Pubblichiamo la recensione di Franco Arato ( apparsa su "Belfagor":  LVIII, 31 genn. 2003, pp. 73-80, edizioni Olschki) allo Spicilège di Montesquieu curato da Salvatore Rotta e Rolando Minuti

Franco Arato

nel granaio di Montesquieu

 

Che vantaggio può avere uno scettico su un credente? «Un avantage terrible», perché «la partie n’est pas egale»: «il peut corrompre ma femme et ma fille sans remors, pendant que j’en serai detourné par la crainte de l’enfer!»; dunque sarebbe stato ben cieco Pierre Bayle a credere che  la «pensée de l’eternité n’inflüe en rien dans nos actions». Ma quale religione si potrà poi opporre agli stessi scettici? «L’argument de monsieur Pascal: vous gagnés tout à croire et ne gagnés rien à ne pas croire, tres bon contre les athées. Mais il n’establit pas une relligion plutost qu’une autre». Cosí ragionava Montesquieu con se stesso in due passi dello Spicilège (nn. 415 e 374): il relativista Bayle da un lato e il raziocinante Pascal dall’altro occupavano, tra fede e dubbio, la sua mente. Il brogliaccio erudito del grande pensatore francese riappare oggi, sotto l’egida della Société Montesquieu,  magnificamente restaurato e commentato per le cure di due studiosi italiani, Rolando Minuti, che ha stabilito il testo, e Salvatore Rotta, che ha redatto le note*. Spicilegium, ovvero collectio spicarum, spigolatura, è metafora già varroniana (nel De re rustica), che torna tra i dotti dell’età umanistica a definire uno scrap-book, come direbbero gli inglesi, uno zibaldone diremmo noi, qualcosa di molto piú impegnato e laborioso dei sottisiers di volterriana memoria.  A dire il vero, non tutte le pagine di questo Spicilège, conservato nella Biblioteca municipale di Bordeaux, appartengono a Montesquieu. La vicenda è singolare.

  Il padre oratoriano Pierre Nicolas Desmolets aveva affidato alla fine del 1713 al giovane Charles de Secondat, futuro barone di Montesquieu, già studente presso gli oratoriani, un grosso quaderno di appunti e citazioni messi insieme un decennio prima da un suo amico, a noi rimasto del tutto ignoto: non sappiamo neppure se fosse laico o ecclesiastico, ma solo che frequentava la casa madre dell’Oratorio a  Parigi, in rue Saint-Honoré. Montesquieu, attratto dalla varietà di quella raccolta e forse, come scrive Rotta, anche allo scopo di «mettre de l’ordre dans sa vie intellectuelle», decise di far ricopiare in bella il quaderno. Le note dell’anonimo, qualche volta curiose, piú spesso opache (gli attuali editori le definiscono anzi a un certo punto impietosamente altrettante «bêtises»), occupano i nn. 1-202 di questo Spicilège, giusto un quarto dell’intero testo. Il primo editore, André Masson, offrí nel 1944 una cernita di quello che chiamò il «recueil Desmolets» (nell’edizione del 1950 lo stesso Masson ampliò poi la scelta); Roger Caillois nelle Oeuvres complètes di Montesquieu per la Pléiade (1951) omise addirittura questa parte, per cosí dire, preliminare e apocrifa. Finalmente Louis Desgraves, fornendo la prima edizione integrale della raccolta montesquiviana (Paris, Laffont, 1991), riprodusse per intero anche il testo dell’anonimo. I nuovi editori seguono il criterio di Desgraves, apportando tuttavia, non solo per il cosiddetto «recueil Desmolets» ma per il complesso del testo, sostanziali miglioramenti di lettura in circa centoventi luoghi del tormentato manoscritto.  Ogni frammento di questa ‘definitiva’ (è il caso di usare l’aggettivo di solito bandito negli studi storici) edizione critica è accompagnato dall’indicazione dei pentimenti, delle sovrascritture, delle varianti e delle cancellature di mano di Montesquieu o di uno dei dodici copisti che si alternarono per  quarant’anni, tra il 1714 e il 1753, alla stesura del quaderno (seguendo un pionieristico lavoro di Robert Shackleton, Minuti ha documentato in limine, fornendo anche opportune riproduzioni fotografiche, la stratificazione delle varie mani). L’attenzione alle noticine dell’anonimo, i cui interessi vanno dalle scienze naturali alla letteratura latina, alla critica biblica, è ben giustificata non solo dall’occasionale intervento di Montesquieu in quelle pagine, ma anche dal fatto che esse rappresentarono un modello di lavoro per l’altro, altrimenti grande spigolatore. Non è stata del resto già intrapresa in anni lontani la pubblicazione sistematica dei marginalia di Voltaire ai libri della sua biblioteca, fossero pur modeste, distratte sottolineature? L’officina dei classici moderni non si nega simili prove di acribia, e di affetto.

