Danila Boggiano

la pura superficie di Guido Mazzoni

Mi pare che il senso di un certo mio apprezzamento per il libro La pura superficie (Donzelli, 2017) di Guido Mazzoni vada colto nella consapevolezza della possibilità, mia e del lettore, di andare oltre quel mondo disperante e opaco che egli, quasi con crudele compiacimento, abita e da cui si fa abitare, senza nulla concedere alla tenerezza e alla compassione nei confronti dei modi in cui quel mondo si declina.

Così colgo l'opportunità della scelta dei due esergo kafkiani che aprono il libro benché, pur corrispondendo all'intenzionalità dell'autore, quasi una dichiarazione di poetica, escludano, perché scagliati nudi e freddi sulla pagina, quanto in Kafka vi è di vibratile e di straordinario. E certamente le strade che Mazzoni traccia sono ben distanti da quelle splendide di pioggia di Praga, nel suo paesaggio non vi sono sorprese di ponti né ricerche ansiose di luce dentro labirinti, ma il suo percorso avviene lungo linee piatte, banali che appena distolgono da sé il viandante portandolo, quasi per inerzia, dentro i luoghi burocratici del posto di lavoro, dei mezzi di trasporto, commensale di convivi che assolutamente nulla hanno di platonico, o ancora all'interno di stanze dove il sesso è solo squallida malinconica narcisistica fisiologia.

Manca il Tempo interiore, in questo libro, e anche quando lo sguardo coglie cose drammaticamente accadute nel passato, o rivisitate nel sogno, non ci restituisce nessun contrappunto, tutto come cristallizzato, formalizzato, in un eterno presente, ma senza l'ancora del qui e adesso e senza nessun conforto di epifanie.

E il desiderio manca, e il dolore, nome altro di amore, che il desiderio implica.

Mi domando allora perché evocare Stevens, con le sue cattedrali d'aria e di luce.  Per puntellare forse con lucenti, eleganti frammenti le rovine di cui il suo mondo-sguardo è disseminato? Neppure di questo mi pare si tratti, perché La pura superficie non offre alcuna ipotesi di Cielo — e sì, penso a Platone — da cui trarre Bellezza, sulla superficie di Mazzoni non c'è vita, oro, essere, volontà, destino, umana capacità, nessun fiume altro, nessuna Roma altra, nessun "sole nel ventre", nessuna strada tra la casa e il lavoro da percorrere felicemente ogni giorno, dentro la gaiezza dello scorrere, nessun gioco tra acqua e sponda, tra la stanza chiusa e il suo segreto.

Ecco, alla soglia della stanza resta Mazzoni, non entra, non ha lampade da accendere, perché ciò che ha visto, e vede, gli basta,  ha negato in sé ogni sillaba, ogni possibilità di suono, insieme a quella di reinventare, sacralizzare, riscrivendolo, il mondo.

Così forse Stevens il mago potrebbe rappresentare una sua aspirazione, la nostalgia per un linguaggio altro, al di là delle cose eppure tutto dalle stesse scaturito — come non ricordare " la musichetta delle erbe sonnacchiose" — la "lingua madre" con cui "calmare il nostro respiro", cantare le promesse mantenute dei mattini e delle sere e fare in modo che "noi, anche dentro un uovo, facciamo che variazioni sulle parole spieghino le vele".