Jean
Montalbano
Fahey o come farsi una tradizione
Ancora prima dell'ascolto, un surplus
di godimento offerto dagli album del chitarrista John Fahey riposava tra le note di copertina, derivando dalla
lettura di quell'intreccio di ricordi e invenzione, documento e storiella e
che, anno dopo anno, tesseva una mitobiografia del grande spostato di Takoma
Park, Maryland. Con tali precedenti, non è facile per i suoi biografi separare
il fatto dal racconto, così aderente alla sua intera esistenza è una pellicola
di immaginazione e reticenza, stesa a partire dagli anni di formazione, tanto
più che anche chi si sottrae al riserbo, dopo la sua scomparsa nel 2001, lo
conobbe e frequentò solo negli ultimi decenni di una vita tutto sommato breve.
Steve
Lowenthal (Dance of Death. The Life of
John Fahey American Guitarist, Chicago Review Press, 2014) non è il primo a farne oggetto
d'indagine (ricordiamo solo i saggi di Nick Schillace, d'impianto accademico e
di Claudio Guerrieri, ammirevolmente talmudista) né sarà l'ultimo, pur se
riteniamo che la vicenda offra poca materia avventurosa e, come per illustri
precedenti, poco giovi al profilo del biografato il rovistare tra la biancheria
sporca: per la pace dello stesso Fahey meglio sarebbe consegnarne la figura
alla riluttante misericordia di note d'accompagnamento all'opera incisa. Non
faremmo nostra la convinzione di Lowenthal che "dissecting the myths"
possano emergere "universal truths". Ci sarà ancora e solo materia
per narrazioni (e corteo di dicerie) temiamo. Fin nel libretto unito a The
Transfiguration of Blind Joe Death (1965) si raccontava di uno studente in
cerca di notizie per un master su un certo John Fahey. Così Lowenthal è già
preso e previsto nella trama di una storia allestita dallo stesso Fahey. Qui,
atteso e auspicato, profetizzato, è il biografo che per il suo lavoro riceve
conforto e giustificazione, insieme a una buona dose di derisione. In cerca
della propria voce, Lowenthal ha il merito di mettere nella giusta prospettiva
(dotandola di un debito sfondo) quel che, nell'operare di Fahey, potrebbe
sembrare solo velleitario o confusamente iconoclasta: così alle spalle di
strutture scardinate, dissonanze, atonalismo e scarti ritmici, vede l'influenza
dei compositori “sovietici” (Prokofiev e Shostakovic su tutti) assorbiti via
radio nell'adolescenza, giusto per terremotare gli yodel di Jimmie Rodgers o il
bluegrass di Bill Monroe. Insieme al gospel e variamente combinati, guideranno
Fahey verso quel che si chiamerà "American Primitive" con riferimento
alla parte non educata e ribelle della sua formazione. Chi non conosceva
accordi e armonie, sentiva comunque un'orchestra suonare nella testa: lì
andavano a finire anche le note dei 78 giri di Charlie Patton, Blind Blake o
Skip James (che, insieme a Sam Mc Ghee, resteranno tra i suoi favoriti).
Tentava di entrare nella storia del blues suonando/duettando con i dischi
preferiti (di cui faceva incetta in vere e proprie spedizioni verso il sud e
dal cui commercio ricavava un modesto guadagno) e facendoli propri, o meglio
facendosi possedere dal ritorno ossessivo di voci prossime alla cancellazione.
In questo v'era un certo andare controcorrente, visto il progressivo
spostamento, proprio dagli anni '50 in poi, dell'audience verso il blues
elettrico del secondo dopoguerra. Se sommiamo a quelle suggestioni rurali la
fedeltà alla tradizione sempre viva degli inni cristiani (con uno spiritual
ebbe consuetudine di concludere gli album, come porto sicuro in cui riparare
dopo le spedizioni spesso arrischiate sulla steel guitar) avremo solo una prima
idea dell'inedita tavolozza da cui Fahey dovette estrarre i suoi lavori per,
negli esiti migliori, emanciparsi dalla condizione del collagista autodidatta.
Il tono era dato già in quel che si
considera l'esordio, Blind Joe Death (1959), omaggio all'autentica
"blackness" da parte dell'adolescente bianco e memento del negativo
soggiacente il sogno americano suburbano. E per tutti gli anni sessanta, sarà
questo marchio che ne impedirà l'assorbimento nel progressismo e pacifismo hyppie.
Dove trionfavano pace & amore, Fahey proponeva morte e depressione, e
questo poteva anche in virtù del suo essersi reso indipendente, con
l'autoproduzione e distribuzione dei propri dischi, dalle regole e direttive
delle etichette discografiche, per quanto accoglienti e lungimiranti.
