Quale utile corredo al saggio di Pietro Pucci consacrato a Lucio Mariani, pubblichiamo un racconto.

Lucio Mariani

lorologio di Henry

 

proprio come le nenie dell’avvocato svizzero

che adesso squartando paulatim la sua sogliola

strologava impunito di Kavafis.

Il sole era affondato da poco dietro le alture di Plaka, gobbe di riparo contro il vento che tentava di rovesciarsi sulla casa contadina soffiando da nord-ovest, robusto. Un fitto intreccio di canne copriva la terrazza, tre sedie, il tavolo e noi. Guastavamo gli ultimi resti di vino cretese che Nicola aveva preso da una ghiacciaia inestinguibile, e da un po’ lo facevamo in silenzio, gli occhi rivolti al mare, fissi sull’isolotto roccioso che emergeva nella luce inquisitiva come un guardiano sul capo della manica d’acqua stagnata e protetta da sponde glabre di terra. La fortezza di Spinalonga era un’immane bestia di pietra che inserrava l’isola, scagliava nell’Egeo morsi di torri, inarcava murazzi e muraglie a creste e groppe, mentre scrutava senza quiete l’orizzonte dietro le feritoie dalle gole di lupo.

Nicola tornava ogni anno alla larga casa costruita da suo padre a ridosso di quel braccio di mare e ora abitata da un nipote, solitario pescatore d’arte in marmore e saraghi. E dopo due ore in cui aveva versato a Henry e a me la sua saga di Spinalonga come faceva con il vino – per modesti rovesciamenti e con stanca continuità – ci aveva ridotti a tacere. Era sempre la stessa storia punteggiata dal crocchiare dei pistacchi, una cronaca di matrice fedele, irrimediabilmente mescidata a credenze popolari, a pure invenzioni, a bluff da giocatore abusato che venivano trasfusi con naturalezza e convinzione nel fluire del racconto. La fondazione della fortezza sul finire del 1500 e centoquarant’anni di vita veneziana, la capitolazione ai Turchi che la tennero fino al 1903 malgrado i ripetuti assalti cretesi, la nuova vita della rocca come lebbrosario: tutto vibrato da resoconti di assedi, di audaci sortite ed eroiche resistenze, da episodi di magia e leggende di santità, da abiure e tradimenti, da esodi e migrazioni, da conversioni e rivolte, mentre era ricordato immancabilmente un reticolo di passaggi segreti che veniva percorso e usato nei secoli da copulatori instancabili.

In ogni occasione Nicola riprendeva la narrazione variandola lievemente rispetto agli anni precedenti con omissioni e novità. Un gioco indetto in onor nostro e svolto ormai da otto stagioni davanti a me e ad Henry che accettavamo sempre il suo invito e che sempre restavamo storditi dal profumo ossessivo dell’origano in fiore. Ma questa volta l’ospite concluse la sua favola con un affondo di sciovinismo toponomastico che doveva essere stato preparato attentamente e che, tuttavia, varcò ogni misura.

“Il nome di Spinalonga” tuonò assertivo “non è affatto veneziano, come si tende a credere, e non ha niente a che vedere con la forma di questa striscia di terra. E’ invece la metamorfosi, la traslitterazione direste voi, della formula greca stin Elounda - ad Elounda, in direzione di Elounda - quel gruppo di dieci case intorno alla trattoria dove andiamo a mangiare il pesce la sera”.

Le capacità di tolleranza che Henry aveva pazientemente accumulato con l’età e la lunga permanenza in Egitto, a questo punto si sbriciolarono. L’anziano funzionario dello Water Service di Alessandria dimenticò pensione e diabete, riprese il britannico abito mentale così insofferente agli attentati all’ordine e al decoro della conversazione e sbottò:

“Nicola, dovresti controllare la tua fantasia, governarla da adulto. Neanche a un cretese che fa lo spedizioniere e raccoglie di nascosto i cocci di Festo è permesso dire cose del genere! Soprattutto non è permesso dirle contando sul vino e sulla distrazione di quelli che ti frequentano, o sulla loro credulità di barbari o, peggio, sulla generosa condiscendenza che ti riservano”.

