Caterina Ricciardi
Marilynne Robinson,
ritorno a Gilead
Quando
Lila entra in una chiesa della cittadina di Gilead,
in Iowa, per ripararsi dalla pioggia, il vecchio
pastore, John Ames, interrompe l’omelia, la guarda e,
come riconoscendo il compimento di un disegno misterioso, benedice il nome del
Signore. Dopo qualche tempo egli sposa quella donna giovane venuta dal nulla e
da lei avrà un figlio. Questa è in breve la storia raccontata da Marilynne Robinson in Gilead (2004), premio Pulitzer
per la narrativa, consistente di una lettera-testamento che, a pochi anni di
distanza dal matrimonio, il reverendo, ormai giunto sulla soglia della morte,
decide di destinare al figlio, affinché nella vita sia guidato alla comprensione
e osservanza dei valori della fede cristiana. Tuttavia, quasi nulla ci viene
detto di Lila, della quale si occulta persino il nome.
Nel
ruolo di moglie e madre, taciturna ma apparentemente integrata nella comunità,
essa riaffiora a sprazzi in Casa, il
secondo romanzo di quella che nel 2008 si va costituendo come una trilogia
sulla fede: e sulle opere che la fede può concretamente assumersi di compiere.
Fanno da sfondo gli Stati Uniti degli anni ’50 (anni molto simili ai nostri,
dichiara Robinson in un’intervista), agitati in sordina da tensioni culturali
(segregazionismo, matrimonio interraziale, crisi della famiglia, accettazione
dell’altro: l’afroamericano, il diseredato), che sembrano sollecitare nuove
risposte da un Cristianesimo (e da un Dio) da sempre chiamato a fianco della
visionaria missione americana a sostegno della dignità dell’uomo. (Lo ricorda
anche Obama in una recente conversazione con Robinson, quando le chiede del
rapporto tra religione e democrazia.)
Nella
sua riflessione su un Cristianesimo meno fondamentalista, Robinson procede per exempla
tipologici, alla maniera dei Puritani delle origini della nazione. Se in Gilead il motivo
centrale pare essere quello della tarda paternità di Abramo (la fede nel padre
Dio di contro alla crisi del padre o della legge), in Casa ella pone il problema della salvezza di Jack Boughton, il figlio reprobo di un collega di John Ames, tornato a casa dopo anni di autoesilio,
per ottenere – da “figliol prodigo” – il perdono che il padre, arroccato sui
sistemi di una rigida etica veterotestamentaria, non riuscirà a concedere.
Cos’è
per un ministro della Chiesa protestante l’amore paterno di contro
all’inviolabilità del giudizio di un Dio severo? È possibile la redenzione di
un’anima caduta? Come accettare il principio della predestinata santità o
perversione dell’uomo? E come provvedere a chi resta escluso? Robinson scuote i
cardini del Calvinismo ortodosso. Sulla scorta di una lettura revisionista di
Calvino (una novità coraggiosa in America), in questo suo progetto dottrinale
ella si cimenta con le sfide poste oggi – in tempi di crisi e di movimenti di
popoli – dalla e alla conduzione di una vita cristiana in rapporto alle
implicazioni teologiche relative alla salvezza dell’uomo, la grazia, il
riconoscimento dello straniero, l’amore (l’agape
necessario al consorzio umano) e l’amore di Dio verso le sue creature, tutte le
sue creature, inclusi i reietti, o la misteriosa Lila e Jack Boughton, l’unico che in Gilead ne sussurra una sola volta
il nome.
Forse
per dar corpo al muto enigma che ella rappresenta nei due romanzi precedenti e
investirla di significato didascalico, Robinson ha pensato di dedicarle Lila (traduzione di Eva Kampmann, Einaudi, pp. 273), un’aggiunta alla saga, in cui
si racconta la stessa storia di Gilead dal punto di vista non di John Ames
ma di lei, la donna che diventerà sua moglie.
