Fabio Massimo Nicosia
Il nuovo manifesto radicale (2013)
INTRODUZIONE –
liberale, radicale, anarchico
“Radicale” è
termine polisemico e il suo significato dipende dai diversi contesti politici;
tuttavia, almeno nel quadro storico europeo, si può forse individuare un
denominatore comune, consistente nel costituire il radicalismo la sinistra,
quando non l’estrema sinistra, “borghese”; e ciò prima dell’affermarsi delle
correnti socialiste, ma anche dopo, quando i liberali-radicali, soprattutto in
Gran Bretagna, si posero il problema del rapporto con il nuovo emergente
movimento, talora collaborando o addirittura confluendo in esso, come è
accaduto a molti fabiani, laburisti, o, da noi, al radicale Filippo Turati,
divenuto leader di un socialismo riformista con simpatie anarchiche, come
abbiamo documentato in altra sede.
Di fronte al
consolidarsi di un movimento autonomo dei lavoratori, i radicali avevano dunque
tre opzioni, almeno astrattamente: o collocarsi alla loro “destra”, difendendo
sostanzialmente gli interessi della piccola borghesia; o allearsi con esso,
come sovente è avvenuto (si pensi a un personaggio singolare come Charles Bradlaugh), con battaglie per l’estensione del suffragio,
per la libertà di opinione e di associazione, per la laicità delle istituzioni,
per migliori condizioni di lavoro, e altro; ovvero, mano mano
che il movimento socialista si istituzionalizzava ed entrava nei gangli dello
Stato, mantenere la propria vocazione di “estrema sinistra” istituzionale, e
“scavalcarli”. Il che, a ben vedere, è l’operazione condotta da Marco Pannella
con i giovani della sinistra radicale agli inizi degli anni ’60 dello scorso
secolo, quando egli diceva, del resto, che l’alleanza dei radicali con le
espressioni del movimento operaio non andava intesa come alleanza tra
intellettuali borghesi, da una parte, e proletariato dall’altra, ma come
alleanza tutta interna al mondo popolare.
Ma a parte tale
possibile scelta pratica, si può forse dire che, anche sul piano strettamente
ideale, il radicalismo si colloca più “a sinistra” di qualsiasi socialismo
possibile. E non è difficile individuarne le ragioni. Il socialismo, sia nelle
sue versioni utopiche e anti-stataliste, sia, a maggior ragione, nelle
raffigurazioni statalistiche, dà l’idea di una società chiusa e precostituita
negli esiti, di un “punto di arrivo” in fondo immobile, mentre il radicalismo,
con la sua connaturata idea di perfettibilità dell’uomo e delle sue
istituzioni, è più vicino all’idea di una società aperta, dinamica,
conflittuale, mai definita nei suoi contorni ultimi. Diciamo quindi che il
radicalismo è più progressista del
socialismo, così come –per rimanere in ambito “radicale”-
Gobetti è probabilmente più progressista di Rosselli.
Più esattamente,
il radicalismo è la linea che conduce dal
liberalismo all’anarchismo.
Ciò si comprende
meglio se si fa riferimento ai predecessori storici di tale corrente di
pensiero.
I due filoni
storici principali normalmente ricondotti alla tradizione e alla cultura
radicali sono quello francese e quello anglo-sassone. Per quanto riguarda la
Francia, occorre principalmente far riferimento ai club giacobini di sinistra,
anti-statalisti, anti-militaristi e anti-polizieschi. Per quanto riguarda la
Gran Bretagna, i primi nomi che vengono in mente sono quelli dei padri
dell’utilitarismo, Jeremy Bentham e soprattutto John
Stuart Mill, universalmente definiti “radicali” dai
manuali di storia delle dottrine politiche, così come lo erano i loro
predecessori Levellers e Diggers, questi ultimi orientati
più su posizioni di tipo comunistico (della terra).
Per Mill -che ci ha lasciato peraltro pagine definitive sulle
libertà individuali nel suo noto saggio On
liberty, dettando principi validi in ogni tipo di società, come antidoto
anche di degenerazioni autoritarie possibili anche in una comunità pretesamente “anarchica” (si vedano anche i rischi della
democrazia partecipata individuati da Tocqueville)- l’obiettivo della filosofia
e della politica era di perseguire il massimo benessere possibile del maggior
numero di persone; ma, egli precisava, il maggior numero di persone
immaginabile sono tutti gli
individui. Come dire che, a dispetto di quelle che sono state successivamente
individuate come degenerazioni autoritarie dell’utilitarismo, questo in realtà,
a rigore, persegue il benessere e la
felicità di tutti e di ognuno.
