Wolf Bruno
negazionismo
Claudio Vercelli: NEGAZIONISMO. Storia di una menzogna. Laterza, 2013
Secondo Claudio Vercelli i “negazionisti” sembrano i membri di una
setta ma non lo sono. A mio modo di vedere, se si è ricavata quest’impressione
dalla loro attività ciò dipende dal tono esclusivo di ripulsa morale col quale
sono stati accolti i loro scritti, giudicati indegni di essere seguiti e men
che meno accreditabili come serio contributo alla storiografia, sia pure
revisionista, e perciò confinati, senza che se ne rintuzzassero tempestivamente
le argomentazioni, in uno spazio di emarginazione radicato nella malafede,
nella follia e nella malvagità. Anche un libro come quello del grande storico
del mondo classico Pierre Vidal-Naquet (Gli assassini della memoria.
Editori Riuniti, 1993), nonostante l’affilato spirito critico, non si discosta
da questa impostazione. Eppure Vidal-Naquet aveva colto in pieno (ma non era
difficile farlo dal momento che scriveva in un momento nel quale si era ormai
consolidato) lo schema comune a tutti questi scritti, uno schema al quale del
resto non sono state poi apportate sensibili variazioni e nemmeno si è
arricchito di nuovi materiali di persuasione, tanto che oggi sembra
sopravvivere stancamente sempre uguale a se stesso. E forse è proprio questo
che ci si aspettava: un esaurimento determinato dal tempo più che dalle
dispute, senza per altro valutare quanto nel suo scorrere il tempo avrebbe
potuto contagiare il senso comune. Alla contrastata irruzione del negazionismo
sulla scena mediatica va tuttavia riconosciuto l'aver indirettamente influito
sugli studi ufficiali spingendoli a un più preciso uso dei dati, per tanti anni
soggetti d'altronde alla corruzione determinata, nell'opinione pubblica meno
attrezzata, dai servizi della stampa scandalistica. Un primo vero e proprio
accoglimento critico di un confronto col negazionismo sul suo stesso terreno si
può dire che lo si abbia avuto coi lavori di uno ricercatore, Jean-Claude
Pressac, passato - pur denunciando certe esagerazioni - da questo campo a
quello ufficiale, inducendo naturalmente gli amici di un tempo a reazioni
particolarmente risentite ma non scomposte, cogliendo casomai una nuova
occasione per ribadire delle convinzioni ritenute al riparo di ogni attacco
perché fondate su dati certi sottoposti al vaglio dei metodi consueti degli
storici, al contrario degli avversari prigionieri dell'emotività (quando va
bene) o di interessate fandonie. Robert Faurisson, il più celebre degli storici
negazionisti, il quale più di ogni altro ha legato a sé la loro riconoscibilità
mediatica, è uso provocare chiedendo che gli si porti la testimonianza di un
solo deportato "che abbia realmente visto coi suoi occhi una camera a
gas". E questo è uno dei punti che vanno a comporre un'apparecchiatura
argomentativa che, per sommi capi - premesso che i negazionisti non negano in
genere che gli ebrei fossero oggetto di persecuzione - si può riassumere in
questo modo:
1) La mancanza di ordini scritti hitleriani indirizzati allo sterminio
degli ebrei.
2) La non attendibilità ("sentito dire") delle testimonianze
rese dai sopravvissuti o dagli stessi nazisti a guerra terminata
(contraddittorie ed estorte con la tortura).
3) La maggior parte delle morti avvenute nei lager è da attribuirsi
all'ultimo periodo della guerra, quando la Germania era travolta dall'incalzare
dei nemici.
4) Incongruenze tecniche nella descrizione delle camere a gas, del
numero e della frequenza delle uccisioni.
5) L'acido cianitrico (lo Zyglon B) serviva all'eliminazione dei
parassiti e le eventuali camere a gas erano dunque utilizzate per la
disinfestazione dei vestiti.
6) L'imposibilità dei forni crematori a sostenere il numero delle morti
che si dice avvenissero quotidianamente.
Questi punti principali sono corroborati da analisi storiche,
ingegneristiche e chimiche ribadite anche in alcune sedi processuali, dal
momento che il negazionismo a un certo punto, soprattutto in alcuni paesi, è
stato sottoposto, con leggi specifiche, a misure giudiziarie. Da qui viene
l'autorappresentazione dei negazionisti come "liberi pensatori" - in
fin dei conti giustificata anche se applicata a qualcuno può sembrare incongrua
- e da qui viene la "scandalosa" difesa che ne fece Noam Chomsky
sulla base della libertà di parola.
Il libro di Claudio Vercelli non entra in senso stretto nei dettagli di
una critica alle posizioni negazioniste (molto meno di quanto fecero Shermer e
Grobman in un libro pubblicato due anni fa dagli Editori Riuniti: Negare la
storia, 2011) ma - e questo è un indubbio merito - ne ricostruisce il
percorso attraverso i vari protagonisti, da Rassinier a Butz, da Harwood a
Faurisson, da Guillaume a Mattogno, per citarne alcuni. A parte altre riserve,
il limite del libro l'ho riscontrato in certe forzature psicologicizzanti dalle
quali sembra discendere una tipicizzazione dell'uomo negazionista. Non è del
tutto chiara per giunta la posizione di Vercelli a proposito delle legislazioni
anti-negazioniste e quindi quella sul diritto alla libertà di parola degli
incriminati. Oltre a ciò, Vercelli è troppo semplicistico (come, è bene
precisare, lo sono strumentalmente gli stessi negazionisti) nel disegnare
un'evoluzione che coinvolge, per esempio, gli storici americani - associabili
semmai al tradizionale "isolazionismo" - che contestavano
l'attribuzione alla sola Germania della colpa di aver scatenato le guerre
mondiali (il revisionismo è sacrosanto, ma non quando mette in discussione
certe cose). Vercelli butta inoltre un'ombra equivoca sul pacifismo integrale
francese alla vigilia della seconda guerra mondiale (forse perché Romain
Rolland non lo era più?) come se allora l'unica scelta legittima fosse lo
scatenamento della "guerra antifascista". Rassinier, il negazionista
primigenio, fu pacifista, eppure partecipò alla Resistenza e fu deportato dai
nazisti. Dev'essere una colpa grave se Louis Lecoin, un pacifista di quella
fatta, incarcerato come tale nella Francia di Vichy, libertario e fondatore
dell'unione dei pacifisti, gli fu sempre amico.
“Fogli di Via”, marzo-luglio 2013