ad oggi. Per i cinesi odierni è il libretto rosso. Tutto ciò che professa è ragionevole e saggio secondo i criteri dell’ordine sociale e politico della Cina contadina in via di industrializzazione che possiede molti uomini e poche macchine. E costituisce in qualche modo un talismano che protegge il suo possessore contro ogni sospetto di eresia.
«Non è possibile trasformare il mondo se non col fucile»
Viviamo ancora in un mondo in cui l’imperialismo alimenta il nazionalismo dei paesi poveri. Che il maoismo si presenti ai nazionalisti di questi paesi come una speranza non ha nulla di sorprendente, poiché la sua vittoria in Cina è stata eclatante e proclama a tutti che «il potere sta in fondo alla canna del fucile»; dato che promette «un aiuto attivo ai movimenti nazionali d’indipendenza e di liberazione dei paesi dell’Asia, dell’Africa e dell’America latina»; ma, notiamolo di sfuggita, esso vede nell’imperialismo russo e nel suo impero un «campo socialista, che include una popolazione di novecento milioni di anime», e quando i carri armati russi fecero annegare nel sangue operaio l’insurrezione di Budapest nel 1956, ha appoggiato l’argomentazione russa e non ha condannato l’intervento criminale.
Come mai il libretto rosso cinese non è diventato il viatico degli ambienti operai rivoluzionari dei paesi industrializzati, come lo furono gli scritti dei bolscevichi dopo la rivoluzione russa del 1917? Il leninismo — la cui continuità è rappresentata dal trotskismo da una parte e dallo stalinismo dall’altra — marxismo russo che ha strangolato le iniziative rivoluzionarie dei soviet operai russi dopo la sua costituzione in Stato, ha perduto molto della sua presa sullo spirito degli operai rivoluzionari delle democrazie occidentali (bisogna riconoscere che da allora il numero degli operai rivoluzionari è fortemente calato sotto il peso delle disillusioni). Lenin concepiva la presa del potere con una insurrezione armata del proletariato rivoluzionario delle città e pensava in teoria che la democrazia operaia si sarebbe realizzata attraverso i soviet (vedere Stato e Rivoluzione). Mentre il maoismo è dello stalinismo alla cinese, un «marxismo-leninismo» contadino che, oltre al suo verbalismo dialettico, si distingue per la sua affermazione militare: «il potere sta in fondo alla canna del fucile»; «il compito di sviluppare, rafforzare e bolscevizzare il nostro Partito, è stato affrontato in mezzo a guerre rivoluzionarie; senza la lotta armata non avremmo un Partito comunista come l’attuale». Ci chiediamo come il proletariato delle città e dei campi abbia potuto accedere al potere per mezzo di un esercito contadino. Inoltre, il maoismo «arricchisce» il marxismo: «Dal punto di vista della teoria marxista dello Stato, l’esercito è la parte costitutiva principale del potere di Stato. Colui che vuole impadronirsi del potere dello Stato e conservarlo deve possedere un esercito forte... In questo senso si può affermare che non è possibile trasformare il mondo se non col fucile».
Questo è logico nella trasformazione del mondo contadino cinese in mondo industriale del capitalismo di Stato, nella mutazione della servitù in salariato. Ma per la trasformazione del mondo attuale in una società umana senza sfruttamento né oppressione, è la coscienza dell’uomo che sarà il fattore determinante, anche se la violenza è inevitabile nel processo di sconvolgimento rivoluzionario. Beninteso, la coscienza della vera liberazione dell’uomo si afferma solo nell’azione creatrice, mai nell’azione militare nel senso attuale del termine.
I giovani dei paesi industriali che si raggruppano dietro l’etichetta maoista credono di trovare il potere in fondo alla canna di un fucile nella guerriglia urbana, supponiamo che essi arrivino ai loro fini, cosa istituiranno come potere in fondo ai loro fucili? Forse una dittatura alla Mao? E nel loro Stato marxista-leninista ogni cittadino avrà in mano un nuovo libretto rosso.
Nei paesi che costituiscono ciò che viene chiamato terzo mondo, i partiti (embrioni di Stato) che ricevono l’impulso dal maoismo e sono militarmente aiutati dalla Cina tendono a stabilire dei regimi sotto i quali gli operai e i contadini conosceranno la stessa sorte dei loro fratelli cinesi: sottomissione agli ordini dei dirigenti, esecuzione dei piani stabiliti dalla burocrazia statale e immagine del socialismo futuro annunciata dal profeta.