Si comprende
subito dove vogliamo arrivare: a Thomas Jefferson. Egli è in realtà il primo
pensatore compiutamente radicale
(che, basta vedere le date, ha preceduto Mill),
secondo il quale, come si ricava dalle sue opere notissime (Dichiarazione
d’indipendenza, dichiarazione dei diritti della Virginia, corrispondenza, etc.),
il punto centrale è il diritto innato alla ricerca
della felicità, con la precisazione, importantissima, che, per perseguire
un tale obiettivo, non occorresse alcun potere autoritario, paterno o
dispotico, ma occorresse garantire a tutti la più ampia azione in ogni campo,
limitando al massimo le attività e le interferenze governative.
Sicché è pur vero
che gli uomini istituiscono “governi”, ma fan ciò per garantirsi il diritto
alla vita, alla libertà, e alla felicità, e, se i governi trasgrediscono il loro
impegno, gli uomini possono mutarli e addirittura abolirli.
In termini
filosofici, dunque, Jefferson coniuga il linguaggio giusnaturalistico dei
diritti di Locke con quello proto-utilitaristico, degli interessi, del
benessere e delle passioni, di uno Hume. Da qui si sviluppa un ulteriore
percorso: dall’idea che gli uomini possono abolire il governo che non rispetta
i loro diritti e interessi scaturisce l’idea che il governo migliore è quello che governa meno (Thomas Paine); e da qui, passo ulteriore, che il governo migliore è quello che non governa affatto, come invocava
Henry Thoreau.
Thoreau è a sua volta un
“radicale”. Testatore e proclamatore della disobbedienza civile, maestro di
Gandhi, egli, radicalmente libertario, non definiva sé stesso come un “anarchico”,
perché non chiedeva l’abolizione immediata del governo, ma si sarebbe
accontentato di un governo “migliore”, magari non militarista (egli disobbedì a
una tassa perché era contro la guerra con il Messico, mentre sperimentava la
sua utopia individualista nei boschi di Walden),
fermo restando sullo sfondo l’ideale finale anarchista. E accanto a Thoreau vanno ricordati gli anarchici individualisti
americani autoctoni, i Tucker, gli Spooner, i Warren, il cui contributo fondamentale deve
ancora essere pienamente apprezzato, fino ad arrivare agli odierni anarco-capitalisti, con tutte le loro pur feconde
contraddizioni.
E del resto si suol dire che anche il “primo anarchico”, William Godwin, a
sua volta successivo nel tempo a Jefferson, fosse un utilitarista, dato il suo
chiaro riferimento al benessere come obiettivo illuministico della ragione e
delle istituzioni sociali.
Se queste sono,
secondo noi, le migliori radici del pensiero “radicale” (ripetesi,
linea di congiunzione che conduce dal liberalismo all’anarchia, quale ideale
ultimo, forse irraggiungibile, ma da tenere a mente quantomeno come mito in
grado di muovere all’azione, pratica sociale autogestionaria e di separazione
individuale e collettiva nell’oggi, sperimentazione di stili di vita alternativi,
oltre che teoria anarchica come fonte di analisi sovente efficace del presente)
al quale occorre sempre far riferimento, val la pena di venire a noi e di
analizzare, trascurando i passati giacobini e garibaldini, come il radicalismo
si è inverato da noi nei tempi più recenti.
Non può a questo
punto non farsi riferimento alla figura di Marco Pannella. Uomo di azione, più
che di dottrina, egli ha unito la tradizione francese con quella americana del movement e della controcultura, almeno nei
metodi oltre che in alcuni contenuti, e ha proseguito la linea storica
tipicamente anglo-francese dell’empirismo e del pragmatismo, teorizzando sempre
in funzione delle singole battaglie.
