Omar Wisyam

il comunismo è la guerra

Nel maggio 1980, la casa editrice Feltrinelli pubblicava “Il comunismo e la guerra” di Antonio Negri, nella collana Materiali Marxisti curata dal Collettivo di Scienze Politiche di Padova. L'autore allora si trovava in carcere e in carcere il testo era stato composto. Il primo dal momento dell'incarcerazione il 7 aprile 1979 e il primo redatto interamente in prigionia, a parte il quaderno di lavoro sui “Grundrisse” di Marx, uscito con il titolo Marx oltre Marx nel 1979, ma prima del più noto “L'anomalia selvaggia: saggio su potere e potenza in Baruch Spinoza” del 1981. Incardinato tra due saggi, almeno in parte, di studio. Negli anni precedenti, cioè a partire dalla dissoluzione di “Potere Operaio” del 1973 al 1977, Toni Negri aveva scritto alcuni opuscoli (Crisi dello Stato-piano, 1974; Proletari e Stato, 1976; Il dominio e il sabotaggio, 1977; La forma Stato, 1977), dai quali alcune frasi furono estrapolate dai media per alimentare l'immagine sinistra e nefasta del professore di Padova ad uso e consumo dello spettacolo del terrorismo.

Perché riproporre questo testo dopo trent'anni? Il motivo di interesse (personale), prescindendo da quanto Negri ha scritto (molto, moltissimo!) in seguito, è dato dalla congiuntura storica e dalle condizioni personali nelle quali fu composto. Quali riflessioni, quali autocritiche, quali prospettive vi erano state elaborate per rilanciare o modificare un discorso insurrezionale dopo quanto era appena successo? Dopo l'incarcerazione dell'ex gruppo dirigente di Potere Operaio e di tanti militanti dell'autonomia, dopo la sconfitta bruciante del movimento rifluito nel quotidianismo, nell'eroina e marginalmente, ma significativamente, approdato in quelle formazioni clandestine che si erano duramente contrapposte allo spontaneismo autonomo, insomma dopo la sconfitta (anche teorica e personale)?

Il libro è dedicato “ai compagni del 7 aprile e ai 61 della Fiat”.

Il primo capitolo, dal titolo “Elementi di autocritica e problemi nuovi” sembra avviare la riflessione proprio a partire dalla condizione personale dell'autore, ma la dedica suggerisce qualcosa d'altro. Essa recita:

“molto tempo fa sua madre

intonava questo canto

e così macinava cantando

anche il popolo del mais ha un canto

è molto bello

mi rifiuto di farlo conoscere”

C'è qualcosa di cui è opportuno rifiutare la divulgazione.

“Occorre fare il punto” esordisce l'autore: “ora, il concreto è il carcere, è la separazione, è la divisione del movimento”; si parla del movimento e dell'autore (una simbiosi?)? Non si capisce bene perché, ma alla fine del capitolo l'ambivalenza ritorna con parole che stabiliscono un rapporto biunivoco (“qui, nella mia separazione specifica e doppia, così come nella separazione che contraddistingue la base antagonistica del movimento comunista...”) tra la situazione soggettiva e quella collettiva.

Al termine del capitolo “Figure dell'utopia capitale”, Negri scrive che “ogni posizione, ogni percorso soggettivo che sia presentato sul piano di una fenomenologia lineare, è falso”. Quindi: “se la situazione, da cui possono dipartirsi percorsi soggettivi, è in quella zona dove la forza di autovalorizzazione proletaria incrocia l'orizzonte del potere capitalistico, ogni percorso soggettivo è quindi segnato dalla logica della guerra che domina quel passaggio [o paesaggio?]”. Perciò, “qualsiasi percorso irenico è tanto patetico quanto fasullo”.

Non solo nessuna concessione sentimentale sulla situazione personale (l'attenzione ai “percorsi della soggettività” è mistificante, perché si manifesta in un'operazione che elide l'antagonismo reale, di classe), ma Negri dice molto di più: “L'isolamento dell'individuale è quanto più astratto possa darsi, è quanto di più irrelato possa definirsi di fronte alla collettività organizzata in autovalorizzazione. Autovalorizzazione si dice solo come collettività. L'astrazione individuale termina nella catastrofe individuale quando nega che la sua propria emergenza si dà sul limite della crisi – crisi come determinazione di un effetto di potenza proletaria su una struttura di potere capitalistico.”