Chi
è Lila? Una peccatrice, un’opportunista, una vagabonda che riconosce solo la
strada come sua vera casa? Sembra di sì. Ma ciò che essa rappresenta – ed è in
effetti nella sua funzione dottrinale – viene svelato sin dalle prime pagine
del romanzo, e per via analogica, tramite un’ardita parabola tratta da
Ezechiele sulla caduta di Gerusalemme e il suo ritorno nel regno messianico per
volontà della misericordia divina (16.3-6). La retorica accesa del passo è
ampia abbastanza per includere altre, e più umili, figure di “caduta”, o di
esilio, di abbandono e sofferenza. La stessa Lila vi trova una versione
convincente della propria storia: “Quanto alla tua nascita” dice Ezechiele “il
giorno che nascesti l’ombelico non ti fu tagliato, non fosti lavata con acqua
per nettarti, non fosti sfregata con sale, né fosti fasciata. Nessuno ebbe
sguardi di pietà per te, per farti una sola di queste cose, avendo compassione
di te, ma fosti gettata nell’aperta campagna, il giorno che nascesti, per il
disprezzo che si aveva di te. E io ti passai accanto, vidi che ti dibattevi nel
tuo sangue, e ti dissi: ‘Vivi, tu che sei nel tuo sangue’”.
Il
passo, che riecheggia contrappuntisticamente nel
corso di tutto il romanzo, dischiude il miracolo di una vita salvata. La
bambina che poi si chiamerà Lila viene raccolta sull’uscio di una casa da Doll, una donna dal volto sfigurato, che la lava, la nutre,
la veste (la “fascia”), la sottrae alla morte, impara ad amarla e se ne prende
cura durante gli anni di erranza sulle strade polverose dei braccianti senza
lavoro della Grande Depressione. Fino a quando, rimasta sola, Lila approda in
un bordello di St. Louis, e poi, infine, negli anni ’50, giunge per caso a Gilead.
A
Gilead, dice la Bibbia, c’è un balsamo che risana le
ferite. Non sarà dunque per scarso interessamento divino che quest’anima
perduta entra in quella chiesa, dove la sua storia è destinata a ricominciare
dall’inizio, proprio quando, nel giorno della Pentecoste, il reverendo Ames, che sta predicando, tace e la guarda come per dire in
silenzio: “Vivi”. L’accoglierà, la laverà con il battesimo, le offrirà lavoro e
amicizia, le procurerà degli abiti, dunque la vestirà, secondo un gesto che
nell’esegesi biblica ha il significato di “prendere come sposa”. La parabola si
traduce in vita vissuta, e l’unione matrimoniale che in Gilead appariva inspiegabile – e
tacitamente sconveniente agli occhi della comunità – trova in Lila la sua ragione teologica.
Ma
la vicenda ha anche una sua precisa consistenza storica, e Robinson si prende
cura di questo obiettivo con un’attenzione fin troppo dettagliata. Al punto da
poter dire che una bambina “gettata via” nella campagna (una bocca in meno da
sfamare) è un’immagine assai rispecchiante la tragedia della Depressione,
ricostruita in flashback dalla protagonista con un realismo che supera il
pathos di Steinbeck in Furore, anche
nelle implicazioni simboliche – notoriamente bibliche – che ad essa si sono
attribuite. Resta viva la domanda: perché Dio permette la sofferenza? Difficile
per il reverendo trovare le risposte al mistero del disegno divino. Può
consolare – in segno di obbediente rassegnazione – il suo citare un Calvino
addolcito: “le persone devono soffrire per saper riconoscere la grazia quando
arriva”.
L’amore, ha sostenuto Robinson in un’intervista, è una
manifestazione della “grazia”. È così per John Ames.
Quanto a Lila, attraverso la memoria catartica della sofferenza, ella impara
lentamente a riconoscere le diverse forme di amore e a trasformare la sua
relazione con l’anziano reverendo in una “storia d’amore” tutta umana, spoglia
di ogni allegoria, e senza “lettera scarlatta”. Una trasformazione che nel suo
compiersi si accompagna a immagini di potenza poetica e simbolica. Epifanie
fugaci, folgorazioni improvvise: uno stormo di lucciole che si accende nella
notte, un pesce che guizza durante la cerimonia del battesimo in riva al fiume,
il volo dei pellicani bianchi nell’autunno che si spegne. “Il
manifesto – Alisa”, 22 novembre 2015