Eric Stark
Ozawa / Murakami
Haruki Murakami:
Absolutely on Music.
Alfred A. Knopf, New York 2016
L'autore di Kafka
sulla spiaggia non solo ama la musica classica e il jazz, ma la conosce
intimamente, almeno per quanto la sua ripetuta e dichiarata profanità gli
permette. Anche da una superficiale frequentazione dell' opera letteraria di Haruki Murakami risulta la
ricorrente presenza di temi, variazioni e richiami musicali; le sue biografie
non omettono di ricordare la gestione di un jazz club e, prima ancora, il
lavoro come commesso in un negozio di dischi (di cui si ricorderà in Norwegian wood) sicchè la traduzione inglese delle sue conversazioni con il
direttore Seiji Ozawa era
attesa da quanti non sono in grado di leggerlo in giapponese. Absolutely on Music
(Alfred A. Knopf, New York 2016) raccoglie
trascrizioni di lunghe conversazioni cominciate a Kyoto e continuate in giro
per il mondo nei momenti di inattività e nelle pause di convalescenza seguite
alle cure per il cancro all'esofago cui, a partire dal 2009, il maestro Ozawa dovette sottoporsi. Di quest'ultimo, Murakami non smette di sottolineare la disponibilità e
cortesia proprio mentre ricorda di essere per parte sua sprovvisto di una
formale educazione musicale e a digiuno di conoscenza tecnica, compensate da un
grande amore per la buona musica. Il suo non vuole essere un libro di celebrità
in conversazione, ma un tentativo di mettere in comunicazione due interiorità, Ozawa il professionista e Murakami
l'amateur, perciò scrive di non voler esser letto da malati collezionisti di
dischi, che perlopiù sono riccastri sempre occupati e con poco tempo per
ascoltare quel che c'è dentro ciò che hanno comprato. Ozawa
accenna al disagio e “disgusto” verso dischi e cd avvertito in una recente
visita in un negozio (“non ho più nulla a che fare con tutto ciò”). Chi gli sta
di fronte ammette però qualche tic ossessivo da collezionista e, da dilettante
con tanto tempo a disposizione, di avere raccolto registrazioni nei più
svariati formati proprio nel momento in cui si unisce al direttore
nell'auspicio: “cerchiamo di essere poco interessanti per i collezionisti!”.
Questo tono, per il tramite di una diretta e leale conversazione, sarà uno dei
passaggi attraverso il muro che parrebbe dividere il professionista
dall'amateur. Ora, se Schönberg diceva che “la musica
non è suono ma idea” è però vero, nota Murakami, che
la gente comune non la percepisce in questo modo, per quanto puro ed
interiorizzato ne sia l'ascolto. Verso quel punto d'incontro convergono i due,
con il direttore cortesemente attento ad evitare tecnicismi e lo scrittore che
frena la passione del fan aiutando l'interlocutore nel ripasso della lunga
carriera cominciata da povero ma determinato emigrante negli USA. Per carattere
Ozawa mai si prende troppo sul serio e, mentre
sostiene come quel che conti non sia “come agiti” la bacchetta alla prima ma
come l'hai mossa durante le prove, ricorda subito che a Philadelphia venne
sputtanato dalla segretaria di Ormandy per aver
“sottratto” tre bacchette dal cassetto del suo principale. Una delle presenze
ricorrenti è Bernstein (e con lui la New York degli anni sessanta) cui fece da
assistente giusto negli anni in cui questi diede un forte impulso alla Mahler-Renaissance dirigendone le sinfonie con la N.Y. Philarmonic e la London S. O. Proprio al compositore del
“Canto della Terra” il direttore giapponese attribuisce il merito di avergli
fatto scoprire il suono orchestrale, di modo che quando poco dopo raggiunse
Karajan in Europa, non dovette sposarne le “cautele” e l'igienico rifiuto della
volgarità e dell'ibrido secondo una lettura funzionale alla valorizzazione
della seconda scuola viennese che ne privilegiava solo le prime sinfonie. Da
Karajan, Ozawa imparò a leggere, dietro lo spartito,
le lunghe unità o frasi oltre le brevi battute. Lo stesso Karajan lo spinse a
studiare l'opera “essenza della cultura europea moderna” guidandolo nella prima
sua direzione a Salisburgo nel 1969 di Così fan tutte (regia di Ponnelle) diffidandolo pure dall'immolarsi poi alla Scala
in una Tosca con Pavarotti che puntualmente, almeno nelle prime repliche, venne
fischiata.
Limitando rispettosamente
le escursioni extra-classica, scrivendo un testo di “servizio”, Murakami sembra essersi costretto in una camicia di forza
tagliata sull'esperienza di Ozawa di cui gli saranno
grati gli ammiratori del direttore giapponese e che scontenterà i propri. I
primi apprenderanno delle sontuose mangiate offerte da Rubinstein e del suo
inglese impacciato da fresco immigrato che gli impedì una migliore conoscenza
di Glenn Gould o Bruno Walter, i secondi resteranno a bocca asciutta circa gli
ascolti extracolti dello scrittore. Tra i due è Murakami
a offrire spunti o a tentare di vivacizzare un discorso impantanato nelle
minuzie biografiche: allora confessa di scrivere come se facesse musica (jazz
in primis), nota come sia il ritmo ad accomunare scrittura e musica; ed è il
ritmo, appreso dagli ascolti e trasferito nella pagina, che spingerà in avanti
il lettore se l'opera è riuscita. E ancora, sostiene che l'individuo creativo
deve essere fondamentalmente egoista, tagliato dalla cooperazione e concentrato
su quell'elemento dämonisch che non va
scambiato con un immediato lasciar briglia sciolta all'ego. Punto fermo che,
dopo tanto conversare, ci lascia con una curiosità insoddisfatta rimandandoci a
quanto cento anni fa ne scrisse, magistralmente, un Thomas Mann.
“Fogli di Via”, marzo-luglio
2017