E calcò la voce su quel “ti frequentano”. Avrebbe voluto colpire la sensibilità panica di Nicola sopra la cintola, fra il fegato e il cuore. Perché il greco a ogni pie’ sospinto e senza che se ne dessero motivi seri, si affannava a invocare e spendere le ragioni dell’amicizia e l’attributo di amico tirando fuori da un caglio di seduzione ed astuzia la cantilena di sorprendenti rivendicazioni. E infatti anche stavolta lamentò, farfugliando: “Non devi dirmi così, amico, non puoi trattarmi così. Io vi faccio cretesi, vi offro il cuore di Creta, le parole e i pensieri di Creta, l’alba del mondo degli dèi e la nascita degli eroi ….. e voi, voi mi trattate così!…”.

Come al solito protestò divagando, non contestò né dette spiegazioni. Saltò sul plurale e in questo modo cercò di coinvolgermi, accampando una mia pretesa ingratitudine. Perché così sperava di risvegliare in me una specie di complicità mediterranea, di guadagnare la mia distanza dall’occhiuto rimprovero dell’inglese. Ma nessuno di noi gli rispose.

Henry riprese a guardare il mare e a bere a piccoli sorsi l’ultimo bicchiere di vino, distrattamente. Dopo un po’, senza darcene ragione, gli occhi fermi sull’acqua cominciò a scandire versi in un greco piano, solenne per la voce fonda e la singolare pronuncia inglese: “Un canto dolce ci salmodia il mare/canto composto da tre parti grandi:/il sole, il vento, il cielo./Canta con la voce divina che ha/quando l’ammanta la stagione estiva con la sua veste di bonaccia”. Poi tacque, richiamò lo sguardo dal largo e estrasse dal taschino dei pantaloni una meravigliosa cipolla d’argento. La contemplò a lungo. Troppo, per chi volesse soltanto leggere l’ora.

Vidi che era un orologio di vecchia foggia, elegante, segnato da esili numeri romani su un quadrante bianco. Nel porgerlo a me che avevo chiesto di poterlo osservare meglio – Nicola intanto birciava in tralice e continuava a mostrarsi risentito – il mio interlocutore riprese a parlare dimenticando il recente contrasto e ignorando il contrastato, che tuttavia chiamò in causa come parlandone in absentia:

“Il nostro ospite neanche sospetta quanto lo riguardi la vicenda di questo orologio, quanto gli sia prossima per casuali somiglianze e per remota distanza spirituale. Lui era nato da poco ed io non avevo ancora trentanni, quando ad Alessandria moriva il primo padrone di questo Patek, un piccolo uomo nel quale il secolo avrebbe riconosciuto – da morto, naturalmente – uno dei maggiori poeti del novecento e certamente il più grande poeta in demotico, il tuo greco popolare”, Nicola”.

Si bagnò le labbra e riprese subito: “Si chiamava Costantino Kavafis ed era amico di mio padre che in Egitto era andato a vivere nel 1920 e ci aveva portati con sé ad Alessandria. I pochi versi che prima ho pronunciato, circolavano in città su foglietti sparsi. Ricordo come in sogno la sua figura fragile, dai contorni diffusi. Un viso di faina gentile dietro due occhiali tondi, molto somigliante a quello di Nicola, e tuttavia incantato, diafano, delicato, con tratti che svelavano, esteriorizzavano in ossa, capelli e carne, la genialità e l’estro dell’indole”.

La sua voce era scesa progressivamente di tono, quasi non volesse turbare la quiete di un ricordo che preservava con devozione. Gli occhi avevano riguadagnato indefinite lontananze. Nicola si compose, distese le folte sopracciglia grigie, abbandonò le labbra. Dopo che ebbi restituito ad Henry l’orologio, gli dissi: “Continua a raccontarmi di Kavafis” poi mi corressi “parlacene ancora”.

“Lo vidi la prima volta” – proseguì dopo un attimo l’inglese – “quando mia madre affrontò un pomeriggio di afa grave e ci portò a prendere nostro padre all’uscita dal lavoro, come lui aveva chiesto. Un evento eccezionale per noi ragazzi. Dagli uffici del Ministero dell’Irrigazione vennero fuori insieme il venerato James e un altro signore. Il paragone fra i due si proponeva naturalmente e faceva sorridere. Il Grande James – così lo chiamavamo in casa – alto, baffuto, atletico, deciso e questo funzionario minuto, curato nell’abito, di età avanzata e pallido sotto il cappello di paglia. Ci salutò cortese, formalmente, lasciandoci appena il tempo di restituire il saluto e subito si allontanò, a passi brevi, le braccia tese lungo il corpo ed evitando la gente con un’andatura spezzata.