Ma, districandoci
tra i suoi innumerevoli discorsi, i suoi scritti di occasione, e i suoi rari
contributi, importanti, teorici (prefazione al libro di Andrea Valcarenghi “Underground a pugno chiuso” del 1973 e
“Preambolo allo Statuto del Partito Radicale” del 1980) possiamo dire che
Pannella nasce liberale, diventa strada facendo libertario e “anarchico” per
tornare nella maturità “liberale”, e parrebbe un’involuzione, se non fosse che
Pannella è troppo furbo, e forse ci ha buggerato ancora (si veda quanto diremo
a proposito del “Preambolo”).
Di Pannella, in
questa introduzione, resta forse da dire del suo rapporto di odio-amore con il
suo stesso partito. Nella seconda metà degli anni ’70, sulla scorta delle
grandi battaglie per i diritti civili, il partito radicale era divenuto un
piccolo partito di massa, e alcuni, all’interno del movimento, proponevano una
più solida organizzazione, non già da sostituire all’incontestabile leadership di “Marco”, ma per
affiancarlo, come voleva Massimo Teodori con il
gruppo di “Argomenti Radicali”, ferma restando la di lui autonomia nell’ideare
e proseguire le singole battaglie. Pannella non ne ha voluto sapere e ha
sostanzialmente distrutto il partito, sostituendolo con una raccolta di
fedelissimi al suo servizio e seguito, fino a fondare, come ha ricordato Piero Ignazi, un movimento concorrente, i Verdi, invitando i
dissidenti a confluirvi. Tuttavia la storia si è ripetuta, non poteva essere
altrimenti, e nuovamente si sono riprodotti all’interno del movimento fermenti
di opposizione. Insomma, Pannella non ha mai voluto accettare l’idea di un
partito organizzato autonomo, e mentre prima ha risolto il problema con il più
drastico dei provvedimenti (l’elevazione del costo della tessera a livelli
insostenibili, oltre alla soppressione dei partiti regionali, fonte secondo lui
di discordia, mentre altri direbbero di formazione di nuove élites), riducendo radicalmente il
numero degli iscritti (ferma restando la crisi della militanza che ha colpito
indistintamente il mondo della politica dopo la sbornia di partecipazione degli
anni ’60 e ’70), oggi sostiene che il rimedio ai conflitti interni sarebbe
viceversa l’estensione della presenza
della “gente” all’interno del partito; certo che con una tessera di centinaia
di euro all’anno…
Intanto emergevano
gli anarco-radicali. A tale proposito, occorre far
riferimento a un numero di Re Nudo, la storica rivista di controcultura diretta
da Andrea Valcarenghi, del 1976 che conteneva, oltre
alla pubblicazione della proposta di legge radicale sulla droga, i risultati di
un sondaggio sugli orientamenti politici dei lettori. Ebbene, in pieno clima
marxista o leninista, la maggioranza relativa dei lettori esprimeva un
orientamento politico nella direzione del Partito Radicale. Ma non si tratta
solo di questo. Vediamo i dati separatamente tra uomini e donne.
Tra gli uomini, il
19,7% esprimeva una preferenza per i radicali, solo il 9,8 per LC ad esempio,
mentre gli anarchici erano il 7,8% (comunque tanti). Interessanti anche le
indicazioni doppie o triple: l’11,7% indicava la propria preferenza per il PR
più qualcosa d’altro (LC, PDUP e AO), mentre il 5,2% indicava una preferenza
congiunta per radicali e anarchici.
Insomma, sommando
preferenze singole, doppie o triple, i radicali erano oltre il 35% di
preferenze, e gli anarchici attorno al 13%.
Ancora più
interessanti i dati per le donne, data l’incidenza del movimento femminista.
I radicali da soli
avevano anche qui la maggioranza relativa (20%), ma le anarchiche erano ben il
18,2%.
Ma, si badi, chi
indicava sia radicali che anarchici o cani sciolti) erano, tra le donne,
ben il 16,8%.
Come dire che le
preferenze radicali, tra le femmine, raccoglievano quasi il 37% e quelle
anarchiche il 35%, naturalmente i dati vanno sovrapposti.
A questo punto
chiediamoci: chi erano questi anarco-radicali?