  Rimane aperto il problema di stabilire la cronologia dei singoli passi dello Spicilège montesquiviano: un’apparente guida sono i numerosi ritagli e citazioni, circa un sesto dell’intero quaderno, tratti dalle gazzette contemporanee (soprattutto dalle ben informate «Gazette d’Amsterdam» e «Gazette d’Utrecht»); tuttavia non sempre l’impiego di tali cronache nel manoscritto è coevo alla data di pubblicazione. Da vari indizi si deduce che la redazione dello Spicilège dovette conoscere una notevole continuità negli anni Venti e Trenta del Settecento (Montesquieu portò con sé  il quaderno anche durante i suoi tours europei, 1728-1731); dopo un rallentamento coincidente col gran lavoro all’Esprit des lois, uscito infine anonimo a Ginevra nel 1748, la spigolatura  riprese con miglior lena negli anni estremi. L’ultima annotazione, del 1753, due anni avanti la morte, riguarda i contemporanei studi di La Curne de Sainte-Palaye intorno alla cavalleria medievale, pubblicati nei «Mémoires de l’Académie des inscriptions», e si apre con la sibillina frase autografa: «le comencement est à la fin de mon Spicilège» (n. 782a). Negli scritti del Sainte-Palaye Montesquieu aveva ritrovato le idee intorno all’influenza della galanteria sul diritto medievale che lui stesso aveva sviluppato nei capitoli centrali del libro XXVIII dell’Esprit des lois (molti anni dopo il nostro Saverio Bettinelli, nel Risorgimento d’Italia, assocerà, con buon intuito, le pagine dei due autori); può essere stato questo compiacimento di scrittore, che si vede ben compreso da un ideale discepolo, a fargli vedere, circolarmente, nella fine l’inizio? Il pensiero corre a una clausola retorica simile, ben altrimenti famosa, il virgiliano congedo dell’Esprit des lois (XXXI, 34): «Italiam, ItaliamJe finis le traité des fiefs où la plupart des auteurs l’ont commencé».