Mentre tornavamo a casa mio padre ci parlò a lungo di lui, con un fervore insolito. Ci disse che stava per ritirarsi dall’impiego. Voleva dedicarsi interamente alla poesia e ad approfondire lo studio della cultura ellenistica. Lavoravano insieme da quasi due anni. Kavafi – senza la s finale, come preferivano chiamarlo alle maniere loro gli inglesi e i francesi – svogliatamente, senza interesse alle carte, ai luoghi né, in genere, agli altri impiegati. Erano stati in missione due volte al Braccio di Rashid per il controllo di opere di manutenzione e il greco era rimasto per tutto il tempo a leggere un libretto e a scribacchiare su un foglio. Mio padre – ci confessò – se ne era risentito ma non disse nulla.

Più tardi James sarebbe venuto a sapere casualmente che Forster, il grande Forster, aveva pubblicato a Londra un lungo saggio sulla poetica di Kavafis – sì, lui, proprio il suo collega – e ne aveva fatto tradurre alcune poesie. Ci spiegò che da quel momento aveva cominciato a guardare con altri occhi quello strano greco d’Egitto che viveva isolato da tutti, anche dalla sua comunità. Aveva fatto di tutto per avvicinarlo fuori dall’ambiente di lavoro per stare ad ascoltarlo, per parlare della sua poesia e degli effetti di una fama imprevedibilmente raggiunta. Ma non era stato facile.

Mio padre non aggiunse altro quel pomeriggio. Ma quanto disse e il trasporto con cui si espresse bastarono a me, quindicenne, per procurarmi la rivista “Athenaeum”, leggere l’articolo di Forster e imparare a memoria – che memoria avevo! – i versi di quel piccolo, singolare collega di James che il viso di Nicola mi ha riportato subito alla mente appena l’ho incontrato”.

Nel frattempo, Nicola ed io avevamo finito da un pezzo di succhiare il vino, e, cessati i tentativi del vento, le cicale presero stentatamente a fare il loro lavoro. Henry continuò.

“Era passato qualche mese, quando il grande James rivelò a mia madre e a noi, quasi riprendendo un discorso interrotto, che Kavafis aveva abbandonato il lavoro e passava tre sere la settimana alla latteria del Boulevard di Ramleh – quella famosa in tutta Alessandria per lo yogurt, non distante dalla stazione – dove incontrava per due o tre ore amici e ammiratori. James ci rivelò che era andato a trovarlo più volte, affrontando l’odiato latte e un ambiente per lui del tutto insolito. E ne era stato ripagato. Il poeta, dopo un iniziale sconcerto, si era mostrato felice di rivederlo e lo aveva provato animando conversazioni intense, anche se intervallate da improvvisi stati d’assenza e silenzi prolungati. Era un anglomane Kavafis e aveva trovato un inglese che, per di più, parlava quasi perfettamente il greco, lo faceva studiare ai figli e amava la poesia: rarità sorprendente per un contabile specializzato che lavorava al Ministero dell’Irrigazione di Alessandria.

Sarei dovuto partire per Londra di lì a pochi mesi, quando conobbi gli sviluppi del loro rapporto. Avevo quasi diciotto anni ed era tempo di andare a studiare ingegneria come la mia famiglia si aspettava. Ma amavo i lirici e gli ermetici con tutto l’impeto dei miei giovani anni. Li leggevo e rileggevo divorandoli, da Mallarmé a Yeats, a T.S. Eliot. E, lo confesso, tentavo addirittura di fare poesia, di scriverne. Un giorno mi feci animo e chiesi a mio padre di portarmi con sé una volta che avesse dovuto incontrare Kavafis. Sarebbe stato il mio grande premio prima di lasciare Alessandria.

