Il contributo di Carlo Romano al catalogo (curato da Sandro Ricaldone, De Ferrari editore) della mostra Rolando Mignani. Tra segno e simbolo tenutasi a Genova presso il Museo di Villa Croce (1° dicembre 2010 - 23 gennaio 2011).

Carlo Romano

Mignani e l’occultismo

Credo sia bene chiarire preliminarmente che non ci sono precisi elementi documentali che testimonino un significativo rapporto di Mignani con l'occultismo. La sua opera visiva è d'altra parte costruita su un tale intreccio, vasto e complesso, di metafore, analogie e simboli da renderla propizia a interpretazioni che tengano conto di quest'elemento. Se ciò è avvenuto ormai per una certa quantità di artisti, non vuol dire che tutti fossero significativamente coinvolti in questo rapporto, per quanto l’occultismo, e tutto quel che comunemente vi si fa risalire, sia un elemento che entra a buon diritto –e non da oggi - nel generico bagaglio culturale di chiunque, vuoi per semplice curiosità, vuoi per contaminazione mediatica, vuoi per implicazione diretta.

Fra gli artisti visivi e gli uomini di lettere, non son pochi coloro che con convinzione vi si sono immersi. Rosacrucianesimo, Martinismo, Massoneria, Teosofia, Magia cerimoniale – anche in sparse vicendevoli tessiture e con apporti di vario dosaggio provenienti dall’astrologia, dall’alchimia, dallo spiritismo, dalla storia delle religioni e dall’etnologia – hanno tutti dei “bei nomi” da offrire per menar vanto. Il caso più clamoroso – tralasciando per un attimo Massoneria e Teosofia - è probabilmente quello della Magia cerimoniale, in particolare se legato alla Golden Dawn, all’Oto e ai gruppi crowelyani, nel cui ambito sono esibite diverse prestigiose figure della cultura anglosassone (Yeats, in primo luogo). Si ha in questo caso un tipo di condivisione che va oltre il puro coefficiente etico-culturale e, per la sua stessa natura, spinge l’artista a farsi in qualche modo “officiante” e, in alcuni casi, “inventore” di un “metodo”. Abili disegnatori, incisori, pittori e scrittori quali, per esempio, l’inglese Austin Osman Spare e l’australiana Rosaleen Norton – per non dire di Crowley stesso – presentavano la loro opera, spesso in polemica con le scuole ufficiali, come un corredo della magia e loro stessi come “maghi”.

Un discorso a parte sarebbe poi da fare sulle "opere medianiche (celebri quelle del torinese Rol) che in qualche occasione hanno interessato la psichiatria e sono talvolta associate a ciò che corre sotto la definizione di "art brut". Quanto all'influenza della Teosofia sulle opere visive, essa si ferma perlopiù alla rappresentazione, se così si può dire, di un clima spirituale, fino a gradi più o meno rarefatti di astrazione, come nei lavori di Mondrian, Kandinskij e Balla, per rimanere ai più celebri. Casomai è interessante rilevare che proprio sul piano dell'astrazione - nel senso più preciso di "arte astratta" - un qualche ruolo pionieristico l'hanno avuto proprio i dipinti del celebre teosofo Charles Webster Leadbeater - il quale, peraltro, ancora fanciullo ebbe modo di incontare Bulwer Lytton, uno degli scrittori che con maggiore evidenza hanno espresso nel XIX secolo i loro esoterici interessi.

Un altro contesto da tener presente - sprezzante nei confronti dell'occultismo "volgare" e visibimente più ambizioso sul piano degli studi mistici, simbologici, rituali - è quello dei pensatori che si legano all'idea di una "Tradizione" primordiale della quale ritrovano gli elementi originali, inevitabilmente compromessi, nelle diverse espressioni spirituali, religiose, sociali e perfino politiche. Fra costoro - i cui studi hanno sovente una pertinenza "iconologica" affine a quella della scuola di Aby Warburg - uno, Julius Evola, è stato fra i più importanti protagonisti dell'avanguardia artistica italiana delle origini. Il massone "pitagorico" (era un matematico di formazione) e "imperialista" Arturo Reghini, cui Evola dovette molto, ma col quale a un certo punto si scontrò, fu invece una figura caratteristica dell'ambiente letterario fiorentino, ma è difficile stabilire se e come vi ebbero influenza le sue idee. Per altro, attinenze occultistiche si reperiscono pure fra la modernolatria futurista - in Corra, Pratella e altri - e non mancano in una rivista come "l'Italia Futurista" che i suoi animatori, Carli e Settimelli, connotavano specialmente in chiave politica, oltre che artistica.

