Eric Stark
non sbattete quella
porta: le Nuove Proposte
Sonore
Quando il discorso cade
sui balbettamenti della musica elettronica
in Italia subito si nomina lo Studio di Fonologia Rai di Milano,
ricordando successivamente isolate personalità come Grossi a Firenze, Zaffiri a
Torino o Gelmetti a Roma: esiste però una scuola o, meglio, una linea veneta
(patavino-veneziana) i cui esiti più noti (ma pure meno radicali: Maderna o
Nono) per qualche tempo hanno oscurato la vivacità di spunti e suggestioni
occultati in materiali fin qui scarsamente divulgati.
La recente stampa del cd
con musiche del gruppo Nuove Proposte Sonore (die Schachtel, 2011)
giunge a proposito per ricordare, dopo l'album monografico già dedicatole
qualche tempo fa, il decennale della scomparsa di Teresa Rampazzi (che con
Ennio Chiggio, attivo nel gruppo enne, del sodalizio fu principale
artefice a partire dal 1964).
Convinta sostenitrice
degli esiti radicali della seconda scuola viennese, Rampazzi coglieva
l'ingresso del nastro magnetico nella musica del novecento come opportunità di
rilanciare la sfida di Webern per l'assoluto controllo del compositore fin
nello sperimentare l'irrealizzabile, oltre gli strumenti tradizionali ed i
limiti e le remore di impacciati esecutori. Alla matita e alla carta
pentagrammata subentravano le forbici per il taglio/montaggio del nastro ed
eventualmente l'alcool per la pulizia e smagnetizzazione delle testine dei
registratori. Con più o meno coraggio e apertura ci si accingeva a “saltare il
fosso” (S. Gazzelloni) salutando insomma la musica “uscita, come tutto il
resto, dalle cornici”, per inaugurare la ricerca nel campo del suono partendo
da un inattingibile zero. Scartando scelte più morbide (e che forse non
sceglievano, contemplando la coesistenza di una strumentazione tradizionale ed
elettronica) Rampazzi caldeggiò ben presto le soluzioni estreme: bisognava
smetterla di “trattare slealmente” gli strumenti tradizionali, facendo il salto
nel suono elettronico. Senza perdere tempo a cercare patteggiamenti di corto
respiro.
Si sa che molti studi di
elettronica in Europa (diversamente che in America dove furono associati alla
ricerca universitaria) nacquero come costola della radiofonia e dunque Italia e
Germania, per tradizioni storiche, almeno al principio vi si distinsero,
affiancate da Olanda, Polonia ecc. Senza
quelle possibilità finanziarie ed organizzative, un compositore orgogliosamente
autarchico e solitario, tagliato fuori da dotazioni e ruoli decisi altrove,
pareva condannato al ruolo di eccentrico, outsider o dilettante cui erano
riservati i sentieri più marginali ed
ingrati della “nuova musica”.
Decisa a svoltare ed
uscire, per via elettronica, dalla musica tonale, Rampazzi verificò a sue spese
la veridicità proverbiale sulla penuria come stimolo all'ingegno ed oggi,
alcuni decenni dopo la creazione, gli “oggetti sonori” segnati dalla scarsità
di mezzi e domesticità di risorse (quei riverberi, ottenuti piazzando la cassa
acustica nella tromba delle scale con la preghiera che i coinquilini si
astenessero dal farsi sentire sbattendo porte, stanno lì a testimoniarlo) ci si
rivolgono con un sovrappiù di fascino analogico.
Frequentare i corsi estivi
a Darmstadt e incontrare Cage nella seconda metà degli anni cinquanta aveva
consolidato i propositi di T. Rossi Rampazzi nella lenta costruzione di un
proprio studio privato (ospitato in una stanza dell'abitazione di Padova) e
nell'attività di diffusione della conoscenza di musica contemporanea a mezzo di
dischi e concerti anche se, scriverà poi, “far ascoltare musica elettronica era
come invitare gli amici a stendersi sui chiodi. Perdevi l'amicizia”.
Sul finire degli anni
cinquanta, i disordini scatenati dalle visite di Cage bilanciavano comunque i
furori matematici pur nel comune sentire “cartesiano”, ovvero la decisione di
rimettere ogni cosa in discussione riducendo e separando. L'aria di famiglia
era data dall'urgenza di rompere “abitudini percettive, associative, canali
precostituiti” trionfanti in sale da concerto dove l'ascolto tende a diventare
così “automatizzato e prevedibile” da far supporre che non si ascolterà più
nulla; occorreva “ritornare dal musicale al sonoro”.
E se da una parte, al
principio, prevalse pure in Rampazzi
l'idea di trattare slealmente il pianoforte, violentandone l'autorevolezza,
come per demistificarne la capacità di comunicare esperienze e messaggi
irripetibili ed esemplari, poi, tutto questo, fu visto come fine e preparazione
di un nuovo inizio, foss'anche, riduttivamente, un solo generatore di
frequenze.
