“Principe del romanticismo abbattuto dal materialismo in mezzo alle sue perle e ai suoi velluti. Questa l’immagine che ce ne dà Hugo von Hofmannsthal” (Philippe Julian: Oscar Wilde. Castelvecchi, 2014)

Hugo von Hofmannsthal

Sebastian Melmoth (1905)

Questo nome era la maschera con cui Oscar Wilde copriva il volto distrutto dalla prigione e dai segni della morte che si avvicinava per vivere ancora pochi anni nell'ombra. Il destino di quest'uomo stava nei tre nomi portati in successione: Oscar Wilde, C.3.3., Sebastian Melmoth. La sonorità del primo, tutto splendore, orgoglio, seduzione. Il secondo, terribile, uno di quei segni che la società imprime con ferro rovente sulla spalla nuda di un uomo. Il terzo, il nome di un fantasma, di un personaggio balzachiano quasi dimenticato. Tre maschere successive: la prima con fronte superba, labbra voluttuose, magnifici occhi umidi e insolenti: una maschera di Bacco; la seconda una maschera di ferro con orbite da cui traspare la disperazione; la terza un misero domino preso in affitto per nascondere agli sguardi una lunga agonia. Oscar Wilde brillava, rapiva, feriva, seduceva, tradiva e venne tradito, spezzava i cuori ed ebbe il cuore spezzato. Oscar Wilde ha scritto Sul declino della menzogna, Il ventaglio di Lady Windermere, Salomé. C.3.3. ha sofferto. C.3.3. ha scritto La ballata del carcere di Reading e quella famosa lettera dal carcere di Reading nota come De Profundis. Sebastian Melmoth non ha scritto più niente, si trascinò per le strade di Parigi, morì e fu sepolto.

Ed ora Sebastian Melmoth, dietro la cui povera bara erano in cinque, è piuttosto celebre. Adesso tutto quanto ha vissuto, fatto e sofferto è sulle labbra di chiunque. Adesso tutti sanno che, chiuso in una specie di conigliera, con delicate dita sanguinanti doveva sfilare vecchie funi di navi per farne stoppia. Su tutte le bocche corre il racconto dell'orribile bagno in cui doveva entrare, quell'acqua sporca in cui i detenuti a turno dovevano immergersi e Oscar Wilde da ultimo perché era l'ultimo della fila. “Oscar Wilde” disse con labbra immobili qualcuno dietro di lui, mentre venivano condotti nel cortile della prigione “Oscar Wilde, comprendo che lei soffra più di tutti noi”. Anche queste parole, mormorate appena da qualche galeotto alle sue spalle, sono oggi molto note. Sono un dettaglio di una leggenda magnifica, come sempre accade qualcosa di magnifico ogni volta che la vita si incarichi di trattare poeticamente un destino.

Ma si esclama: “Che trasformazione !” Si dice: “Il primo Oscar Wilde, e il secondo Oscar Wilde”. Si parla di un esteta, da cui è nato un uomo nuovo, un credente, anzi un Cristiano. Si è presa l'abitudine di dire certe cose a proposito di certi romantici e le ripetiamo troppo volentieri. Non si dovrebbe ripeterle. Innanzitutto perché probabilmente già la prima volta non erano proprio giuste, e secondariamente perché i tempi cambiano e non ha senso fare come se le cose si ripetessero, quando in realtà avvengono cose sempre nuove, infinitamente differenti, infinitamente degne di nota. Non ha senso parlare come se il destino e la natura di Oscar Wilde fossero stati indipendenti l'uno dall'altra, e come se il destino lo avesse aggredito al modo di un botolo mordace lanciato su di un innocente contadinello che porta un cestino d'uova sulla testa. Non si dovrebbero dire e pensare sempre inezie tanto enormi.