A Genova e in Liguria, il territorio da dove Rolando Mignani non si è praticamente mai mosso, l’attrattiva nei confronti dell’occulto è sempre stata assai vivace. Va segnalato, fra l’altro, che a Genova si formò uno dei primisssimi gruppi teosofici, molto attivo e a lungo. La sezione italiana della Società teosofica fu d’altronde retta per oltre un decennio, ai primi del secolo scorso, da Ottone Penzig, docente dell’Università di Genova e collaboratore di Thomas Hanbury al “giardino” della Mortola (ma anche all’Orto Botanico genovese). Fra gli artisti del tempo, una chiara ascendenza spirituale di questo genere si palesa soprattutto nelle straordinarie opere di Sexto Canegallo, amico del milanese Romolo Romani, anche lui attratto dalle medesime esperienze esoteriche. Temi e atmosfere che discendono dal simbolismo e che riflettono influenze analoghe si riscontrano in diversi artisti, da Alberto Helios Gagliardo a Giannetto Fieschi. Va ricordato in particolare Domenico Balbi – pittore, incisore, teosofo ed esoterista "militante" – al quale si deve un mazzo di tarocchi piuttosto celebre. Si può aggiungere, ma solo a titolo di curiosità, che a Firenze certi scrittori liguri (perfino Sbarbaro) ebbero occasione di conoscere il già citato Reghini.

Negli anni dell'attività artistica di Mignani si assiste a una ripresa ed espansione dell'occultismo che ricorda quella dei tempi del simbolismo e della Belle epoque. Le librerie dedicano settori più o meno ampi agli argomenti relativi e ne nascono di specializzate. Nell'antiquariato i prezzi lievitano, ma l'editoria non è mai stata così florida e piccoli editori raffinati ripropongono, qualche volta in superbe anastatiche, testi introvabili e rari. Questa situazione favorisce certamente gli artisti interessati a un piano di ricerca concettuale e/o spirituale, quando non esplicitamente esoterica, di immagini e simboli. Fra i contemporanei genovesi di Mignani si distinguono in questo senso, per citare i più noti, Claudio Costa, Piergiorgio Colombara  Carlo Merello, Luisella Carretta, Beppe Dellepiane. Quella di Mignani era tuttavia una ricerca assai particolare e rigorosa, per un verso la si sarebbe potuta dire "ortodossa" per l'uso che pretendeva fare delle sue fonti (non esitava a definire gli amici artisti "dei pasticcioni") ma senza che questo lo vedesse veramente coinvolto in altro che non fossero le sue opere, nelle quali nulla era lasciato al caso (se effettivamente esiste un' "arte concettuale", credo che nessun artista sia stato più concettuale di lui, ma sarebbe interessante confrontarlo con un altro ligure, il filosofo Emanuele Gennaro, che cercava di tradurre in pittura la metafisica).

Mignani in realtà muoveva da un'impostazione positivista - più o meno arricchita nel tempo e contaminata dalle filosofie - e tutto nelle sue opere era funzionale alla costruzione di uno spazio denotativo dove collocava scientemente ("scientificamente" andrebbe bene lo stesso) nessi concettuali e simbolici diversi ma che mantenevano il senso generato nel loro rispettivo sistema di valori, occultismo compreso. Della sua impostazione operativa è perfettamente consapevole chi ha potuto assistere a uno di quei rituali bizzarri e immodesti, ma sempre affascinanti, che era la "spiegazione" delle sue opere. Allo stesso valore di testimonianza - salvo rovistare nella sua biblioteca, tenendo però conto che alcuni libri gli alienava - è affidato il problema delle fonti, nel caso preciso di quelle occultistiche. Qui, in tema di testimonianze, ci si deve per giunta accontentare della mia, che tuttavia oso raccomandare come attendibile - anche se non ho la pretesa di crederla esauriente - per l'amicizia che mi ha legato a Mignani e per le conversazioni "libresche" che ho avuto modo di fare con lui.

