Maurizio Cabona

Mario Monicelli (1915-2010)

«La repubblica presidenziale, ma col re!». Ardita sintesi istituzionale di una nobildonna in Vogliamo i colonnelli di Mario Monicelli, considerato un film minore del regista scomparso. Parve infatti «tirato via» a chi ignorava che i personaggi raffigurati nel parlamentare missino Tritoni (Ugo Tognazzi, reduce delle Brigate nere) avevano notevoli somiglianze con deputati (Beppe Niccolai) e senatori (Giorgio Pisanò), oltre che paracadutisti (Sandro Saccucci).
Chi era stato l’osservatore privilegiato di quelle realtà marginali e perseguitate? Lo scrittore Gian Carlo Fusco, anche interprete del film. I dettagli che preoccupavano Monicelli erano quelli della credibilità, più che della recitazione o della fotografia.
Si pensi ora a uno dei suoi maggiori successi, l’Armata Brancaleone. È il 1965: il nudo frontale è ancora vietato, così Monicelli mette un cespuglio fra la macchina da presa e la Spaak. Col giochetto del vedo-non-vedo, la scena supera la censura. Ma una dozzina d’anni dopo ecco le videocassette e quella scena non supera la prova del fermo-immagine, con gioia di ogni spettatore attento alle grazie muliebri.
In Brancaleone alle crociate, altro successo, nessun cespuglio ne fa intravvedere un altro; in compenso - sullo sfondo, dietro l’imbarcazione simil-medievale dei non-eroici crociati - spunta un motoscafo… La distrazione, qui, deriva solo dalla logica del «buona la prima!». Se essa si associa a grossi incassi, diventa un marchio di simpatia. Almeno per i produttori.
Chi - dopo il successo di Mondo cane e Per un pugno di dollari, prima di quello di Africa addio e Un uomo e una donna - se non un regista «simpatico» in tal senso si sarebbe potuto inventare, coi suoi sceneggiatori, un «volgare» che rendesse ameno il rifacimento medievale de La grande guerra? Certo, a rendere probabile il successo dell’Armata Brancaleone c’era sempre Gassman; non Sordi, offeso perché - dal Sorpasso in poi - Gassman gli rubava il ruolo del cialtrone e vitalista, col quale gli italiani s’identificano tuttora.
Monicelli intuiva spesso gli umori del pubblico. Se le storie che piacevano a lui (I compagni, per esempio, un capolavoro) non piacevano agli altri, lasciava perdere. Oppure insisteva, rettificando, e da una storia sempre operaia e sindacale, stavolta milanese anni Settanta e non torinese anni Dieci, estraeva Romanzo popolare, entrato nella memoria collettiva tanto da ispirare (inconsapevolmente?) chi, quasi quarant’anni dopo, elucubrerà spericolatamente sul caso Noemi.
Oppure Monicelli prendeva magari due attori (Tognazzi e Noiret) della fecale e grottesca Grande abbuffata e inventava un rabelaisiano inno all’invecchiare, non solo al ricordare, con rabbia: Amici miei.
Verremmo al tuo funerale, Mario, se ci fosse, come i tuoi eroi fiorentini andavano a quello di uno di loro, piangendo. Dal ridere.

“il Giornale”, 1 dicembre 2010