Se Milano rumoreggiava
alla Rotonda, al circolo Il Pozzetto di Padova si rispondeva con Metzger e
Bussotti. Lo stesso pianoforte di casa Rampazzi non si riprese dopo i primi
maltrattamenti cageani, cedendo progressivamente spazio e tempo ad oscillatori,
generatori, modulatori, filtri, frequenzimetri ed ovviamente registratori. Non
passò molto e la musicista decise di disertare il “codazzo di gente che vive di
rendita [sic] continuando a distruggere quando non c'è più niente da
distruggere”, per abbracciare in toto la causa del nuovo suono elettronico.
L'incontro con Chiggio e
la fondazione del gruppo N. P. S. (1964-1972) in sintonia con
l'ideologia del tempo dovevano contrastare ogni aspirazione al mito eroico e
regressivo dell'individualismo creatore, proponendo la via dell'arte come
prodotto collettivo, calcolato e non emotivo. L'oggetto sonoro, il cui
concetto era mutuato da quello visivo (anche se il gruppo N.P.S. non fu
soltanto l'applicazione al dominio sonoro dell'esperienza maturata in quello
visivo-cinetico dal gruppo enne) andava depurato da ogni suono non
controllabile e verificabile, fino all'esautorazione dell'interprete; da qui la
ricerca di metodi di annotazione sempre più accurati ed oggettivi che
portarono all'invenzione dell'Audiogramma.
Sostituendo l'aggettivo
“musicale” con quello di “sonoro” si segnalava l'intenzione di espellere ogni
affetto od emozione dagli eventi prodotti a partire dall'analisi di tutti i
parametri sonori in un'atmosfera da laboratorio di fisica o ingegneria. Tali
propositi di ricerca, spinti fino alla negazione di ogni spunto di piacere od
occasione di gradevolezza, uniti alla sottomissione di ogni individualità al
“collettivo” andavano a rispecchiare il contesto storico ed ambientale in cui
il gruppo operava.
Tuttavia la forte
personalità di Rampazzi, il suo residuo umanistico (diremmo semplificando) mal
sopportavano la disciplinata metodica voluta da Chiggio (e sposata, per la
parte visiva, dal gruppo enne) spingendo per un progressivo allentamento
dei controlli.
Di fronte alla puntigliosa
e costante ricerca matematica svolta da Chiggio (alla cui opera complessiva è
stata dedicata la contemporanea mostra padovana Ricerche 1957-2011) al
fine di comprendere ed organizzare gli eventi sonori, stavano le “audaci
sovversioni”, i gesti diversamente esasperati, sciolti e non calcolati di una
Rampazzi decisa a non lasciare azzerare la propria parte d'insofferenza,
apparentemente insoddisfatta di soli agglomerati e fasci di frequenze.
Ripensando a quegli anni
(dal 1965 al 1973) denunciò l'autoinganno che la portò a credere di potere
“rinunciare alla musica per la ricerca
sonora” ma con la segreta riserva di “riconquistare il terreno della musica
senza farsi catturare del tutto dalla tecnologia”. Indietro, al di là degli
“anarcoidi” futuristi, lei guardava a Busoni. L'elettronica poteva slegare il
suono da catene e gerarchie codificate, liberando la musica dai dogmi affinché
fosse “natura rispecchiata nell'anima umana e da lei riflessa... aria che vibra
e va più in là dell'aria”.
Di questo inafferrabile
elemento d'instabilità della musicista faceva le spese lo stesso ambiente di
provenienza (il coniuge era direttore di una banca cattolica cittadina) tanto
che gli smottamenti e crepitii trovarono obbligate consonanze nelle
diversamente rumorose opposizioni degli anni sessanta: una volta accettato il
rito del volantinaggio davanti alle fabbriche, nel pulviscolo dei gruppi
maoisti ci fu posto anche per lei.
A quegli anni turbolenti
risalgono pure i brillanti interventi apparsi sulla rivista “film special”
(1968-1972) e gli inviti all'estero per incontri o conferenze, mentre il
precario equilibrio del gruppo (al cui nuovo corso
prese parte anche Alvise
Vidolin) trovò scioglimento quando le lezioni private di Rampazzi ottennero
un'ufficializzazione nell'istituzione del corso di musica elettronica (uno dei
primi) presso il conservatorio Pollini di Padova, dove furono pure traslocate
le apparecchiature accumulate nell'abitazione. La risoluzione dell'inquietudine
fu invece rimandata se i pezzi, oltre
l'asciutta titolazione dei primi tempi, continuarono a portare titoli
come Fluxus (1979) o Metamorfosi (1981), deprecando la miseria
nostra e dei nostri paesaggi sonori, salvo evocare “il vento delle foreste” o
“quello terrificante di folle che insorgono”, come dire: “valori” che sfuggono
ad una “totale razionalizzazione”.
“Ma noi ora possiamo
soltanto balbettare”, cercando parole, e chissà quando arriveranno i discorsi. “Fogli di Via”, Marzo 2012