"Non odio nulla quanto Berkeley
negli anni sessanta" ripeterà fino alla fine per ricordare su quale lato
oscuro del marciapiede preferisse marciare e la visita di alcuni membri della
famiglia Manson negli uffici della sua etichetta discografica per un'eventuale
incisione non sembrerà, a posteriori, del tutto fuori luogo. Più che alla droga
fu all'alcol che il nostro chitarrista ricorse, prima per vincere una certa
paura del palcoscenico, poi per sfidare il pubblico liberal attratto dal
revival folk-blues ma sentito sempre entità ostile. "Performance is
war" recitava un suo articolo. Questo sempre lo frenò nei tentativi di
allargare la base dei seguaci, pur nel desiderio di misurarsi con budget più
grandi; lo si vide quando riuscì ad accasarsi in un catalogo, come quello
Vanguard, molto spostato sul "classico". Poco meno ingestibile di un
intossicato Sandy Bull, cui doveva subentrare come chitarrista di punta, anche
la collaborazione con la nuova etichetta, ansiosa di capitalizzare su una scena
in pieno fervore, non ebbe lunga durata. Si ha come l'impressione che, non
appena Fahey cercasse di uscire dall'ambito ristretto e protetto ma
controllabile che ruotava intorno agli affari autogestiti della Takoma Records,
un richiamo comunitario provvedesse a sabotarne le uscite verso avventure meno
garantite. Il riconoscimento cercato, una volta ottenuto poteva essere svilito
come possibilità inquinante: ma il noto meccanismo operava perché ben radicato
in una personalità inquieta e rissosa come quella faheyana. Forse da
adolescente venne folgorato dalla canzone Praise God I'm Satisfied di
Blind Willie Johnson (1929) proprio perché sentita distante dai suoi stati
d'animo.
L'incontro scontro con l'Antonioni di Zabriskie
Point (su cui favoleggiò a più riprese) fu addebitabile a divergenze
ideologiche prima che musicali e, visto il risultato, fu un bene per Fahey,
certamente, ma che dire della collaborazione infruttuosa, nell'estate '67, con
i Red Crayola di Mayo Thompson ? (Quella con Al Wilson dei Canned Heat, si sa,
venne troncata per cause indipendenti dalla loro volontà).
Inquieto, sempre in attesa di una
resurrezione che lo assegnasse al lignaggio americano profondo, nero e
tradizionale, e di venire valorizzato, come i bluesmen rurali, da un Lomax di
turno, per anni si rifiutò di riconoscere progeniture che ne invocavano la
protezione; se il rispetto degli altri moschettieri della chitarra acustica
(Basho, Kottke, Lang) era gradito, più indisponenti e fastidiosi giudicava gli
esiti narcotici e pacificati del movimento new age (estremo parto
dell'ebetudine hyppie) che annoverava tra gli alfieri Winston, Ackermann o
Hedges, suoi equivoci "allievi". Motivo in più per riprendere ad
ubriacarsi e mandare all'aria quel che avanzava del capitale di abilità
tecniche generosamente dissipato. Con gli anni '80 anche lo sguardo sul passato
si fece più corto: non il blues tra le due guerre, ma i successi pop anni '50.
Niente si salvava da un triste alluvione che tutto travolgeva, anche le vecchie
fidanzate rientrando nella categoria "memorie orribili". Preferendo
arrangiare Blueberry Hill per
chitarra, Fahey progressivamente aveva abbandonato nei concerti la proposizione
dei vecchi lunghi pezzi definendoli "pomposi, pretenziosi,
neo-wagneriani", un mondo immaginario, sosteneva, dietro la cui bella
facciata, aveva finto per anni di vivere. Revisionista in tutto, pur di
sottrarsi alla nostalgia hyppie o all'esibizionismo tecnico sprovvisto
d'emozioni, gli restava solo il mondo "reale" per cui non fu davvero
mai attrezzato: questo disagio fu percepito dai nuovi seguaci degli anni '90. E
disagio non è termine metaforico se, mentre si pubblicavano ristampe o
antologie, Fahey viveva in motel o, peggio, nel ricovero della missione di
Salem (Oregon) quando non direttamente in auto, per evitare gli obbligatori
sermoni. Ferocemente ultras, l'ultracinquantenne Fahey futurista e noise-addict
degli anni estremi, abbandonata la steel guitar, avrebbe dispensato al nuovo
pubblico cresciuto a Nirvana la poca
saggezza d'improvvisazioni per chitarra elettrica malate di furore e riverbero.