Dialettico ma singolare l'assunto che l'incarcerazione sia un effetto della “potenza proletaria”!

Nel 1980, dunque, per Negri, “il momento fondamentale di crisi del movimento comunista sembra consistere nel progressivo estraniarsi del movimento di massa proletario sui bisogni e del movimento per il contropotere”. Rifiutando di determinare specifiche responsabilità, “il risultato fu che il movimento di destabilizzazione del potere nemico corse con accelerazione suicida verso un obiettivo di guerra guerreggiata d'avanguardia, il movimento di destrutturazione si chiuse sempre più in se stesso, lambendo l'isolamento del ghetto e concedendo parte della sua ricchezza alle ultime determinazioni del mercato capitalistico”. In questa situazione “il partito combattente e il ghetto si presentarono come facce specchiali, come risultato univoco ed ambivalente”.

Questa è tutta intera l'autocritica (dove esattamente è autocritica?) ed anche, insieme, la critica al partito combattente?

La necessità immediata si configura come necessità della riarticolazione del “nuovo movimento comunista in se stesso, dal di dentro, nell'immanenza assoluta della sua esistenza”. E questo “nell'indistinguibilità delle sue espressioni [...] nella pienezza della sua azione [...] nella potenza che sa esprimere”. Nella sua totalità.

L'errore (poiché qualche errore deve esserci in una sconfitta!), o meglio, il limite del discorso nel movimento è stato che “nessuno, o pochissimi (cioè soltanto Negri, in pratica) hanno saputo, nel movimento, comprendere la portata ontologica, totalizzante della definizione dell'operaio sociale come asse portante della nuova composizione di classe”.

L'autocritica si è trasformata nel panegirico di se stesso.

La separazione, di cui l'autore parlava all'inizio del capitolo, che poteva sembrare un limite, va (invece) intesa correttamente come potenza del movimento: “questa separazione è potenza, questa sottrazione è ricchezza. Vivere e lavorare nella costituzione comunista delle masse, assumere il comunismo come processo presente è l'unico reale che possiamo afferrare”.

Poco sotto, replica: “la separazione rivendica dunque la sua ricca esistenza […] rivendica la materialità delle determinazioni entro le quali si presenta”.

E i problemi a cui accenna il titolo del capitolo? “Il primo è mio”, scrive, “è il fatto delle difficoltà che l'essere in carcere determina per il lavoro teorico”. Il secondo riguarda, inerisce alla discussione che, nella attuale situazione, “è non solo difficile ma forse impossibile”, perché la separazione del movimento viene raddoppiata da quella del carcerato.

Arrivati a questo punto, Negri rivolge il suo sguardo all'informazione, la vera informazione, che non si legge nei media del regime che è invece “l'informazione ad una dimensione”. Il linguaggio del potere capitalistico rovescia la realtà “per renderla omogenea ed adeguata all'urgenza del comando”. E nel carcere manca l'informazione del movimento, quindi l'autore ammette di non potere far altro che “procedere al montaggio delle informazioni” che riunisce insieme, di non potere far altro che “accumulare ipotesi di avvicinamento alla comprensione del reale”. Confessa: “questa mia difficoltà è grossissima”.

Ma quali sono le parole che comunicano nell'universo della disinformazione e dell'alienazione di massa? Facile! “Le uniche parole che comunicano sono quelle che insieme distruggono il presente, riconoscendolo, denotandolo criticamente, e costruiscono la speranza, la pratica di trasformazione”.

Conclusione del primo capitolo: “qui, nella mia separazione specifica e doppia, così come nella separazione che contraddistingue la base antagonistica del movimento comunista, l'unica indicazione è […] impariamo a comunicare, costruiamo questi nuovi codici di trasmissione”.

Un ordine: l'ordine di criptare i messaggi.