Aspetto leninista del maoismo: ruolo assoluto del partito comunista nella trasformazione sociale
In una prima serie delle 33 rubriche del libretto rosso, Mao afferma la necessità di un partito armato della teoria marxista-leninista, destinata a realizzare l’industrializzazione, modernizzare l’agricoltura e condurre il paese verso il comunismo: «Se nutriamo dei dubbi a questo proposito, saremo incapaci di realizzare qualunque cosa». Allo stadio attuale, che è il periodo dell’edificazione socialista, tutte le classi e gli strati sociali, tutti i gruppi sociali che approvano e sostengono questa edificazione e vi partecipano formano il popolo. Fra queste classi, strati e gruppi possono sorgere delle contraddizioni, ma contraddizioni non antagoniste, che saranno facilmente risolte se si considera come buono e giusto ciò che favorisce il rafforzamento della «direzione del Partito comunista». Questa concezione totalitaria implica la necessità di una repressione ideologica e fisica nei confronti di ogni pensiero e azione autonoma degli operai e dei contadini.
Maoismo, arte militare ed edificazione economica
In una seconda serie, più estensiva, dedicata alle questioni militari, viene riassunta l’esperienza della lunga guerra contadina condotta da Mao. È questo insegnamento ad interessare di più gli Stati maggiori di tutte le resistenze del terzo mondo. Mao insiste sui metodi applicati dall’Esercito di liberazione, sulla sua strategia e la sua tattica che «nessun esercito che si opponga al popolo può utilizzare». Vengono esposti principi militari precisi così come principi politici che devono essere applicati dall’esercito popolare.
Questo genere di «guerra rivoluzionaria» dove l’uomo non è sostenuto a sufficienza dall’armamentario richiede che siano mitizzati gli «eroi della lotta», così come lo stadio ancora rudimentale dell’industria ed il carattere ancora primitivo dell’agricoltura richiedono che i «lavoratori modello» siano portati all’apice: «Voi siete dei modelli per l’intera nazione cinese, siete l’avanguardia che fa progredire vittoriosamente la causa del popolo... un supporto sicuro del governo popolare e un ponte che lo congiunge con le larghe masse». Per rafforzare la convinzione delle immense possibilità che si aprono davanti ai paesi poveri, Mao evoca una favola antica intitolata “Come Yu-kung spostò le montagne”. Siccome un vecchio derideva Yu-kung per questa impresa insensata, il nonagenario rispose: «Io morrò, ma resteranno i miei figli; morranno i miei figli, ma resteranno i nipoti, e così le generazioni si seguiranno le une alle altre incessantemente. Le montagne sono alte, ma non possono diventare ancora più alte, quanto più lavoreremo, tanto più esse diminuiranno; perché non potremmo spianarle?».
Oltre all’accento costantemente ribadito sulla necessità del lavoro da gigante reclamato dagli strati produttivi, numerose banalità infarciscono le pagine del libretto rosso dedicate all’economia: niente sprechi, niente prodigalità, niente festini e bevute, lotta contro la corruzione, la tendenza al profitto personale, rafforzamento dell’amore per il lavoro nell’esercito e miglioramento dei rapporti fra esercito e popolo, dato che l’esercito non reca più danno ai beni del popolo, sforzi per superare progressivamente le difficoltà, niente pessimismo, orgoglio e presunzione, ecc.
Per concludere questa litania, riportiamo i consigli ai dirigenti che «Non debbono, come ha fatto Kruscèv, sabotare il centralismo democratico del Partito, arrogarsi un potere autocratico, aggredire i compagni alla sprovvista, rifiutare di capire e agire da dittatori». Il lettore che ignora come Mao sia stalinista ortodosso è sorpreso da un attacco del genere, lanciato contro colui che ha osato rovesciare dal podio ufficiale Stalin, che era stato il nuovo zar di tutte le Russie. L’autorità di Stalin viene del resto evocata in diverse riprese nelle sue ispirazioni più banali.
Ai giovani su cui si è basato nel 1968 per sbarazzarsi del suo vecchio compagno Lieu Chao-chi ed orientare l’industria verso la produzione bellica, egli domanda di «coordinare le proprie attività con il compito centrale del Partito».
Alle donne propone di uscire dai vecchi vincoli — politici, religiosi e familiari: «inserire in massa le donne nelle attività produttive... Occorre che tutta la manodopera femminile prenda il suo posto sul fronte del lavoro».
Mao ed i suoi seguaci militari non trascurano nemmeno di pensare all’utilizzazione dell’arte e della cultura per l’edificazione e lo sviluppo del capitalismo di Stato battezzato socialismo. E se Mao è contro «la tendenza a produrre opere in “stile da slogan o da manifesto”, in cui le opinioni politiche sono giuste, ma che mancano di forza espressiva artistica», che così «restano inefficaci», egli esige tuttavia «unità tra politica e arte». Insomma un’arte di propaganda che maschera il soffocamento dello spirito in un regime di conformismo militar-poliziesco.