Eric Stark

 vita tra i mostri

          Il ricorso a figure allegoriche come zombies e serial killers per interpretare i conflitti sociali è frequente dove, come negli Usa, il capitalismo più visibilmente trasforma, deformandoli, gli esseri umani in mostri. Nel libro Fingiamo di essere morti ( Isbn Edizioni, 2008) Annalee Newitz utilizza gli eredi dei freaks  come guide nell’esplorazione della vita economica statunitense: la cultura popolare, soprattutto il cinema, ci intrattiene (e ci informa) sul fatto che “il capitalismo crea mostri che vogliono ucciderci”. Usando categorie marxiane, mediate magari da Gramsci e Adorno antologizzati for beginners e aggiornati dalla solita manciata di post-nicciani francesi, l’autrice addebita al lavoro capitalistico la morte della libertà individuale, della gratificazione, della totalità insomma: i mostri risultando dalla trasformazione del tempo di vita in tempo di lavoro ci suggeriscono di fingere di essere morti per potere vivere. Il lato oscuro da cui fiorisce molto immaginario contemporaneo (esasperatamente e primariamente diffuso negli USA) è la finta morte, l’oblazione della “vera vita” alla riuscita economica; i mostri affiorano sullo schermo come risultato di una nostra economica miseria collettiva. Oltre sangue, spavento e truculenza, il tema vero dei film horror è la violenza fra individui con differenti esperienze di classe, di censo e di status professionale.

           Tra fine ottocento e primi del novecento si diffondono storie e figure di mostri: su cinque tipi  si sofferma l’autrice, i serial killers, gli scienziati pazzi, i morti viventi, i robot (androidi, replicanti) e, più agghiaccianti perché quotidiani visitatori delle nostre case, addetti dell’industria culturale (giornalisti, intrattenitori tv ecc.). Le storie di serial killers, inscenando le relazioni economiche imposte dal  capitalismo postbellico, ora “interpretano la rabbiosa confusione che gli americani vivono nei confronti dell’economia e della produttività sociale della seconda metà del XX secolo”(pag. 47), ora evidenziano, oltre una generale incapacità di distinguere fra merci e persone, i legami fra violenza maschile ripetitiva e cultura delle macchine. Consumatore perfetto, il serial killer consuma e schiaccia altri ego che lo circondano, come ogni vorace e competitiva piccola azienda.

            Sfoltendo il saggio delle ridondanze e civetterie quasi automatiche in certa prosa d’oltreoceano dove tutto è “costruzione” e “negoziazione”, par di capire che l’unico spettro rimasto ad aggirarsi per il mondo è il capitalismo che ha fagocitato il proletariato. Infestati da virus mediatici, sostiene Newitz, si fatica a scorgere il mondo “reale”, preferendo al suo deserto, la fruizione dell’effervescente e mostruosa creazione mediatica. Consumando prodotti mediatici incrementiamo la diffusione dell’economia dell’informazione illudendoci di sfuggire al nostro ruolo passivo di vittime. E’ un circolo in cui il mostruoso smette di essere eccezione per raccontare l’orrenda degradazione della lotta economica imposta dal capitalismo: pretendiamo (fingiamo) di esser morti (mostri) per riuscire a sopravvivere.

            Altro esempio: i non-morti (vampiri o zombies) proliferanti al confine fra vita e morte rappresentano le “incertezze dell’identità sociale” al termine di un’epoca schiavistica, coloniale e turbata dal problema razziale. Alcuni scrittori, come H. P. Lovecraft, nella propria opera esprimeranno la confusione morale di chi, pur desiderando e combattendo (vedi guerra civile americana) per la fine dell’oppressione, ne temeva gli esiti per la propria cultura bianca. La whiteness, appunto, custodisce internamente degrado ed orrore e i bianchi si arrischiano a passare per non-morti (zombies) pur di continuare a controllare i neri (D. W. Griffith, Nascita di una Nazione: il KKK come banda di ariani trasformatisi in spettri vendicativi). In numerosi film (da Ho camminato con uno zombi di Jack (sic) Tourneur a George Romero) la non-morte viene associata, in modo implicito, ai rapporti socio-economici dell’età coloniale, in cui un gruppo razziale attuerebbe la sottomissione di altri.

             In anni più vicini, la letteratura (e il cinema che l’ha saccheggiata) su robot, androidi e cyborg esprime lo smarrimento all’idea che, senza consenso, vengano concepite “nuove forme di vita”; il sospetto cade sulla possibilità di controllo del destino: da qui il diffuso tema del robot che cerca di trascendere la propria programmazione. Al di là dei motivi scopertamente maschilisti (su cui preferiscono soffermarsi buona parte dei gender studies) il robot innamorato dei film hollywoodiani inscena le difficoltà nel collocare le azioni consensuali (amore, sacrificio, dedizione) in una cultura incentrata sul lavoro: quando l’amore pare aver buon esito si mostra amaramente come compensazione dell’ingiustizia sociale, palliativo inteso solo ad alleviare le necessarie privazioni di un’economia strutturata intorno all’apparato militar-industriale.

              Amaro verdetto: non più “i mostri sono tra noi” ma “i mostri siamo noi”; il capitalismo ha deformato l’uomo che abbiamo conosciuto: il vivente rischia e si specchia nell’inanimato. Scelta strategica (mimetica) se si voglia sopravvivere nella presente economia.

“Licéntia” n. 7, Giugno 2008