Jean Montalbano

Desnos, uomo poroso

Sarà pure troppo evidente, ma come non notare in extremis il tono di resa nelle parole tramandate da un morente Robert Desnos ritrovato nel campo di Terezin a guerra appena finita: “Robert Desnos, poeta francese, sono io! sono io!”?  Onorevole rivendicazione, ma quanto distante nella sua debole perentorietà dalla pratica spesso sfacciata perseguita nel ventennio di vita precedente. Ed ottant’anni dopo la sua prima apparizione, la tardiva edizione italiana di La Libertà o l’amore! ( Odoya, 2008, a cura di Tania Collani, già editrice di un raro Crevel) basterebbe a sintetizzare il rango in cui, al di qua delle Alpi, è tenuto colui che fu detto dallo stesso Breton “profeta del surrealismo”. Come il Battista, annuncio e medium negli anni dada di qualcosa che, dicendosi nella sua voce, l’oltrepassava consumandolo, fino a lasciare che gli anni maturi si disperdessero in una multiforme attività di deviazione giornalistica, da cronista militante o autore radiofonico (il surrealismo di pubblico dominio, cosa ancora diversa da quello dis-occultato): tutte attività deprecate nel segno di un rimpianto per l’insofferente disordine giovanile ed occasione dell’abbandono del gruppo surrealista messosi al “servizio” del PCF. Serpeggiava nei testi del ventenne Desnos ( ed echeggia in La libertà o l’amore! che uscì nel 1927 ma era di molti mesi precedente) una curiosità rabdomantica e dispendiosa (“un consumo di forze che poi non si potevano più compensare” avrebbe chiosato l’autore dei Passi perduti riferendosi a quel parossismo non solo verbale) che gli faceva anticipare, ad ogni riemersione dal meraviglioso, temi ed interessi su cui avrebbero insistito altri compagni d’avventura, pensiamo solo alla cultura cubano-messicana (balli inclusi).

Niente capitalizzazioni: altri si dessero pure alla conoscenza e si votassero a un ridicolo collezionismo! Desnos stesso da posizioni più colloquiali e disingannate, diversamente urgenti dati i tempi, avrebbe messo in prospettiva il suo lavoro, pochi giorni prima di essere arrestato dalla Gestapo, augurando ai propri scritti pochi lettori futuri che ogni venticinque –trent’anni li avrebbero riesumati in pubblicazioni confidenziali: “apparterrò al capitolo della curiosità limitata”. Eclettico non per difetto, franco tiratore proprio per essersi da tempo piegato al dovere del “lavoro alimentare”, appesantite le ali dal piombo della necessità servile, aveva scelto (quando molti amici del passato, obbedienti al primo pacifismo, si trasferivano in America) l’intervento antinazista anche per estrarre dalla guerra “tutta la felicità possibile: una prova di salute, di giovinezza e la soddisfazione inestimabile di emmerder Hitler”. La parola “libertà” bastava a ridestare “antiche brusche collere”, le stesse che gli avevano dettato i testi infiammati sui primi numeri de La Révolution surréaliste, quei proclami ai pochi sopravvissuti all’inquisizione utilitarista: “ho sempre disprezzato quei rivoluzionari che, per aver sostituito una bandiera bianca con un drappo tricolore, si ritenevano soddisfatti e vivevano tranquillamente, decorati dal nuovo Stato, pensionati del nuovo governo”. Allora Desnos, smanioso di ritrovare gli accenti del “Père Duchesne”, giornale degli enragés, giurava sull’unico principio della libertà assoluta, vaticinando caserme e cattedrali in fiamme, epurazioni metodiche di curati, pastori, militari, benefattori, uomini e donne di lettere, tutti raccomandati alla ghigliottina.

Le cento pagine di La Libertà o l’amore! vivono di quelle accensioni, ancora sbrigliate nell’allestire un teatro dove si ripetono le pose sontuose di Sade, Lautréamont o Roussel: occasione, oggi come allora, per apprezzare il dispositivo rischioso della triade amore- rivolta- libertà, cemento del nucleo forte dei surrealisti, o per deprecare un certo gusto per l’intemperanza verbale allorché occhi crudelmente spalancati registrano le potenze oniriche scatenate da comuni oggetti esposti nelle vetrine o intuiscono le segrete efferatezze di certi club particolari e di un Jack lo Squartatore (tema di una serie di articoli negli stessi mesi). Se ogni gesto di surrealismo assoluto prevedeva il bagno nella cultura popolare, l’incollarsi al quotidiano con ogni poro della pelle (Queneau dixit) è ancora più congeniale all’autodidatta Desnos, per cui le immagini simultanee, aderendo al proliferante hasard, tracciano uno spazio sociale trasfigurato.