A nostro avviso si
trattava di due categorie:
a) I radicali che non erano completamente
appagati dalla politica delle singole issues sui diritti civili, che pure erano riconducibili a un
unico denominatore, la politica della liberazione del corpo, ma che intendevano
collocare quest’ultima in un contesto più ampio, in uno sfondo ideale, anche
utopico, ma più complessivo.
b) Gli anarchici che non condividevano la
linea astensionista del movimento anarchico ufficiale, e che vedevano nelle
iniziative radicali degli inveramenti concreti, anche se graduali, di una
possibile politica libertaria, fermo restando l’ideale ultimo anarchico.
Come si vede,
queste due posizioni finiscono con il sovrapporsi.
C’è da chiedersi
che fine abbiano fatto tutti costoro, e se ad esempio abbiano condiviso o no la
svolta liberista e quasi anarco-capitalista dei
radicali degli anni ’90, che ha avuto pregi e difetti
Ma parliamo pure
senza reticenze di tale fase storica radicale. Come si diceva, essa ha avuto
luci e ombre che sono le luci e le ombre dell’anarco-capitalismo,
anche a prescindere dalle più recenti involuzioni conservatrici, quando non
reazionarie, di questa corrente di pensiero. Il pregio dell’anarco-capitalismo
storico sta, a seconda delle scuole, nella sottolineatura dei diritti
individuali o della teoria del mercato come strumento consensuale di decisione
collettiva. Il difetto sta nell’indifferenza nei confronti dei più deboli, che,
a nostro avviso, trova soluzione nel considerare la terra, secondo una
prospettiva alla Locke o alla Henry George, come originariamente res communis, e non come res nullius,
con conseguente previsione di un rendita ricardiana a
favore di ciascuno per il fatto stesso dell’esistenza, come meglio si
illustrerà. Infatti, se i diritti di proprietà non costituiscono un presupposto
del mercato, ma sono essi stessi calati nel mercato, ogni apprensione
unilaterale comporta una compensazione a vantaggio di chi resta diminuito nei
propri diritti originari sulla Terra.
Del resto anche il
fondatore radicale Ernesto Rossi era un liberista, ma voleva, al contempo,
“abolire la miseria”, come suona il titolo di un suo noto volume. E la grossa
sfida è di verificare se ciò sia possibile in chiave autogestionaria e non
statalistica.
Ma non si vuole
eludere nemmeno il punto più controverso e scottante della politica radicale
degli ultimi decenni: la questione del rapporto con Berlusconi e della pur
limitata alleanza di Pannella col Polo delle libertà nel 1994. Non si vuole
approvare o giustificare questa scelta, ma comprenderla, e per far ciò useremo
le parole di uno studioso non radicale, a sua volta controverso, ma certo non
sospetto di essere destrorso: Toni Negri.
Scriveva Negri
subito dopo le elezioni del ’94: la destra “ha vinto perché ha interpretato le
modificazioni profonde del tessuto produttivo italiano e ha compreso il ruolo
della comunicazione nelle società contemporanee”. Tuttavia, “Berlusconi non è
la diabolica funzione di un’orrida macchina di potere televisivo… No,
Berlusconi è semplicemente un neoliberale”, non un fascista. E la sinistra? La sinistra, prosegue Negri,
non ha compreso la trasformazione italiana “e ha continuato a considerare le
corporazioni come tramite di rappresentanza”. E poi il colpo finale: “Oggi in
Italia vi sono due società parassitarie; l’una è la mafia, l’altra è la
sinistra, con il suo corredo di sindacati e di cooperative… Ma forse dire
questo è troppo: la sinistra infatti non ha neppure la dignità criminale della
mafia, essa è solamente un morto che cammina… la sinistra è come un pugile
suonato, cammina sonnambulo. Con tutta probabilità, l’unica cosa da fare è
sgambettare questo zombie”. Fin qui Toni Negri.
Si tratta dello
stesso genere di argomentazioni che portò gli autonomi di Metropoli a sostenere
Reagan contro il democratico Mondale: il liberismo come sede del comunismo
possibile: un approccio si direbbe quasi gobettiano, come si vede, ed è del
resto in nome di Gobetti che Franco Piperno, nel 1979, invitò gli autonomi a
votare radicale.