Mi limito ad ogni modo a ricordare un unico libro - e non di quelli maggiormente "reputati" - poiché lo credo emblematico della disinvoltura con la quale Mignani guardava alle sue fonti, non neccessariamente quelle cooptate nella cultura "alta", e allo stesso tempo del metodo inflessibile al quale le piegava. Il libro in questione reca il titolo di AUM. Principio fondamentale” originario delle arti umane (Spiotti, Genova 1913). Gennaro D'Amato, l'autore, era un pittore napoletano vissuto a lungo in Liguria, le cui "marine" restituì attraverso elevati sentimenti figurativi. Morì novantenne a Pieve Ligure nel 1947. D'Amato fu soprattutto un bravissimo illustratore sia per riviste nazionali ("L'illustrazione Italiana") sia per riviste straniere ("L'illustration" e l' "Illustrated London News", fra le altre). Mignani si procurò il libro nell'edizione originale, prima che ne uscisse una effimera riproduzione anastatica e molto prima che se ne facesse un'edizione di maggior tiratura ma direttamente destinata alle librerie "remainders". Mignani, per mio tramite, aveva conosciuto un giovane, l'amico Bruno Bertozzi, che già era uno dei maggiori esperti di testi d'alchimia e trafficava in libri rari, prima di proporsi come reggitore di uno studio biliografico fra i più attendibili del settore, ma anche come piccolo editore che ambiva, nel suo piccolo, a proporre raffinate scelte quali andavano facendo, con altri mezzi, le edizioni Archè (presso la cui sede ci recammo fra l'altro insieme, io e Mignani, forse all'epoca della loro riproposta de Le Bestiaire du Christ di Louis Charbonneau-Lassay). La mia idea è che sia stato Bertozzi, considerando gli interessi manifestati da Mignani a consigliargli AUM e a procurarglielo.

Il libro di D'Amato è un curioso trattato filologico che ha sullo sfondo Atlantide e nel contempo è zeppo di etimologie e simboli finalizzati alla dimostrazione di un segreto principio unitario del mondo umano e dei suoi scopi ultimi. Il libro di Charles-Francois Dupuis (1742-1809) sull'origine di tutti i culti, quelli di Pernety (1716-1796), l'Atlantis del leader populista americano Ignatius Donnelly (1831-1901) e i tomi di René Adolphe Schwaller de Lubicz (1887-1061) vi si possono tranquillamente associare come congeneri. Il filone è in ogni caso, oggi più che mai, vasto e spericolato. Ciò nondimeno - a parte le verità nascoste che vi si vorrebbero rivelare - i libri di questo filone, negli esemplari meglio istruiti, hanno l'aspetto di preziosi regesti affine a quello delle opere degli autori di linguistica comparata, dei folkloristi, degli antropologi - si chiamino Max Müller, Angelo De Gubernatis o James Frazer.

Ogni ipotesi intrinsecamente misteriosofica che Mignani potesse estrarre da questo e da altri testi è da scartare. Che con le sue opere visuali, imperniate, al pari delle pratiche magiche, sull’analogia, abbia voluto costituire degli spazi negromantici è del tutto improprio, come non c’è ragione di credere che riferendosi a “principi” che si perderebbero nella notte dei tempi avesse in testa una Gerarchia originaria la cui legittimità è tramandata da sparse tradizioni che raccolgono frammenti di una autentica Tradizione. Casomai è vero il contrario, e questo vale in generale per il pensiero simbolico e religioso cui concedeva – è bene insistere su questo punto - un interesse tutt’altro che superficiale. Mignani voleva prima di tutto “scrivere” e le sue opere visuali – come del resto le sue scritture cosiddette “lineari” – rientrano a pieno titolo in quella che, a un certo momento, Ugo Carrega prese a definire “nuova scrittura” in alternativa alla più comune definizione di “poesia visiva”. Se si pensa che l’opera di D’Amato cercava di esemplificare l’origine degli alfabeti attraverso il simbolo inciso sull’anello di Salomone, si chiarisce forse meglio l’uso che Mignani intendeva fare di questo genere di fonti  e come esse si potessero congiungere ai propri lavori (le quali fonti, beninteso, non erano le uniche). Ciò malgrado, senza le sue dirette “letture”, è difficile oggi risalire alle sue intenzioni, al significato preciso che attribuiva ad ogni elemento che collocava nelle sue opere, e tutto è rimandato a letture iconologiche che non mancheranno sicuramente di stupire per la ricchezza. Sarebbe la stessa operazione che lui in prima persona svolgeva, nei modi avventurosi e allo stesso tempo risoluti che gli erano tipici, con le opere dell’amato (e non esente da esoteriche contaminazioni) E. E. Cummings. Comunque sia, benché estranee a sotterfugi scenografici e al grande formato, le sue restano opere di grande impatto visivo dalle quali promana un pathos poetico raro e un senso di intelligenza per niente stravagante.