le voci che corrono
Armistead Maupin*
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Armistead Maupin, I racconti di San Francisco, Rizzoli, Milano 2002
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Armistead Maupin, Una voce nelle notte, Rizzoli, Milano 2001
Gay &
the city
Segnatevi questo strano nome: Armistead Maupin. Non è uno pseudonimo, anche se fa pensare alla Mademoiselle Maupin di Théophile Gautier, splendido
personaggio transgender della letteratura classica, e
anche se Armistead Maupin è
l'anagramma della frase "Is a Man I Dreamt About", "È un
uomo che ho sognato". No, sono le generalità di uno scrittore americano
che Christopher Isherwood
ha paragonato a Charles Dickens.
Un Dickens che parla della S. Francisco alternativa
anni '70, senza orfanelli ma con molti ricchi pubblicitari e signore-bene da
garden party, il Dickens di una città tutta saune e
discoteche estreme, dove si rimorchia nelle lavanderie a gettoni e nei
supermarket. Quello di Maupin è un mondo pieno di gay
che sanno di esserlo e di eterosessuali che sanno di non esserlo, su cui
vigilano vecchiette che coltivano marijuana sul balcone e dove per le ragazze etero il motto è: “Se una donna fa colpo in questa città, allora
sì che è un vero trionfo!”. Il primo volume della trilogia Tales of
the City di Armistead Maupin
arriva in libreria a settembre, pubblicato da Rizzoli
col titolo I racconti di San Francisco. E a partire dal 30 del mese, tutti
i lunedì in seconda serata, la satellitare Gay Tv manderà in onda la prima
delle tre serie di telefilm tratte da questi libri, che sono già state un
grande successo in Inghilterra e negli Stati Uniti. Tra gli interpreti, Olympia
Dukakis e Laura Linney, ma
nel corso del tempo ci sono stati anche dei "camei"
importanti, come quelli di Rod Steiger
e Ian McKellen. Perché Tales of the City (con i successivi More Tales of the City e Further Tales of the City) è un fenomeno che dura da
ventisei anni. Maupin iniziò a scriverli come rubrica
per il quotidiano “San Francisco Chronicle” nel 1976.
Diventarono subito popolarissimi, perché era la prima volta che qualcuno
trasformava le abitudini sessuali di una città nel centro nevralgico (e spesso
molto umoristico) di un racconto, a metà tra fiction e inchiesta di costume.
Senza descrizioni choc o intenzioni scandalistiche e con un messaggio molto
chiaro: invitare tutti alla tolleranza sessuale, che si abbia voglia di
sperimentare la diversità o no. Cose che nella San
Francisco peace and love di metà anni '70 sembrano
possibili, alla portata di tutti. Lo sono per Mary-Ann
Singleton, incantevole protagonista della serie, una
ragazza di Cleveland che ha deciso di liberarsi dai moralismi e di stare in
questa Sodoma e Gomorra
all'apparenza degenerata, in realtà piena di buoni sentimenti, piacevole da
vivere, almeno quant'è orecchiabile California
Dreamin' dei Mamas
and Papas. Lo sono per Anna Madrigal,
che ha i capelli bianchi ma il cuore pieno d'amore, per lo squattrinato gay Michael e per il ricco etero
(siamo sicuri?) Beauchamp. A questa San Francisco, post-hippie e pre-Aids, l'autore
dei Tales deve tutto, compreso il coraggio di fare il
suo "coming out". Nato a Washington nel
1944, ma cresciuto in North Carolina, Maupin fa il soldato in Vietnam e dopo la guerra ci
ritorna, nel Sud Est Asiatico, come volontario, per occuparsi dei disabili vietnamiti.