Ora, in una rapsodia sui diritti del desiderio per quella temperie prevedibile e scorrevole, il capitolo VIII inserisce delle note dissonanti associate alla presenza dubitativa di una vecchia conoscenza baudelairiana: la noia come ragione di vita, Metafisica, monotonia dell’Eternità, tentazione di confondersi nello scorrere di minuti indistinti. Nel suo “tableau parisien” Desnos dipinge la noia con toni da piazza assolata dechirichiana, quinta infernale da cui spiare “il tormento immobile e le prospettive distanti dello spirito libero da ogni forma di pittoresco e sentimentalismo” e così facendo pare gettare un sospetto di vanità e oziosità sull’intera macchina messa in opera dal gesto surrealista.

L’invocata prosa sensuale che dovrebbe dire l’amore per l’amata può stonare come ridondante e banale, la distanza della penna dalla bocca risultare in un romanzo “assurdo”, “insufficiente”, “deludente” (definizioni del narratore) inadatto ad imprigionare le solide aspirazioni di un amante, incantato nella superfluità delle figure convocate. Pur tentato di assecondare il gioco delle metamorfosi e dei travestimenti in cui un romanziere si sogna e riconosce (il mondo acquatico di J. Verne, sirene, spugne, ma anche stelle e sfingi) Desnos si arresta e dubita mentre si espone alle trappole lirico-sentimentali, negandosi alla facile leggibilità mentre scatena la ridda delle peripezie erotiche intorno alla ricerca di Louise Lame da parte di Corsaire Sanglot, in una Parigi glaciale e disorientante quanto quella attraversata da Breton con i reperti lasciati da Nadja. Questi vagabondaggi saranno sorvegliati dalla scostante stella di Desnos, la sua musa di Montparnasse, Yvonne George: questa cantante per intellettuali, belga, morta ancor giovane, nel 1930, sulla costa ligure, dove curava una tubercolosi aggravata da eccessi d’alcol e droghe, secondo il suo non corrisposto ammiratore era l’espressione più alta della donna moderna, incarnazione dell’eterna poesia della rivolta, della passione, dell’avventura; leggenda volle che al suo fianco, a Genova, ci fosse un sempre devoto Desnos.

Risorsa e pericolo, l’amore-poesia è ancora tempesta-acciaio, rogo incendiario e contestazione della povera realtà purché, deluso, il peripatetico amante sia preparato a  raccoglierne le trascurabili scintille sul selciato della solitudine nottambula. Come se soltanto un rilancio incessante (ed insostenibile, non compensabile, avrebbe detto Breton) del grand jeu surrealista potesse tenere lontano l’inferno del patetico e, quel che più conta, la galera dell’eleganza e dello stile; poiché passata l’ora della bellezza e dell’intuizione, zittita la lingua del desiderio (“Eros, c’est la vie”) si profila la resa alla dura legge della costrizione e ai pericoli rassicuranti dell’esistenza utilitaria, al deserto urbano alluso dalla sfinge in cui libertà e amore sono congiunti come manette.

Qualcuno raccontò dell’amarezza di Breton per la mancata adesione di Guénon ai suoi appelli, sospettando nel suo silenzio un giudizio che schiacciava il surrealismo su una civiltà occidentale considerata come congerie di articoli di lusso, escogitati da parassiti, per il consumo di oziosi. Rischio della rivolta come condanna e salvezza che un altro “grande tradizionalista”, N. Gomez Davila, avrebbe così riassunto: “Dall’epoca degli aedi ionici a quella dei romanzieri borghesi, i giovani di buona famiglia hanno finanziato tutte le «alienazioni» religiose, estetiche, politiche, in una parola civilizzatrici dell’uomo. Tutta la gloria dell’Occidente”.

“la Bave”, 2009