Due mesi dopo fui accontentato, i primi di ottobre del 1923. Nel frattempo era uscito Pharos and Pharillon di Forster e l’autore in quelle pagine aveva fatto un ritratto di Kavafis che mi aveva lasciato senza fiato.

Verso le cinque di un sabato pomeriggio, senza nessun preavviso, il grande James disse che quella sera lui ed io – solo lui ed io – saremmo andati a trovare il poeta a casa sua, in Via Lepsius. Mi vestii con cura, presi e nascosi in tasca qualche prova dei miei azzardi lirici e ci avviammo nella calura oppressiva che accompagnava il tramonto”.

A Nicola pendevano le labbra, statuaria la mia immobilità, mentre l’uva sultanina, i gusci di pistacchio, le ciotole, la caraffa, i tralci di gelsomino giacevano sul tavolo, abbandonati. Le prime ombre calavano e cominciavano ormai ad avvolgere le nostre sagome. Tutto sembrava attendere la prosecuzione del racconto.

“Quando entrammo in casa, poche stanze al secondo piano di un palazzetto malandato – come il resto del quartiere d’altronde, il quartiere delle prostitute  – fummo introdotti da un ragazzo arabo nella stanza dove il poeta era seduto su una poltrona poco discosta dall’accesso ad un terrazzino. Fra le persiane chiuse passavano spicchi dell’ultima luce del giorno e tante voci di strada. Kavafis si alzò e ci venne incontro in un grande sorriso. Accese cauto sei candele e ordinò al servo di portare soda e whisky per mio padre e per sé. A me fu destinato un tè alla menta.

Il fuoco declinante e frantumato del giorno, quello ancora incerto delle candele, il colloquio in greco che prese a correre fluido fra i due amici e ad infittirsi, il mio disinteresse per il tè alla menta, mi permisero di osservare con calma gli intarsi e le pesantezze dei mobili orientali che occupavano gran parte della stanza, le montagne di libri che giacevano in disordine ai piedi di scaffali colmi, le eccentriche babbucce del poeta, la sua calvizie resa vistosa da un riporto mal congegnato di capelli color grigio-biondo, tinti malamente. Passata una buona mezzora, Kavafis parve accorgersi  di me e dopo avermi guardato due o tre volte mentre l’argomentare del loro discorso si concedeva qualche pausa, fissandomi negli occhi, d’improvviso esclamò in inglese: “Il giovane in partenza avrà 21 anni!” Era un’affermazione. Ma l’uso intenzionale del futuro la trasformava in una domanda che attendeva conferme. E senza aspettare la mia risposta – per la quale stavo organizzando un garbato e scrupoloso dissenso – proseguì continuando a scrutarmi con la sua misteriosa maschera né benevola né ostile.

“Dunque andrete a studiare ingegneria. Vostro padre mi ha parlato a lungo di voi, e soprattutto del vostro amore per la poesia. E’ difficile fare poesia. E’ un impulso, una richiesta del profondo che qualche volta tocca la luce. Fare poesia è più difficile che costruire una turbina o un palazzo. Tentate solo se ne avvertite la necessità: voi conoscete il greco, poiein vuol dire creare e per creare ci vuole una necessità interiore, una necessità insopprimibile. Il desiderio non basta e non basta l’amore. Ma se siete certo che la Vostra vita, per essere, abbia bisogno di proporsi in forma di poesia, se siete assolutamente convinto di essere nato per scrivere, allora vi prego, non fate l’ingegnere”. Non dimenticherò mai quelle parole. E poi aggiunse perentorio: “Mostratemi qualche vostro foglio”.

A quel punto distolse gli occhi da me e li volse a mio padre, due grandi occhi prominenti e liquidi che, sorridendo timidamente, volevano chiedere scusa della piccola invasione nei progetti che l’amico nutriva sulla carriera secolare del figlio.

Questo istante di liberazione dal suo sguardo, dal potere investigativo e dal fascino che esercitava – sapevo, chi non sapeva, della sua predilezione per i ragazzi – mi dette la forza di mentire e di sottrarmi così al giudizio.

“Mi dispiace Maestro” – dissi respirando profondamente – “non ho portato niente con me. Ho chiesto a mio padre di venire solo per potervi conoscere e rendervi omaggio. Ma, se permettete, reciterò in inglese una vostra poesia che vi prego di ripetermi, di tornare a dirmi in greco”. Presi fiato e conclusi: “Credo alle magie dell’oralità”.