Nel frattempo, lavora come giornalista per un quotidiano di Charleston. A San
Francisco si trasferisce nel 1971. Appena Tales of
the City diventa un “caso”, Maupin rielabora
i vari episodi e ne fa un romanzo, uscito nel '78. La prima serie tv (prodotta
dall'inglese Channel 4) è del '93, la seconda del
'98, la terza del 2001: in totale 18 film di un'ora ciascuno tutti presto in
onda da Gay tv. Il fenomeno multimediale ha una genesi molto simile a quella di
Sex
& City, telefilm nato dalla column omonima
di Candace Bushnell sul “New
York Observer”, ma le svergognate ragazze
newyorchesi di fine anni '90, arrivate negli Usa alla sesta stagione tv, sono
alle prese con pappe e pannolini. Peggio di Bridget Jones. Così, nei ben più “antichi” racconti di Maupin l'omosessualità appare soft, davvero
"gaia", descritta come solo uno dei volti possibili dell'amore
universale. Che sia l'effetto vintage?
Paola Jacobbi , “D” – “La repubblica”
31/08/02
§
Una voce
nella notte
Conduttore di un programma telefonico di culto, scrittore in crisi
creativa, cinquantenne omosessuale da poco separato dal compagno con cui ha
vissuto da 10 anni e che ancora ama, Gabriel si muove, sullo sfondo di una San
Francisco ricca di fascino, ma percorsa da una sottile malinconia, tra amici
(quasi tutti malati di Aids), libri, un cane vecchio e coccolatissimo,
editori a caccia del romanzo che lui non riesce a concludere.
Uno stimolo inatteso arriva quando il protagonista entra in contatto
telefonico con l'adolescente Pete, autore di un libro
di memorie che sconvolge Gabriel: vittima fin dall'infanzia di un gruppo di
pedofili il ragazzino ha saputo, con le sue sole forze, allontanarsi da quell'inferno e raccontare quindi la sua esperienza con
sorprendente maturità creativa.
Tra lo scrittore adulto, in fase di doloroso bilancio esistenziale, e
il ragazzino, ora al sicuro ma segnato dalle drammatiche esperienze del
passato, nasce, nel corso di lunghe telefonate, un rapporto di telefonate
intenso, tenero, paterno. Ma quando Gabriel decide di incontrare il suo nuovo
amico, un evento inatteso ridisegna rapporti che sembravano consolidati, mentre
il protagonista, e il lettore con lui, arriva a dubitare dell'esistenza stessa
di Pete.
Il romanzo di sentimenti scivola allora in una storia venata di suspence, dove verità e illusione si confondono e una
sottile ambiguità avvolge l'intera vicenda.
In bilico tra tenerezza e ironia, tra riferimenti autobiografici e
felicità di invenzione, questo romanzo conferma la qualità di un autore dotato
di un talento narrativo che Christopher Isherwood aveva paragonato, fin dal libro d'esordio, a
quello di Charles Dickens.
“Circomassimo”,
circolo arcigay+arcilesbica
§
I
racconti di San Francisco, Post Scriptum
Quando un romanzo sopravvive per vent'anni,
praticamente acquisisce vita propria. Se ne va in giro per il mondo senza
degnarsi di scrivere neanche una cartolina al suo genitore sconcertato che dai
rendiconti dei diritti d'autore può farsi una vaga idea dei suoi vagabondaggi,
ma non scoprire quei dettagli personali che desidererebbe tanto sapere sulla
propria creatura. Ecco perché mi piacciono tanto le storie che i lettori si
scambiano sui Racconti di San Francisco; trovo molto gratificanti le prove
aneddotiche dei viaggi del mio primogenito.
Mi hanno raccontato, per esempio, che in uno zoo tedesco c'è un
elefante africano a cui uno dei custodi, innamorato di Michael
Tolliver, ha dato nome Mouse. (Non ho mai incontrato
questo elefante, ma ho visto le sue foto, e quindi considero anche lui parte
della famiglia.) Ho saputo inoltre che c'è una strada a Londra che è stata
recentemente dedicata ad Anna Madrigal, in onore
della proprietaria del numero 28 di Barbary Lane. E
non più tardi della settimana scorsa ho scoperto l'esistenza di una Madrigal House a Brooklyn,
ennesimo tributo alla stessa signora, ma questa volta sotto forma di centro di
accoglienza per giovani gay e lesbiche.