  È opportuno interrogarsi sul valore intrinseco di questa raccolta. Con l’understatement dei veri eruditi gli editori mettono subito le mani avanti: «il faut renoncer – scrive Rotta –  à l’illusion de trouver dans le Spicilège l’esquisse des grands ouvrages». L’abbozzo no, ma certo molti suggestivi scorci, che possono essere prudentemente utilizzati come chiavi d’accesso alle opere maggiori. Il testo che piú si avvicina allo Spicilège è senza dubbio il libro delle egualmente postume, ma sistematicamente disposte, Pensées: due aforismi, uno sulla Inés de Castro di De la Mothe, l’altro sull’inoculazione del vaiolo in Inghilterra (nn. 335 e 646), vengono trasferiti di peso nell’opera piú compiuta; in generale, un certo gusto per l’annotazione minuta, per l’osservazione disincantata e confidenziale accomuna alcuni frammenti delle due opere. Come osservano gli editori, una formula ritorna con regolarità, almeno un centinaio di volte, nello Spicilège: «j’ai ouï dire» (o simili). Montesquieu, legittimo figlio del secolo della conversazione, molto volentieri tende l’orecchio ai piú svariati interlocutori: qualche volta anonimi e ‘scandalosi’ (al n. 609 compare un «empio» che suggerisce come il mistero della creazione sia un semplice «probleme de geometrie dont on ne sçauroit pas toutes les conditions»), piú spesso celebrati e autorevoli. Scorre davanti a noi un bel campionario dell’intelligenza europea contemporanea: Saint-Simon, Fontenelle, l’esprit fort Nicolas Fréret, l’ascoltatissimo cardinale Melchior de Polignac, lady Montagu, il matematico Martin Folkes, l’antiquario Thomas Pembroke; tra gli italiani, Scipione Maffei, Antonio Conti, e poi ancora una piccola pattuglia di eruditi e bibliotecari, da Bernardo Andrea Lama a Gaspare Cerati, al commerciante ebreo livornese Giuseppe Athias, che fu anche amico di Vico (molte di queste ultime conoscenze risalgono al viaggio in Italia del 1728-1729). Dalla voce di Saint-Simon lo spigolatore  apprende vari ruvidi aneddoti, che in parte ritroviamo nei Mémoires saintsimoniani, intorno agli ultimi anni dello smisurato regno di  Luigi XIV: prima di por mano all’Esprit Montesquieu  aveva pensato proprio di scrivere una storia del re Sole e della sua epoca. Ecco allora gli aforismi sul regale disprezzo, misto a invidia,  per  chi a corte aveva «des talents superieurs» (n. 570), sulla cattiva conduzione delle guerre («il choisissoit de mauvais generaux et quand ils etoient battus il vouloit justiffier son choix», n. 704), o  sulle sue estreme parole, dal letto di morte, alla Maintenon: «Madame je vous quitte, nous nous reverrons dans l’autre monde. Bon, dit-elle, voila un beau rendés-vous qu’il me donne la. Cet homme n’a jamais aimé que luj» (n. 714). Da monsignor Cerati, provveditore agli studi dell’univesità di Pisa, Montesquieu ascolta invece una curiale confidenza: «Le pape, m’a dit mr Cerati, a un manuscript d’un cardinal qui dit sur le concile de Trente: c’est comme un festin. Si vous allés dans la cuisine vous n’y trouverés rien que de malpropre et de degoutant. Si vous voyes le festin vous verres une chose delicieuse» (n. 689). Sempre a Roma Montesquieu approva, usando anche un po’ d’italiano, le riserve del cardinale di Polignac («Dice bene il cardinal de Polignac») sulla concezione newtoniana dello spazio assoluto, sospettata di condurre all’ateismo: «ils supposent l’espace pour se passer de Dieu et une attraction pour se passer d’un moteur» (n. 489a); è però vero che piú avanti Montesquieu difende Newton da un’accusa simile, mossagli dal gesuita Louis Bertrand Castel, protestando che troppo facilmente  i filosofi sono rimproverati d’ateismo: «on ne fait autre chose que prouver l’atheisme et lui donner des forces en faisant croire que l’atheisme est si naturel que touts les sisthemes quelques differents qu’ils soyent y tendent toujours» (n. 565). Chi sfoglia lo Spicilège ha il privilegio di seguire i tormenti, e le contraddizioni, di una mente inquieta.

  Altrove lo stesso Polignac scende dal piano della metafisica per descrivere una tragicomica, irresistibile pochade: dalle sue labbra Montesquieu apprende la cronaca della morte del re di Polonia Giovanni III Sobieski, avvenuta nel lontano 1696, dove si narra della regina Maria Casimira in fuga davanti al colpo apoplettico che scaraventa a terra il vecchio sovrano, di un cappellano ubriaco che si precipita «sur sa pance et s’ecria nomen meum sicut oleum effusum»,  e di un gesuita italiano, Carlo Maurizio Vota (ma Montesquieu scrive Rota) che, avendo visto una croce d’oro addosso al re, esclamando «eh mon Dieu voila qui l’etrangle», «coupa le cordon et mit le crucifix dans sa poche» (n. 512). Verità? Diffamazione? Si sa: Polignac detestava i gesuiti, e in generale  a Montesquieu, che pure aveva amici nella Compagnia, non spiacevano simili railleries. Ma dagli stessi gesuiti l’autore dell’Esprit des lois è ben disposto a imparare. È anzi avido, specie durante il soggiorno romano, di qualunque notizia essi  riportino dalla Cina, si tratti di suggestioni sulla «tela di ragno» del dispotismo cinese («le palais de l’empereur est une toile d’araignée et il est au milieu come l’araignée: il ne peut remuer que tout ne remue et on ne peut remuer qu’il ne remue aussi», n. 483); di echi della polemica sui cosiddetti ‘riti cinesi’ (nn. 481 e 494); o di novità letterarie: nella Description de la Chine del padre Du Halde scopre (n. 554) la strana, scontrosa bellezza dell’antica pièce, attribuita a Chi-Chün-Hsiang, L’orfano della famiglia Chao, che tanti anni dopo verrà riadattata da Voltaire nel suo fortunato Orphelin de la Chine. Dalle conversazioni italiane Montesquieu riceve anche qualche superficiale notizia sulla nostra poesia: è riportata per esteso la spiegazione di Antonio Conti sulla necessità che le tragedie siano divise in cinque atti, al fine di ben preparare «le dénouement» della favola («rien dans la nature ne doit se faire par sauts», n. 465); incerte le nozioni orecchiate sulla metrica (la strofa in dieci versi delle odi francesi viene confusa con l’ottava epico-cavalleresca, n. 473); appena  un po’ piú felice questa pointe anonima: «un home comparoit Dante à l’authomne a cause de ses fruits, Petrarque au printemps a cause de ses fleurs» (n. 496). In linea con una tradizione appresa in Inghilterra appare il giudizio su Machiavelli ‘repubblicano’: «Machiavel n’a parlé des princes que come Samuel [intendi il primo libro di Samuele, VIII, 5-22] en a parlé sans les aprouver. Il estoit grand republicain» (n. 529:  è richiamato il nome di William Cleland, un amico di Pope). Qualcosa di vagamente machiavelliano si avverte anche nel pensiero, nato proprio in margine alla lettura del Giulio Cesare di Conti, su un’umanità piú abbagliata dai nomi che persuasa dalla sostanza delle cose: «vous voyés que le peuple n’aime ou ne hait jamais que les noms de la magistrature. Les republicains haissent le nom de roy, ceux qui vivent dans une monarchie haissent le nom de doge ou de bourguemestre» (n. 464).