Che cosa accomuna
l’analisi feroce di Negri con la scelta di allora di Pannella? A nostro modo di
vedere, si tratta soprattutto di due elementi:
a) Fatto fuori il PSI con Tangentopoli, la
piccola ammucchiata della “gioiosa macchina da guerra” di Occhetto era la
diretta erede della grande ammucchiata dell’unità nazionale del periodo ’76-79.
E’, come è noto, all’interno di tale grande
coalizione, la forza che con maggiore fermezza si batteva contro i movimenti e
contro l’opposizione parlamentare e referendaria radicale erano i comunisti,
individuati dallo stesso movimento del ’77 come maggior nemico e maggiore
responsabile della repressione (vedi vicenda bolognese);
b) L’individuazione in Berlusconi di un
possibile riformatore liberale, ma questo, tanto in Negri che in Pannella, è
stato un errore di sopravvalutazione, dato che (ma comunque Pannella se n’è
detto tanta volte consapevole) Berlusconi non aveva né la forza né la cultura
per essere davvero un eroe della rivoluzione liberale.
Del resto, subito
dopo essersi alleato con i radicali, egli ha cercato subito amici al centro, il
PPI di Buttiglione, mostrandosi immediatamente succube del mondo cattolico.
Vedremo in futuro se le recenti resipiscenze sulle coppie gay, oltre che negli
spot Findus, avranno un seguito anche nella destra italiana, stante la lentezza
di Renzi sul punto, oltre alla sua sordità su tutto il resto delle tematiche dei
diritti civili: si pensi alla questione carceraria, che Pannella vuole portare
a livello ONU, alla questione droga, a quella dell’eutanasia e tante altre, a
tacere dell’asfittico approccio alle questioni sociali e dell’economia. Il che
dimostra che la necessità di una presenza radicale e libertaria, anche sul
piano culturale, è ancora necessaria in questo paese, e non solo, basti pensare
al grande movimento, per quanto possibile nonviolento, degli studenti di Honk Kong. E noi vogliamo cercare di dare il nostro modesto
contributo in questa direzione.
PARTE PRIMA
PROBLEMI DI
STRUTTURA
1.
La
storia come lotta di potere – Inattualità di Marx
Mentre Tocqueville
descriveva l’open society U.S.A., la
sua democrazia partecipata, il suo libero commercio e le sue solide
istituzioni, Marx preconizzava l’imminente crollo del
capitalismo, generalizzando arbitrariamente alcune osservazioni parziali,
dedicando agli U.S.A. (che invece suscitavano l’entusiasmo di Bakunin) solo
qualche sporadico cenno.
Com’è noto, il
“Manifesto” comunista muoveva dall’affermazione che la storia sarebbe sempre
“lotta di classe”. Ora, l’affermazione può essere o no valida, a seconda del
concetto di “classe” che si accolga. Probabilmente, seguendo i principi
dell’individualismo metodologico, occorrerebbe arrivare alla conclusione che le
classi sono infinite, essendo infinite le pulsioni individuali e gli interessi,
sicché “lotta di classe” non significherebbe altro che dinamica sociale, destinata
a risolversi in un sistema di mercato, nel quale ognuno facesse valere quelle
pulsioni e quegli interessi nei confronti degli altri.
Naturalmente, non
è questa l’accezione di “classe” di Marx. Egli
infatti egli, dopo aver rapidamente passato in rassegna i rapporti di potere
del passato, giunge alla conclusione che con l’affermarsi della borghesia le
cose sono cambiate, e il conflitto si polarizza, tra i borghesi stessi e il
proletariato, nei termini stretti dei cosiddetti “rapporti di produzione”. Scrivere
la storia, a questo punto, diviene la descrizione dell’evolversi di questi
rapporti di produzione, con la previsione che, concentrandosi il capitale in
poche mani e impoverendosi sempre di più i proletari, questi a un certo punto
matureranno la propria coscienza rivoluzionaria, si impadroniranno del potere
e, abolendo le classi, determineranno l’estinzione di quella sovrastruttura dei
rapporti di produzione che è lo Stato. A questo punto, nella fase superiore del
comunismo, si uscirà dalla preistoria e si entrerà finalmente nella storia,
dove ognuno darà secondo le proprie capacità, e riceverà secondo i propri
bisogni (questo in realtà Marx lo scrive nella
“Critica al programma di Gotha”).