Essere e destino di Oscar Wilde sono tutt'uno. Egli andava verso la propria perdita con il passo d'Edipo, il cieco veggente. L'esteta era tragico. Il dandy era tragico. Tendeva le mani verso il cielo per attrarre il fulmine su di sé. Si dice: “Era un esteta, poi gli capitarono infelici complicazioni, in cui fu preso come in una rete”. Non bisognerebbe ricoprire ogni cosa con delle parole. Un esteta ! Con questa parola non diciamo nulla. Walter Pater era un esteta, un uomo che viveva solo per assaporare la bellezza e ricrearla, ed era di fronte alla vita pieno di ritegno e pudore, disciplinato. Un esteta è, per natura, di una moralità assoluta. Ma Oscar Wilde era tutto sfrenato, tragicamente sfrenato. Il suo estetismo era una sorta di convulsione. Le pietre preziose, in cui si compiaceva di frugare, erano come gli occhi spalancati di un morto, irrigiditi per l'orrore di una vita insopportabile. Egli avvertiva in permanenza sopra di sé la minaccia della vita. L'assaliva ripetutamente un tragico spavento. Senza posa sfidava la vita. Insultava la realtà. E sentiva la vita, nascosta nel buio, pronta ad assalirlo.

Si ripete: “Wilde enunciava paradossi pieni di spirito, le duchesse pendevano dalle sue labbra, le sue dita sfogliavano un'orchidea, e le punte dei suoi piedi affondavano in antichi cuscini di seta, ma poi lo colse la sventura ed allora venne spinto verso un bagno da cui, prima di lui, erano usciti dieci detenuti”. Non si deve però banalizzare la vita in tal modo, non bisogna ricondurre tutto ad una sorta d' incidente sfortunato. Le parole meravigliosamente levigate, le frasi mondane fino alla vertigine e ciniche fino alla tortura che cadevano da quelle belle labbra  arcuate, seducenti e insolenti, non le pronunciava nel più profondo per l'orecchio delle belle duchesse, ma per l'orecchio di un'Invisibile, che l'attraeva con spavento, come la Sfinge cui pensava continuamente, mentre incessantemente la negava, e il cui nome, “Realtà”, pronunciava solo per deriderlo ed umiliarlo. E le sue membra che sfogliavano orchidee e si stiravano su cuscini di seta antica erano, nel profondo, morbosamente attratte da quel bagno terribile davanti a cui per la nausea si contraevano quando ne venivano davvero schizzate.

Perciò dev'esser stato sconvolgente incontrare Oscar Wilde in un preciso momento della sua vita. Intendo il momento in cui lui, su cui nessuno se non il proprio destino aveva potere, ignorando le suppliche degli amici e riprendendo a spaventare i nemici, ritornò ed accusò il Queensberry. Perché allora la maschera di Bacco, dalle labbra ben arcuate e formose, ha dovuto trasformarsi in maniera indimenticabile nella maschera di Edipo, cieco veggente, o del furioso Aiace. In quel momento deve aver portato intorno alla bella fronte, visibile come poche, la benda del destino tragico.

Non si deve render la vita più insipida di quanto non sia, e distogliere gli occhi per non vedere quella benda la volta che una fronte se ne è cinta.

Non bisogna banalizzare la vita strappando l'essere dal destino e la fortuna dalla sfortuna. Non bisogna separare tutto. Tutto è dappertutto. C'è del tragico nelle cose superficiali e della stupidità in quelle tragiche. C'è qualcosa che inquieta e soffoca in ciò che chiamiamo piacere. C'è qualcosa di poetico nei vestiti delle cocotte, qualcosa di grettamente borghese nelle emozioni dei lirici. C'è di tutto, all'interno dell'uomo. Ci sono tanti veleni che imperversano l'uno contro l'altro. Ci sono, in certe isole, selvaggi che piantano le frecce nel corpo dei parenti morti affinché il veleno uccida infallibilmente. Questo è un modo geniale per esprimere metaforicamente un pensiero profondo e mostrare senza ambiguità di aver compreso il significato profondo della natura. Poiché davvero i veleni che uccidono lentamente e gli elisir delle beatitudini, assaporati dolcemente,  insieme sono tutti presenti nel nostro corpo vivente. Non si può escludere nulla, né nulla trascurare ritenendo che non abbia una grande influenza. Non c'è, considerata nella prospettiva della vita, nessuna cosa che  sia come un punto fermo. Tutto è dappertutto. Tutto partecipa alla danza.

Parola mirabile di Jalāl al-Dīn Rūmī,  più profonda di tutte: “Chi conosca  la forza della ronda, non teme la morte. Perché sa che amore uccide”.

“Fogli di Via”, robivecchi, novembre 2015