Alberto Mingardi
cervelli rossi e destra frou frou
egemonia della sinistra, insipienza della
destra
Le polemiche sull’egemonia culturale della sinistra sono un classico d’agosto,
anche quando resta di che riempire la prima pagina, c’è un demone silenzioso
che ci porta a parlarne. Quest’anno la miccia è stata
accesa da una faccenda paradossale e dal risvolto politico impalpabile, le
lettere di Italo Calvino ad Elsa De’ Giorgi apparse sul “Corriere della Sera”. Poi è venuto
l’arrocco di “Repubblica”, e fuochi d’artificio a ripetizione sugli altri
quotidiani.
E’
stato scritto tutto e il contrario di tutto, non pretendo certo di dare un
contributo originale. Ma l’analisi più onesta mi sembra la si debba a Gad Lerner, che sul tema si è
esercitato su “Vanity Fair”. Lerner
scinde giustamente il problema in due diversi aspetti: una questione, per così
dire, “storica”, attinente soprattutto al ventennio fra il ’68 e l’89 (l’ascesa
dei “movimenti” e la caduta del muro, rispettivamente). E un’altra invece
“politica”, che rasenta il piano dell’attualità.
Nel primo caso, non
solo l’egemonia c’è stata, è stata costruita con attenzione e cura, ma non si
sono fatti prigionieri. Si contano sulle dita di una mano gli intellettuali
alieni alle suggestioni del marxismo, eppure in grado di ritagliarsi un posto
al sole. Alcuni si diedero alla macchia. Altri si rassegnarono al silenzio. Su
altri la morte bastò a stendere il velo dell’anonimato: penso al più grande dei
nostri liberali, Bruno Leoni.
Tuttavia, oggi lo
strapotere dei cervelli “rossi” all’interno di università e case editrici è più
che altro una scusa. Dietro lo spauracchio dell’egemonia, si nasconde “il
fallimento degli incapaci”.
Confrontiamoci con
alcuni dati di fatto. Il crollo del comunismo e il mesto tramonto della prima
repubblica hanno avuto il merito di accendere la luce su quanto fosse stato
falsato il dibattito intellettuale e politico nel nostro Paese. L’inevitabilità
del socialismo, in varianti più o meno annacquate, era cosa accettata da tutte
le forze in campo. Non esisteva reale “alternativa”.
Ad inizio anni Novanta
qualcosa è cambiato. Una generazione fa, gli intellettuali “non allineati”
avevano una sola arma: “il Giornale”
di Indro Montanelli. Dove però l’omogeneità interna
era scarsa e le voci portatrici di una visione “forte”, autenticamente
liberale, pochissime (Cesare Zappulli, Sergio Ricossa, Antonio Martino). Sottolineo questo dettaglio per
un motivo: una presenza culturale importante (non parliamo di egemonia) si
costruisce anzitutto su una proposta intellettuale ambiziosa. E’ il primo dei
due ingredienti necessari: il secondo è l’organizzazione. Se manca quest’ultima, non si esce dal tunnel delle “provocazioni”.
Se fa difetto la prima, si diventa un movimento con più sedie che teste.
“Il Giornale” ha avuto
il merito, immenso, di distribuire pensieri che altrimenti non sarebbero
arrivati al grosso pubblico. Ma non poteva essere lo strumento per crescere una
nuova generazione d’intellettuali, per almeno due ragioni: uno, un quotidiano
non è una scuola. L’articolo di giornale dura un giorno, mentre per costruire
una tradizione culturale servono “testi sacri”, servono cattedre, servono
maestri ed allievi. Due, Montanelli era naturalmente
portato a steccare nel coro ma senza mai uscirvi. Giocava alla fronda, non alla
ribellione.
Chiusasi quella fase,
“sdoganata” la destra, al cortocircuito dei partiti tradizionali ha fatto
seguito una maggiore apertura degli ambienti intellettuali. Questo non
significa, sia ben chiaro, che l’appartenenza sia ormai una variabile desueta,
nei concorsi a cattedra piuttosto che nei test d’ammissione al salotto buono.
Ma se prima c’era un muro, ora c’è una porticina. La “non sinistra” può contare
su organi di stampa, trasmissioni televisive, fondazioni. Fra i suoi esponenti,
alcuni pubblicano per case editrici insospettabili. E gli editori “di nicchia”
si moltiplicano.
Tuttavia, la qualità ed
il peso di questa produzione culturale sono risibili. Chi non ha gambe ha
cervello, e viceversa. L’eccellente lavoro fatto per portare strumenti
d’analisi a disposizione del lettore italiano, per esempio da Dario Antiseri e
Lorenzo Infantino che, con Rubbettino,
hanno scrupolosamente tradotto classici del calibro di Mises
e Hayek, resta confinato agli “happy few” del
microcosmo degli esperti. Viceversa, altri che hanno accesso a grancasse più
potenti sono calici vuoti, artisti dell’autopromozione,
sfarfalleggianti radiologi di cultura e società. Il
tremendo sospetto è che la “non sinistra” sia destinata a prosciugarsi nello
stile, nella frase lambiccata, nell’espressione caruccia,
poco o nulla pesando il contenuto.
Per questo non ha torto
Lerner quando scrive che l’egemonia rischia di
diventare un alibi. Buono per tacere una realtà: che gli anni del berlusconismo non hanno visto né l’emersione di talenti
significativi, né l’organizzazione sistematica di quelli che c’erano.
Piuttosto, il sostanziale deserto venutosi a creare nella prima Repubblica ha
portato il nostro politico più spregiudicato e bisognoso di sponde
intellettuali, cioè Silvio Berlusconi, a fare
shopping in campo avverso. Traghettando nel recinto del “centro destra” penne
generose e nomi robusti, ma che raramente hanno saputo passare dal puntello
intellettuale delle posizioni del capo a un’elaborazione di pensiero più generale
e seducente.
La sinistra ha certo
dalla sua una più antica attenzione alla valorizzazione di idee ed energie.
Però questo non basta a scusare l’insipienza della destra nell’andare oltre il
riciclaggio di firme e facce, o il mero dibattito storiografico, con sottintesi
anche comprensibilmente vendicativi, sulla storia d’Italia. Le fondazioni
d’area, fateci caso, sono in maggioranza “contenitori”, passerelle per le
diverse anime della CdL (corrispettivo culturale
delle correnti di partito). Quasi nessuno getta sul piatto una filosofia
politica chiara, con pregi e difetti ma sulla quale discutere nel merito
concretissimo della sua attuazione.
Per fare davvero “cultura politica” bisogna mirare alla declinazione puntuale di un pensiero, bisogna calarlo nel reale, sporcarlo di attualità. E si deve guardare oltre, coltivare con passione una generazione nuova, scommettere sul futuro. Ma obiettivi di questo tipo mal s’accordano con l’ansia di consenso, e un consenso fresco, immediato, presente, di un leader o di un partito, e pertanto sono mal visti dalla corte, fatta di mecenati di cause più remunerative e pensatori da zerbino. Anche per questo, al di là della rabbiosa contestazione di un destino cinico e baro, la destra-che-pensa non va.
“Libero”, 29 agosto 2004