Il secondo capitolo porta come titolo “Crisi dello Stato-crisi” ed esordisce con un'esclamazione: “Che noia, trovandomi oggi di fronte alle ennesime stanche riesumazioni della teoria e della pratica capitalistiche degli anni Trenta!” Ma queste vengono rapidamente sgombrate (poiché “la forma della crisi si è modificata in maniera essenziale”) e l'autore dice (e ripete) che “la forma del rapporto interno alle relazioni fra le classi non è la mediazione, è la guerra” e lo scontro è “inevitabilmente indotto dallo Stato”. Sarà paradossale, sostiene l'autore, ma “lo Stato come elemento patogeno, come promotore della violenza eccezionale ed esemplare, è in realtà – in questo contesto – l'unico agente terroristico”. Per Negri, “l'esemplificazione terroristica” è necessaria per l'efficacia dell'azione dello Stato. “La reazione proletaria segue invece i canali della propria autonomia”.

Il ricorso statale alla violenza è definito “da una costituzione di classe operaia e proletaria talmente socialmente invadente da impedire ogni riproduzione capitalistica che non si dia in termini di guerra”.

Nel quinto paragrafo di questo capitolo, “Problemi da approfondire”, uno dei problemi prevede quella situazione dell'economia mondiale che verrà comunemente sui media chiamata in seguito Globalizzazione, che Negri intuisce essere un'anticipazione del capitalismo. Quelle difficoltà che il capitale incontra sul piano nazionale “verrebbero proiettate e dissolte sulla distanza e sulla complessità di uno schermo multinazionale”, risolvendo su questo terreno “il potenziale eversivo dei processi di autovalorizzazione”. Riflette l'autore, “vale solo la pena di sottolineare quanto l'iniziativa capitalistica si sia in proposito mossa su tempi di anticipazione”, ma ciò non gli impedisce di concludere che questa non sarà neppure la prima volta che “un'anticipazione capitalistica è travolta dall'iniziativa operaia”. Tuttavia non sembra che negli ultimi trent'anni il capitalismo sia stato travolto.

Il capitolo seguente, il terzo, ha come titolo “Figure dell'utopia capitale”, la cui prima proposta o figura, “largamente maggioritaria nel ceto politico del capitale” è quella “neoliberista”, i cui “paliers teorico pratici” sono: “controllo della spesa pubblica in termini finalizzati e funzionali alla costrizione generale al lavoro e quindi alla mobilitazione globale, diffusa, liberista della forza lavoro su mercati diversificati; affidamento principale al controllo monetario dello sviluppo […]; pianificazione fluida basata essenzialmente sulla diminuzione dei costi sociali e sulla predeterminazione di strumenti di controllo continuo (automatico, telematico) di tutte le compatibilità – infine, integrazione crescente del sistema economico nazionale nel sistema multinazionale ed adeguazione alla medietà di quel mercato e di quel comando”.

Questa linea politico-economica è “fortemente restaurativa” e comporta la “dissoluzione dei rapporti di forza consolidatisi nella lotta tra le due classi”, esige che l'impresa sia liberata dai lacci e laccioli sindacali, che sia riconosciuta la libertà monocratica dell'imprenditore e rivisto tutto il sistema dello Stato-piano. “Vecchio quadro, questo, ed anche reazionario!”, commenta Negri, ma ciò non toglie che si si imporrà come quello prevalente! L'autore, al riguardo, riconosce che questo è “il massimo di intelligenza capitalistica della crisi e dello sfruttamento”.

La domanda che si poneva Negri, (e si pongono tutti, oggi) è “fino a quando la circolazione e l'eguagliamento (interno alla classe) dei comportamenti, dei bisogni e delle lotte possono essere interrotti?”