C’è qualcosa, anzi
molto, che non funziona in questo “arrivano i nostri”. Anzitutto la questione
dei rapporti di produzione, che costituirebbero la “struttura”, laddove tutto
ciò che è giuridico, politico, ideale, culturale, artistico, etc., rientrerebbe
nella “sovrastruttura”.
Si noti, sia detto
di passata, che ad esempio Gramsci include nella struttura molte delle vicende
che per Marx sarebbero sovrastruttura, finendo con il
rendere pleonastica la distinzione.
Ma per quel che a
noi più interessa, va detto che Marx entra in
contraddizione con sé stesso in almeno due momenti fondamentali: nella fase
della nascita del capitalismo, e in
quella della sua fine.
Nel momento della
nascita (Marx si riferisce sostanzialmente
all’Inghilterra, ma parla, al capitolo XXIV del Libro I del “Capitale”, di
“accumulazione originaria”, sicché dobbiamo ritenere che il suo sia un
approccio filosofico generale), il filosofo di Treviri riconosce che il
fenomeno è dovuto sostanzialmente a vicende politico-giuridiche, rappresentate
dal fenomeno delle enclosures, le
arbitrarie chiusure e “privatizzazioni” forzose di fondi comuni, nonché dalle
feroci leggi sul vagabondaggio e sulla mendicità, che, come ha ricordato anche
Foucault nella “Storia della follia”, creavano mano d’opera a infimo prezzo,
pronta a essere sfruttata dal nascente “capitalismo”. In altri termini, persone
che mai si sarebbero sognate di andare a lavorare in fabbriche infami e
indegne, a ritmi di lavoro da schiavi, hanno accettato ciò, non già per una
libera scelta di mercato, non già quindi per ragioni squisitamente
“economiche”, ma perché costrette da una
legge dello Stato, che impediva loro scelte di vita alternative, a pena
della morte, del marchio, della mutilazione, etc.
Altrettanto
incorre in contraddizione Marx (e altrettanto Lenin),
a proposito della fine del
capitalismo, a sua volta non frutto della naturale evoluzione del medesimo, ma
come frutto di un formidabile atto collettivo politico e di forza, come appunto
la rivoluzione. Le cose non cambiano
se al posto della rivoluzione si pongono, come fa l’ultimo Engels,
le “riforme” dall’alto, che sono pur sempre un fatto politico e giuridico, dunque di
forza, e non già un fatto prettamente “economico”, avente a che fare con i
rapporti di produzione in sé medesimi considerati.
D’altra parte,
ritenere la primazia dell’economico, alla luce delle più recenti acquisizioni
della scienza economica stessa, vuol dire tutto ma non vuol dire nulla, dato
che, da Lionel Robbins in poi, per “economia” non si ritiene altro che
l’allocazione di risorse scarse in vista del perseguimento dei propri
obiettivi. Ma la prima delle risorse scarse, a parte il tempo, è l’energia umana, la sua forza; quindi se
questa è oggetto di valutazione economica in tale accezione, la distinzione
perde di peso e di pregnante significato. E Gary Becker ha mostrato che tale
“metodo economico” può applicarsi a qualunque genere di attività umana, non
solo a quelle della produzione di beni e servizi, nell’accezione
tradizionalmente oggetto dell’”economia”: alla pena, alla famiglia, alla
tossicodipendenza, etc.
V’è poi la
questione del denaro. Secondo Marx, mentre il commerciante medievale produceva merce per venderla
al mercato, ricavare denaro e comprare nuova merce (M-D-M), il capitalista
moderno investe denaro per vendere merce e acquisire nuovo denaro (D-M-D). Ma
allora, vien da chiedersi, che cosa se ne fa il capitalista di questo denaro
accumulato? Se compra altra merce, la distinzione con il mercante medievale
viene meno. Si dirà che il capitalista moderno investe in capitale fisso
(macchinari), o che più in generale lo accumula.
Ma, ancora, che cosa gli serve a questo punto accumulare tanto denaro senza
investirlo? Perché alcuni accumulano migliaia di miliardi, che non potrebbero
spendere mai, nemmeno comprando decine di ville o di arei personali, solo per
apparire nelle classifiche di Forbes?