  I ritagli e le trascrizioni dalle gazzette ci riportano agli interessi piú squisitamente politici di Montesquieu. Anche qui nell’apparente caos delle carte è possibile intravedere, sottolineano gli editori, un ordine logico: frequenti sono le informazioni sull’andamento statistico della popolazione europea (nn. 543 e 691: il valore euristico della demografia è una delle ‘scoperte’ montesquiviane), sulla situazione delle finanze in  Inghilterra (nn. 350 e 590), sulla crisi delle antiche repubbliche (Genova di fronte alla questione còrsa, Berna in rivolta: rispettivamente nn. 611 e 733). Molto duro il giudizio che emerge di fronte al dispotismo di Pietro il grande, le cui imprese solleticheranno l’immaginazione di Voltaire: «Le plus barbare de touts les homes c’estoit le czar» (551), mentre il terrore («la frayeur») avrebbe addirittura istupidito l’indole stessa dei moscoviti («quand un bataillon marche contre eux il se laissent tuer sans trouver ni leurs mains ny leurs armes et on les tüe come des betes», n. 572); il futuro della Spagna gli pare invece in bilico tra l’antico fardello dei privilegi feudali accordati al clero e qualche timido tentativo di riforma (nn. 446 e 779). Sfogliando la «Gazzetta di Utrecht» del 18 luglio 1749, che informa della crisi bernese, annota con compiacimento come la diagnosi espressa in Esprit des lois III, 4 sul governo aristocratico che degenera in tirannide se non è corretto da «une certaine modération», si fosse rivelata esatta (n. 716). Sempre al capolavoro di Montesquieu ci rimanda un altro appunto (539a), che era sinora rimasto illeggibile a causa delle cassature a penna che l’autore vi aveva sovrapposto: riguarda una nota di lettura dal libro del repubblicano inglese James Harrington, The Commonwealth of Oceana (1656), maltrattato nell’Esprit des lois (XI, 6 e XXIX, 19); mentre il giudizio piú magnanimo che ora emerge vale in parte a  correggere le valutazioni già note: «vivant en Angleterre il [Harrington] a fait souvent des propositions particulieres generales, ce qui fait une tres mauvaise maniere de raisoner: d’ailleurs il y a des choses tres profondement pensées».

  Una curiosità particolare, ereditata, parrebbe, dallo spigolatore anonimo, Montesquieu mostra di nutrire in questi frutti di lettura per la critica biblica. Il primissimo appunto dello spicilegio (n. 204) riguarda il  roveto ardente in cui Dio appare a Mosé (Esodo, III, 2), ed è un tentativo in nuce d’interpretare in termini non allegorici la lingua   veterotestamentaria: «C’est dans ce buisson que Dieu apparut a Moise mais le buisson n’estoit pas enflamé. Je croy que c’est dans le livre La pratique du jardinage»; il riferimento va al nome popolare francese di quella pianta («buisson ardent», che i botanici chiamano crataegus pyracanthia) e a un moderno manuale di giardinaggio che spiega l’effetto cromatico ingannatore per chi osserva, e forse anche per il biblista («ses fruits rouges […] le font paroître de loin comme plein de feu»). A questa rapido appunto fanno seguito annotazioni piú impegnate. Notevole è per esempio il frammento 405 sui due nomi della divinità presso le popolazioni semitiche: Elohimdii», plurale di El) e il piú tardo Yahvé («il a falu ensuite inventer le Jehova ineffable»), alternanza che è alla base di un’intera biblioteca della moderna esegesi biblica. Montesquieu individua poi (n. 397) una crux esegetica nella traduzione della Vulgata di Giobbe, XIX, 25-26, dove è additato il mistero della resurrezione della carne: si tratta, si chiede,  di vera resurrezione («de terra surrecturus sum») o, come aveva interpretato la versione dei Settanta, di una semplice risoluzione, voluta dall’onnipotente, degli elementi mortali sulla terra (legge «qui soluturus est me super terra[m]», corrispondente al greco «ο εκλυειν με μελλων επί γης»)? Dopo qualche esitazione Montesquieu conclude: «pour moy je croy que le sens de la Vulgate est le meilleur car il est le sens ortodoxe». Dubbio e fede, ancora una volta, si affrontano quasi ad armi pari.