Negri attribuisce scarso realismo (se non irrilevanza) al progetto neoliberistico, tanto che gli pare utopico (l'utopia capitale, appunto). Il progetto neoliberista si basa su un'utopia restaurativa e nostalgica dell'impresa, della sua libertà e del suo rischio. L'autore ripete che quella del capitale è solo un'utopia, ma ammette che sia “pericolosa”, infatti “sul breve terreno sul quale l'operaio sociale le permette di sperimentarsi, accumula un grado di violenza e un'ingordigia di profitto che da molto tempo non eravamo più abituati a vedere nel ceto capitalistico diretto e nel ceto politico del capitale”. Tutto vero, resta soltanto da valutare la scala di misura della brevità del fenomeno. “In conseguenza della propria precarietà essa tende a riqualificarsi come schema generale di riorganizzazione sociale dello sfruttamento”. La guerra diventa un fatto di sopravvivenza per questo capitalismo (scrive: “l'utopia diviene sporca”) ed infine “per garantire il loro profitto sono obbligati a inventare uno Stato ben più amministrativamente e politicamente crudele e pesante” (quanto meno più controllo, più carceri, più polizia, più esercito, ecc.).

In questo capitolo Negri apre “una parentesi sul ghetto”, cioè sulla situazione reale che il movimento vive a partire dalla repressione del '78 e '79. Ma Negri ne scrive come se fosse un'utopia: il “corrispettivo dell'utopia capitalistica del neoliberismo”, “la proiezione di questa ideologia sul lato della società operaia”.

C'è già stato il ghetto nella storia del movimento operaio, scrive l'autore, il ghetto “come logica della guerra, come indipendenza e separazione, verso l'esterno”, il ghetto come base rossa. Ma questo era il passato, commenta, perché il ghetto “diluisce e scompare come luogo principale di formazione della coscienza comunista della lotta di classe”. Il ghetto diviene la città intera “come territorio dell'autovalorizzazione”, e quindi il ghetto non c'è più.

Ma potrebbe rinascere, ed infatti rinasce, nonostante la contrarietà dell'autore, il quale giunge, nonostante le premesse, ad ipotizzare che si ricostituisca un ghetto residuale “come luogo di separazione fisica di strati di proletariato dal resto del territorio operaio e proletario”. Il ghetto diventerebbe allora sacca di degradazione, dove “allignano ideologie perniciose”. L'ideologia della sconfitta e della resistenza, “teorizzata attraverso l'esaltazione della sua marginalità, l'uso della droga pesante, la ricerca di una poesia individuale della vita, la religione e la magia”. Ma qui “vince il nemico”. “Così si chiude un'esperienza!”, scrive l'autore, riferendosi a vicende e fatti avvenuti in altri paesi europei (ma questo era il destino anche dell'Italia!).

Il quarto capitolo è “Il problema della guerra e la teoria del valore”. In questo si afferma che il movimento operaio è il movimento del valore d'uso, il cui “carattere eversivo è ontologico”.

A proposito di questo termine, Negri aveva già scritto che “il materialismo è sempre ontologia”, che la crisi ha “risvolti ontologici”, che la guerra è una “situazione ontologica”, che il proletariato ha una “ricchezza ontologica” delle sue qualificazioni ed inoltre una rete di comportamenti e una circolazione di valori “ontologicamente consolidatisi”. Comunque sia, “l'emergenza del valore d'uso come movimento di massa registra uno stato di guerra”. Ed il valore d'uso misura “il tempo di lavoro rifiutato rispetto a quello lavorato”. Esso si forma come “liberazione di tempo sottratto al capitale, quindi aperto alla felicità di non essere sfruttati”. La liberazione dal lavoro approssima “la soluzione del problema della felicità: per gli uomini così come sono”.

Secondo Negri, il movimento del valore d'uso “si mostra come orizzonte di assoluta razionalità”, e la logica della guerra è “l'unico orizzonte razionale percorribile”.

Dopo la guerra, a guerra vinta, “l'abisso del futuro che non si conosce è prefigurato nella ricchezza attuale della produttività del soggetto” rivoluzionario. Con la riarticolazione generale della giornata lavorativa, questa comprenderà “frazioni sempre più ampie dedicate allo studio, allo sviluppo della scienza, alla costruzione di invenzioni e di automatismi, al godimento di piaceri superiori”.

“Nel mondo contemporaneo c'è un'unica utopia che circola: è quella capitalistica che pretende il comando in una situazione di guerra che il capitalismo stesso, con la sua crisi insuperabile, determina”.