Fu un esercizio di lusinga sottile come quelli di Nicola, ma organizzato da un interesse e da desiderio autentici.

E senza aspettare consenso, attaccai: “Hai detto: per altre terre andrò, per altro mare”. Recitai a memoria quei versi straordinari e, per quanto la versione consentisse, in modo degno del testo. Quando conclusi “Perché sciupando la tua vita in questo angolo discreto/tu l’hai sciupata su tutta la terra” mi accorsi che Kavafis si era avvicinato con il candeliere in mano e mi fissava dritto.

Dopo un lungo momento di silenzio, senza mai ridurre d’intensità lo sguardo che mi inchiodava alla sedia, cominciò a interpretare in greco la stessa poesia. Ancora oggi, mentre ve ne parlo, provo la stessa profonda emozione, la stessa sensazione di trascinamento.

Quando finì l’ultimo verso era pallidissimo, tremante.

Subito tornò al suo inglese ricercato, e si rivolse a mio padre.

“Caro amico, voi e vostro figlio appartenete a quella civiltà della koiné che già Isocrate aveva descritto così bene, quanto sentenziò: “Chiamiamo Greci non solo i nostri consanguinei ma anche quelli che si conformano ai nostri comportamenti e alle nostre tradizioni”.

Voglio che Henry abbia questo, gli porterà fortuna”.

Proprio così, mi chiamò per nome. E tirò fuori dal tavolino arabo l’orologio che vi ho mostrato, questo orologio. Ne aprì la prima cassa, come faccio io adesso e me lo porse. Sul dorso della seconda cassa – cercate di leggere – erano e restano incise queste parole: “A K.P. Kavafis – Le barreau mixte des écrivains et des poètes d’Alexandrie – 1923”.

E mentre io facevo maldestramente le mosse di sottrarmi a quel dono che in effetti mi faceva felice, aggiunse ancora: “Non fate storie, prendetelo. Della fortuna hanno bisogno sia i poeti che gli ingegneri e un regalo fatto di cuore non va mai rifiutato. Sapete come siamo superstiziosi e quanto, noi greci. Poi anche voi, così giovane e forte, non ne sarete il padrone ma solo il depositario. Io non ho eredi a cui consegnarlo, voi forse ne avrete. Custoditelo come tutte le cose che un giorno si dovranno rendere. Usatelo perché prenda vita entrando a partecipare alla vostra. Perché trovino ragione e rispetto l’arte e la pena dei suoi costruttori pazienti. Come si deve fare con un poema. Usatelo e curatelo. Probabilmente durerà più di voi”.

E concluse, rivolgendosi anche a mio padre: “Tanto più che la proprietà non esiste per gli uomini della luce. Sanno che la durata delle cose – gli alberi, gli orologi, i libri, le case – sopravanza la loro vita. Per le nostre macchine imperfette va meglio la gioia del possesso, come nell’amore. Più naturale, modico, precario, meno armato. La proprietà non è un furto come pensava il povero Proudhon, è un’illusione: spesso le tenebre dell’ideologia confondono i bravi pensatori. Mio giovane amico, conservate questo orologio, magari per vostro figlio e la mia immortalità sarà accreditata presso di lui anche se non mi avrà mai letto o non dovesse amare la poesia”.

Così disse e sorrise, smorzando nelle pupille ogni barbaglio luciferino.

Dopo quella serata non avrei mai più tentato di scrivere un verso”.

Quando Henry ebbe finito di raccontare, le nostre ombre si distinguevano appena contro le oscure masse della casa, degli alberi e delle sedie. Dopo qualche minuto di silenzio Nicola si alzò, raccolse tutti i recipienti dal tavolo e si avviò verso la porta della cucina borbottando: “Sicuro. Anche io la penso come lui. Kavafis ed io ci somigliamo più di quanto tu non creda, caro Henry. Non solo fisicamente….”.

E scomparve come un gatto nel buco nero della porta di casa che richiuse alle proprie spalle, con attenzione, per lasciarci ai nostri pensieri.

Le zanzare di Creta frullavano come grilli.