  Le riflessioni d’ordine metafisico occupano uno spazio significativo  (già lo abbiamo visto) nel corpo dello Spicilège. L’autore sente il dovere di battere in breccia gli esprits forts da cui si sente circondato. Il frammento su Bayle e gli increduli citato in avvio riguardava soprattutto il problema della pericolosità sociale degli atei: timore abbastanza antico, su cui Bayle stesso (come Rotta ricorda) s’era soffermato nelle Pensées sur la comète, CXXXV, obiettando che, se «la conscience connoît en général la beauté de la vertu», la stessa agisce poi sempre secondo il proprio tornaconto personale, perché, realisticamente, «il n’y a lumière de conscience qui tienne: on ne consulte plus que la passion, et l’on juge qu’il faut agir hic et nunc contre l’idée générale que l’on a de son devoir». Del resto, le epoche di massima pietà non erano state anche le stagioni  della piú cieca violenza? Altra volta Montesquieu è costretto a riconoscere che il cristianesimo «ne nous a point beaucoup corrigés», visto che ammiriamo ancora «les sentances des anciens qui font la peinture des vices»: pochi individui la religione ha mutato, «non pas la masse» (n. 509); e verso la fine del suo diario apre un memorabile ritratto di re Luigi XI (di cui scrisse una vera e propria storia, per noi perduta) con le parole rivelatrici: «Quel prince fut plus devot et plus scelerat que Louis XI!» (n. 748). Tutto sommato, sembra ancora subire il fascino del Bayle scettico (anche nell’Esprit des lois ne riconoscerà la grandezza) quando riferisce  (n. 460) di una confidenza di Fontenelle sul primissimo progetto del bayliano Dictionnaire historique et critique come  di un gigantesco repertorio degli errori degli antichi e dei moderni, «avec des nottes pour en prouver la fausseté, de facon que dans le corps de l’ouvrage il n’y auroit rien eu que de faux»: insomma, un gigantesco spicilegio della stupidità umana.