L'ultimo capitolo affronta il tema de “Il comunismo e l'organizzazione”.

Solo a partire dalla “distruzione della giornata lavorativa nei suoi comparti spaziali e nei suoi segmenti temporali” diventa possibile parlare di organizzazione comunista. L'operaio sociale dovrà costruire un nuovo ritmo della giornata lavorativa, “la cui misura è data dal non lavoro e dall'impegno di liberazione della propria forza-invenzione, della propria felicità” e “il lavoro scientifico come asse dell'attività della comunità”.

Per quanto concerne l'organizzazione, Negri sostiene che “la teoria dell'organizzazione non è cosa diversa dall'analisi dei comportamenti comunisti delle masse”, dunque la coscienza di classe non è altro che “la materialità della composizione di classe”.

L'organizzazione è la democrazia del comunismo”.

Esaurita una rapida rassegna dei temi affrontati nel volume da Antonio Negri, per rispondere al quesito iniziale, e cioè su quale livello di risposta si attesta questo scritto all'indomani della sconfitta proletaria del 1977-78, si deve constatare che, accanto a qualche intuizione sulla tendenza all'accelerazione del movimento del capitale (il neoliberismo e le conseguenze di ripiegamento della classe), l'analisi di Negri sottovaluta pesantemente il riflusso del movimento antagonista e la sua conseguente ghettizzazione viene analizzata in modo ambivalente e riduttivo, come se fosse un problema residuale, sebbene la dinamica che avrebbe dislocato ai margini il movimento fosse già sotto gli occhi di tutti.

La prosopopea trionfalistica del più celebre esponente dell'operaismo autonomo tende a circoscrivere l'attività o le minacce del nemico in un'ipotesi (quasi) per assurdo, come in questo caso: “Si dà l'ipotesi di un'azione disperata e distruttiva di guerra mortale ed aperta del capitale contro la classe?”

Viene trascurata, come se non si ponesse neppure il problema, la questione dell'alienazione del tempo libero e della sua capitalizzazione. Il tempo liberato, in quanto sottratto al tempo di lavoro, viene celebrato come un tutto positivo, come la materializzazione della felicità in terra. Senza dubbi sulla colonizzazione delle coscienze, senza una vaga della società dello spettacolo.

Il capitale è, in fin dei conti, una funzione di comando. Al comando capitalistico bisogna sostituire il comando proletario: “il rapporto tra operaio sociale e produzione sociale non contiene altra mistificazione che non sia il comando: un comando che organizza solo comando […] questa mistificazione, questa incredibilmente vuota legittimità del capitale al comando, non può non essere distrutta”. Il resto verrà da sé, per il teorico dell'autonomia.

Anche sulla questione dell'organizzazione non si dice molto, anche se Negri nega la tradizionale dislocazione utopica della coscienza di classe all'esterno. Ma continua a parlare delle priorità di “efficienza” e “centralizzazione”.

La guerra, di cui discorre tutto il libro, è definita in un passaggio, “la guerra del e nel quotidiano”, ma non per la trasformazione della vita quotidiana.

Infine, verrebbe da dire che il giudizio espresso da Negri, nella sua interezza, dovrebbe essere ribaltato per quanto riguarda le valutazioni sulla forza delle classi in guerra; laddove l'autore esalta la potenza del proletariato bisognerebbe leggervi la sua debolezza e viceversa per il capitale (almeno per la congiuntura storica che tutti noi abbiamo vissuto). L'insufficienza teorica (e storica) dell'operaismo risalta attraverso la sua stessa retorica (la vuotezza e l'utopia diagnosticate al capitale finiscono per rovesciarsi dialetticamente sull'ideologia del padovano, nonostante lo sforzo prodotto da Negri nel confinare la dialettica a residuo pericoloso ma superato).

La giaculatoria sulla potenza del proletariato finisce per apparire, rileggendo le pagine de “Il comunismo e la guerra”, come una sorta di coazione a ripetere. Nel 1983 sarà la candidatura nel Partito Radicale di Marco Pannella a consentire, dopo le elezioni, la scarcerazione di Toni Negri.