Evidentemente
perché il denaro dà potere e prestigio, il denaro abbondantissimo dà carisma
anche se non lo si spende, anzi, soprattutto se non lo si spende. Ecco allora
che, a questo punto, il denaro non è fine come in D-M-D, ma comunque mezzo, anche se non mezzo per acquisire
ulteriori beni materiali, ma mezzo per acquisire potere sociale. Il denaro, quando è molto, è a sua volta una species del genus “potere”.
E ancora: mentre Jevons, Menger e Walras elaboravano le nuove teorie marginaliste e
soggettivistiche del valore, divenute la nuova e definitiva ortodossia, Marx ancora si baloccava con la metafisica del
valore-lavoro, scrivendo migliaia di pagine, oggi del tutto inutili, di
derivazione ricardiana. La circostanza non è a sua volta irrilevante ai fini
del nostro argomento. Infatti, Marx ricavava dalla
teoria del valore-lavoro la dottrina del plus-valore (già esposta da Proudhon in altri e più persuasivi termini, nella
configurazione del diritto di albinaggio, “tributo” che il proprietario impone
al non proprietario, impossessandosi del surplus proveniente dalla capacità
combinatoria dell’organizzazione operaia: si pensi al famoso esempio
dell’operaio che in duecento ore non può sollevare un obelisco, mentre duecento
operai lo fanno in un ora, argomento interessante che
non tiene però conto dell’autonoma attività di coordinamento dell’imprenditore,
che in qualche modo dovrà pure essere compensata), e quindi dello sfruttamento.
Ma lo sfruttamento
non consegue al mero atto di un libero contratto di lavoro sul mercato, che
fosse stipulato sulla base di effettive
preferenze del lavoratore in una situazione nella quale egli fosse libero di
scegliere (il che non avveniva certo in situazione di “accumulazione
originaria”, come si è visto), ma consegue appunto al fatto che il lavoratore è
stato autoritariamente deprivato dallo Stato e dal potere dei suoi diritti
originari sulla terra, che lo costringono ad accettare dal punto di vista
interno un sistema a lui estraneo.
Non solo. Marx preconizzava il crollo del capitalismo sulla base di
una teoria delle concentrazioni di capitale del tutto erronea alla luce
dell’esperienza storica e della più moderna analisi economica.
Come ricorda David
Friedman, si distinguono normalmente tre tipi di monopolio: il monopolio
naturale, quello artificiale e quello di Stato, che egli considera quello di
gran lunga più importante.
Quanto al primo,
rileviamo quanto segue:
a)
Il
monopolio naturale non è un proprium del capitalismo, ma è tale in ogni tipo di società:
l’autostrada del sole sarebbe monopolista del suo percorso in anarchia, nel
socialismo, nel comunismo, etc.;
b)
A
volte un monopolio naturale è tale solo per arretratezza tecnologica o
giuridica: ad esempio, le ferrovie, un tempo considerate monopolio naturale,
sono oggi oggetto di una disciplina giuridica per la quale la linea ferroviaria
è scorporata dal servizio, sicché quest’ultimo può essere reso da imprese in
concorrenza;
c)
Un
monopolio naturale può essere dato in appalto con aste per aree omogenee,
sicché viene instaurata una pur imperfetta competizione anche in tale ambito;
d)
Quand’anche
le ferrovie, per stare all’esempio, costituissero un monopolio naturale, esse
non sarebbero un monopolio tout court,
dato che patirebbero comunque la concorrenza delle automobili, degli aerei,
etc., nell’ambito della cosiddetta concorrenza intersettoriale, che è istituto sempre operante, quale che sia il
settore di riferimento.
Quanto al
monopolio artificiale, che è quello al quale a ben vedere fa più riferimento Marx (concentrazione di capitale come frutto
dell’evoluzione spontanea del capitalismo) Friedman invoca a proprio sostegno
le parole di uno storiografo socialista, Gabriel Kolko.