  L’apparato testuale della presente edizione è nello stesso tempo esaustivo e agile, i segni diacritici adoperati e i rimandi interni richiedono un lettore attento sí, ma non necessariamente specialista. Annotare questo spicilegio non era facile: ci voleva una pazienza pari alla dottrina, una diligenza accompagnata da una buona dose d’intuito, essendo davvero Montesquieu, come è detto felicemente nell’introduzione, un «penseur aussi profond que malicieux», ben capace di sviare i lettori (sempre che immaginasse lettori per il suo brogliaccio); e  il commento è all’altezza di tanta profonda malizia: dove identifica con sicurezza personaggi e libri anonimi o pseudonimi (solo pochissimi fili dispersi in questo granaio sono risultati insondabili), dove corregge errori di fatto e fraintendimenti, dove chiarisce, senza mai soverchiare la voce dell’autore, fonti e anticipazioni dottrinarie. L’impresa grande dei nuovi omnia di Montesquieu può farci pensare al programma di pubblicazione delle carte sparse di Leibniz, lentissimamente in marcia entro i Werke curati dalla ora rinnovata Accademia delle scienze berlinese: imparagonabile per quantità è naturalmente l’immenso corpus inedito leibniziano rispetto al piú circoscritto lascito del pensatore francese; ma nell’uno e nell’altro caso lo studioso moderno potrà disporre di una mole di testi capace di mutare, almeno in parte, la conoscenza del pensiero europeo di primo Settecento. E con Montesquieu lettore dei suoi contemporanei conviene allora chiudere questa nota: «je croy que c’est Leibnits – leggiamo al n. 511 – qui compare le monde a une mazure [masure: catapecchia] dont un morceau est tombé ou les rats trouvent toutes leurs comodités des loges, des promenades, des montagnes, des valées, des amas d’eau. Quel arrangement, dit-il, trouveroi[e]nt-ils pour eux s’ils raisonoint». L’argomento che Montesquieu usa contro gli atei (in linea con la cosiddetta prova fisico-teologica, o cosmologica) sembra in realtà un resoconto infedele, come Rotta sottolinea, del pensiero della (antibayliana) Théodicée, dove non v’è traccia di quella cruda immagine; del resto, per Leibniz il nostro mondo, in cui l’uomo entro i suoi limiti è pur sempre «un piccolo dio» (Théodicée, 147),  reca i segni della completezza e della perfezione,  e non può essere dunque paragonato alle rovine di un’entità preesistente. Ma la favoletta apocrifa dei topi, forse d’ascendenza libertina, può farci  pensare alla famosa pagina dell’ultimo capitolo del Candide di Voltaire, in cui un «reverendo derviscio» risponde sgarbatamente alle angosciate domande metafisiche di Candido e Pangloss sul Bene e sul Male: «Qu’importe qu’il y ait du mal ou du bien? Quand Sa Hautesse envoie un vaisseau en Ėgypte, s’embarasse-t-elle si les souris qui sont dans le vaisseau sont à leur aise ou non?». Qui la critica alla metafisica leibniziana presuppone pur sempre, leibnizianamente, l’esistenza di Sua Altezza (Dio), che è tuttavia indifferente ai guai dei topi (gli uomini). Sappiamo che Montesquieu diffidava dello spirito di sistema di Leibniz, almeno in campo politico, anche se sembra sottoscriverne, a suo modo, l’a priori metafisico; vano domandarsi se avrebbe condiviso il cupo pessimismo del vecchio Voltaire sul peggiore dei mondi possibili. La riflessione politica lo aveva comunque abituato a giudicare con cauto relativismo la natura degli uomini: per  i quali gli pareva sempre possibile escogitare regole ragionevoli di convivenza. Ci soccorre ancora un piccolo, malizioso  apologo (Spicilège, 222, scritto prima del 1718) dove si accenna, in termini elementari, alla razionalità del contratto sociale: «L’origine des rois c’étoit 10 ou 12 hommes qui vouloient atteindre les pommes d’un pommier. Comme il y en avoit de grands et  de petits, la partie ne pouvoit etre egale, c’est pour cela qu’ils choisirent un d’entr’eux pour se les partager. Si le distributeur avoit commencé par remplir ses poches, ils l’en auroient bien empeché». Se il distributore avesse cominciato a riempirsi le tasche… Nello stato di natura quella frode (torna la formula cara a Montesquieu: la partita non uguale) pare l’eccezione insensata  per un mondo dove  dovrebbe sempre valere, secondo le parole di Esprit des lois, I, 2, «le désir de vivre en société».

 

Nota

* Spicilège, in Oeuvres complètes de Montesquieu, vol. 13, Oxford, Voltaire Foundation – Napoli, Istituto italiano per gli studi filosofici, 2002, pp. 704. Il piano prevede ventidue volumi: sono già apparsi le Considérations sui romani, le Réflexions sur la monarchie universelle e il primo tomo del carteggio. Salvatore Rotta, scomparso nel febbraio 2001, non ha purtroppo fatto in  tempo a veder stampato il risultato della sua fatica. Professore di storia moderna nelle università di Pisa (1969-1980) e poi di Genova (1980-1999), ha lasciato un segno profondo, oltre che negli studi montesquiviani (si ricordi almeno il suo Montesquieu nel Settecento italiano, in «Materiali per una storia della cultura giuridica», I, 1971), nelle ricerche sulla cultura scientifica europea tra  Sei e Settecento (Geminiano Montanari, l’Accademia ciampiniana, la diffusione del newtonianismo) e sul nostro  illuminismo: tra le figure al centro dei suoi interessi, Paolo Mattia Doria, Agostino Lomellini, Paolo Frisi, Pietro Paolo Celesia, Cesare Malanima. Un bel ritratto di Rotta ha tracciato, per  i suoi settant’anni, Alfredo Stussi, in «La Berio» (Genova), XXXIX/1, 2000, pp. 19-27. È in corso una riedizione dei principali scritti di Rotta presso la libreria elettronica «Eliohs» (indirizzo internet: www.eliohs.unifi.it/testi/900/rotta).