A San Francisco la maratona annuale dei cani a favore della Cancer Society si chiama "Tails
of the City". E i miei ex vicini di Russian Hill mi dicono che ci sono sempre più turisti che si
aggirano nel quartiere alla ricerca della casa di Anna. Alcuni sono addirittura
armati di guide nelle quali Macondray Lane viene definita
la "strada cui si ritiene si sia ispirato Armistead
Maupin per la sua Barbary
Lane". (Mi diverte moltissimo il "si ritiene", quasi si
trattasse di una voce non confermata riguardo a un autore che ha abbandonato da
tempo questi lidi, portando con sé i suoi segreti.) Per la cronaca, le guide
hanno ragione, ma non aspettatevi di trovare il numero 28; la casa della serie
televisiva pbs è esistita soltanto all'interno di uno
studio di Hollywood.
Quando nel lontano 1976 iniziai a scrivere I racconti di San Francisco
speravo, al massimo, in un successo a livello locale. La consideravo una sorta
di elaborata parodia per pochi intimi sulla vita così come veniva vissuta a San
Francisco e da nessun'altra parte. Più giro il mondo,
invece, più mi rendo conto di quanto sbagliassi. A Edimburgo, ad Auckland o a
Helsinki i lettori vengono a chiedermi l'autografo accompagnati da membri delle
loro famiglie allargate, che spesso mi presentano facendo riferimento alle loro
controparti nei Racconti di San Francisco. “Questo è il mio Brian" dicono “e
questa è la nostra Mona. E quella signora con il cappello è la nostra Anna Madrigal”. I miei personaggi made
in San Francisco possono ricomparire tranquillamente ovunque.
Alcuni lettori parlano dei Racconti di San Francisco come se
fosse un album di famiglia, un testo da consultare in occasione di anniversari,
malattie o lutti. (Una donna mi lasciò a bocca aperta raccontandomi che aveva
seppellito il fratello con una copia del romanzo.) Altri mi confidano che I
racconti di San Francisco hanno avuto un ruolo nella loro vita
sentimentale - che l'hanno ricevuto da un corteggiatore, per esempio, oppure
che amano leggerlo a letto con il proprio partner, o che lo hanno perso in una
separazione tempestosa. Il mio libro è diventato un mezzo per scoprire spiriti
affini, dare forma ai propri sentimenti e riconoscere il valore delle proprie
tradizioni. So di non essere l'unico scrittore che si è sentito dire cose del
genere, ma nulla, nella mia esperienza, mi aveva preparato alla soddisfazione
di avere instaurato un legame così intimo con i miei lettori. A proposito di
lettori, ho imparato a non generalizzare. Quando uscì la prima edizione dei Racconti
di San Francisco, il suo pubblico era costituito per la maggior parte
da gay. Poi, poco alla volta, il romanzo si è costruito un seguito di
appassionati la cui composizione riflette le caratteristiche demografiche del
microcosmo descritto nelle sue pagine, scavalcando limiti di età, razza, genere
e orientamento sessuale. ("Che lei ci creda o no, a mia madre è piaciuto
da morire" mi sento dire spesso.) Il tipico fan dei Racconti di San Francisco
è semplicemente una persona felice di essere se stessa - comunque essa sia - e
di lasciare che gli altri si esprimano altrettanto liberamente.
Ecco perché rimango un po' male quando i librai relegano I
racconti di San Francisco e i volumi successivi nel reparto della
letteratura gay. Non mi fraintendete; sono orgoglioso di essermi apertamente
dichiarato gay più di vent'anni fa - e sono
consapevole dell'impatto che la mia omosessualità ha avuto sul mio lavoro - ma
i miei libri sono sempre stati rivolti a tutti. Desidero che il messaggio dei Racconti
di San Francisco raggiunga il pubblico più vasto possibile: adolescenti
e nonni, e tutte le persone che credono di non aver mai conosciuto un gay.
Accontentarsi di qualcosa di meno sarebbe tradire lo spirito di gioiosa
accettazione della differenza che è il bello della vita in Barbary
Lane.
Armistead Maupin
13 febbraio 1996
San Francisco
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Armistead Maupin è nato a Washington nel 1944 e vive dagli anni
settanta a San Francisco. E’ quel tale che raccontò al mondo che Rock Hudson era
una checca.