Il seguente articolo di Michel David – italianista, Professore Emerito dell’Università di Grenoble – fu pubblicato da “Le monde” il 15 febbraio del 1969. Si tratta di un testo che, pur nella sua brevità giornalistica, ebbe una certa importanza e che giocoforza si intreccia con uno degli interessi più cospicui dell’autore in merito alla letteratura italiana, quel Gian Dàuli del quale fu il lontano artefice della riscoperta e al quale, nel 1989, dedicò una fondamentale monografia (Banca Popolare Vicentina – Scheiwiller editore). Della prima traduzione italiana di Céline, David si occupò anche in un vasto saggio pubblicato dalla rivista “Opera aperta” di Roma sul n.8-9 del 1967 (da questo saggio abbiamo ricavato il profilo di Alex Alexis pubblicato su questa stessa circolare).                  

Michel David

note sulla fortuna di Céline in Italia

 

La prima traduzione di Céline in Italia, quella del Voyage, risale al 1933 ed è dovuta a due personaggi pittoreschi, in qualche modo céliniani, il romanziere-editore-traduttore Gian Dauli e il pubblicista Luigi Alessio. Certi lettori francesi si ricorderanno del primo, forse, come dell’autore di un libro già notato in Francia verso il 1938 e che il Club du Livre ha oggi rilanciato (La Roue, 1961). Dauli arrivò a pubblicare questo romanzo, eccitante per l’Italia dell’epoca, quando lesse il Voyage: riconobbe paradossalmente nel suo autore un discepolo di Zola e di Proust, così da decidere di pubblicarlo nella collana che dirigeva a Milano per l’editore Dall’Oglio – nella quale, dopo aver lanciato Wilder e Bernanos, si apprestava a far conoscere La montagna incantata di Mann. La traduzione fu affidata al piemontese Alessio, il quale, emigrato a Parigi, viveva di espedienti letterari nell’indigenza della bohème firmando i suoi libri come Alexis Alexis. Egli doveva avere sì qualche conoscenza del gergo locale (“langue verte”) ma non doveva essere troppo netta, e volse dunque come poteva la lingua céliniana in italiano utilizzando una miscela di toscano popolare o arcaico e varie locuzioni del dialetto piemontese o, più in generale, dell’Italia settentrionale. Quanto alla sintassi, guardando più alla flessibilità che all’accademia, Alexis ebbe buon gioco a calcare sull’originale, per quanto una buona parte di ciò che fece lo scandalo stilistico di Céline andasse perduto. Non fu dunque una grande traduzione.

Céline dovette d’altra parte attendere una trentina d’anni per conoscere in Italia una fortuna sulla misura della sua importanza. Non era di certo sconosciuto, ma il suo nome incontrò svariati ostacoli prima di essere uno di quelli che s’impongono. Il Voyage – che avrebbe dovuto beneficiare dell’oltraggiosa esclusione dal Goncourt del 1932 – si rivelò un libro ambiguo agli occhi della cultura fascista. La rappresentazione disperata d’una Francia pietosa, d’un colonialismo ridicolo, avrebbe potuto certamente essere utilizzata dalla propaganda del regime come un’arma contro le democrazie decadenti. Ma l’aspetto pornografico, trasandato, “immorale” del romanzo lo segnalarono agli occhi di censori più attenti all’immediato pericolo della depravazione e del cattivo esempio che all’indiretta lezione politica che ne potevano trarre. Céline passava inoltre per comunista. La ninfa Egeria del regime, Margherita Sarfatti, indirizzò a “La stampa” un attacco contro il direttore de “la fiera letteraria” colpevole di aver pubblicato un articolo su Céline, autore del quale era Glauco Natoli – che poi avrebbe insegnato a lungo l’italiano alla Sorbonne. In realtà, Natoli aveva energicamente analizzato la qualità letteraria del romanzo, che qualificava come un “grande libro”, ma ne aveva anche preso le distanze davanti al “peso morto d’un programma oscurantista” che  proprio allora Céline formulava  in un’importante lettera a Liana Ferri - un’intellettuale romana - ma che si poteva oltremodo intravedere nel romanzo ad una lettura puntuale. A parte queste scaramuccie – o magari in forza di esse – l’accoglienza fatta al Voyage fu, su giornali e riviste, delle più discrete.

Ci si interesserà nuovamente a Céline, per un motivo assai differente, nel momento della campagna antisemita lanciata dal fascismo nel 1938. A quel punto i suoi famosi libelli furono tradotti e contribuirono non poco, prima ancora che il regime cadesse, a far precipitare la fama dello scrittore nel biasimo. Non si deve però credere che la fortuna italiana di Céline non si sia risollevata da una così grave caduta. Per lo stesso fenomeno di aggiustamento critico che si è prodotto in Francia, il romanziere Céline ha avuto in Italia – come nel resto del mondo occidentale -  l’opportunità di essere collocato, malgrado il ricordo della sua follia antisemita - agli alti livelli della letteratura. E’ così che Mort à crédit, perlopiù sconosciuto alla maggioranza degli intellettuali italiani, fu tradotto nel 1964 da un poeta di qualità, Giorgio Caproni, in una versione decisamente superiore a quella del Voyage di Alessio, ottenendo un vivo successo. C’è pure stata recentemente una traduzione (cattiva) di L’eglise, per giunta adattata in uno spettacolo che è incorso nelle maglie della censura. Un numero speciale de “Il Verri”, rivista dell’avanguardia, è stato consacrato a Céline sul modello di quello de “L’Herne” (n° 26, 1967). Sarebbe ancora più opportuno, per misurare l’influenza attuale dello scrittore, se si procedesse in qualche analisi stilistica della prosa, per esempio,  d’un Sanguineti. Ci si renderebbe conto che il “recupero” di Céline è più profondo della semplice curiosità.