Secondo Kolko, alla fine dell’ottocento gli uomini
d’affari erano convinti che il futuro fosse nelle mani della grande dimensione
come nella creazione di cartelli, ma si
sbagliavano. Le grandi organizzazioni nate per controllare i mercati e
ridurre i costi si sono rivelate quasi sempre dei fallimenti, mentre i
concorrenti di piccole dimensioni si rivelavano più efficienti e più capaci di
produrre profitti. E così, mentre si ritiene comunemente che le commissioni di
controllo tipo antitrust siano nate
per fermare i monopoli, esse hanno avuto la funzione storicamente opposta, di
essere invocate dai monopolisti per arginare la concorrenza. Senza il supporto
dello Stato, i grandi trust non si
sarebbero quindi venuti a formare, o almeno a consolidare. Quanto ai cartelli,
occorre poi dire che essi sono intrinsecamente instabili, perché ciascun
partecipante ha interesse a defezionare all’accordo e a stabilire condizioni
concorrenziali rispetto ai partners.
Per quel che
riguarda poi i monopoli di Stato, Friedman ricorda l’esempio del servizio
postale negli U.S.A., fa una rassegna dei privilegi corporativi legati alla
necessaria iscrizione agli albi professionali, ma sembra sottovalutare quello
che invece è per noi oggi il più rilevante tipo di monopolio di derivazione
statuale, quello riconducibile, in chiave moderna, alle già concessioni regie:
brevetti, copyright e marchi.
Di solito gli
avversari del capitalismo si avventano contro tali istituti, non avvedendosi
che essi sono istituti squisitamente
statalisti, dato che nel libero mercato nessuno avrebbe la forza di
imporre, con la forza appunto, monopoli su idee, su invenzioni, su progetti o
disegni (si vedano in proposito le preveggenti osservazioni di Benjamin Tucker).
Ora, sull’erronea
base della natura di tendenziale concentrazione del capitale, Marx prevedeva che i ceti proletari si sarebbero
progressivamente immiseriti, ma ciò si è rivelato errato alla luce
dell’esperienza dei fatti.
Il revisionismo,
quello anarchico di Francesco Saverio Merlino prima, e quello di derivazione
marxista di Eduard Bernstein poi, ha dimostrato che questo polarizzarsi di
classi non corrispondeva alla realtà storica, dato il rafforzarsi rapido dei
ceti intermedi (piccoli proprietari agrari, piccoli commercianti, miglioramento
delle condizioni operaie, etc.). Il fatto che ciò possa essere stato il frutto
di determinate politiche non fa venir meno la critica, dato che il profeta Marx avrebbe potuto anche “prevedere” che, a fronte di un
impoverimento generalizzato ci sarebbe potuto essere una reazione di lenimento
delle condizioni del proletariato, così come noi oggi “prevediamo” che, a
fronte della disoccupazione crescente provocata dall’automazione, assisteremo a
nuove politiche di protezione, del tipo di quelle che noi illustreremo parlando
nei prossimi capitoli della rendita di esistenza.
Un'altra
incomprensione di Marx sui meccanismi autonomi del
capitalismo, altro esempio della sua incapacità analitica di discernere ciò che
è “mercato” da ciò che è “Stato”, riguarda la dottrina delle crisi ricorrenti,
che sarebbe intrinseca alle modalità di funzionamento del sistema
capitalistico. Anche a tale proposito sono emerse teorie che hanno falsificato
(per quanto, come sostiene Feyerabend, una teoria non
è mai falsificata definitivamente) quella dottrina. Ci riferiamo alla teoria
austriaca del ciclo economico, elaborata da von Mises
e dalla scuola austriaca, secondo la quale le crisi cicliche sarebbero dovute a
vicende relative all’espansione e alla successiva contrazione del credito, con
il susseguirsi di alterazioni dei tassi di interesse con conseguenti effetti
distorsivi nella produzione.
Ora, non entriamo
nel dettaglio di questa discussione tecnica, né condividiamo le conclusioni
della scuola austriaca in ordine alla necessità, che ha a sua volta carattere
monopolistico od oligopolistico, del gold standard (la
famosa goldmania
degli austriaci). Che il credito si espanda, direbbe Montesquieu, è nella
“natura della cosa”. Se io verso 1 euro in un conto corrente divento creditore
di 1 euro dalla banca. Se la banca presta quell’euro a Mario diviene a sua
volta creditrice di 1 euro da Mario, sicché dall’euro iniziale, ne abbiamo ora
3! Ma quel che ci interessa rilevare, ai nostri fini, è che la teoria austriaca
del ciclo mette in luce
come le crisi, le depressioni, le recessioni, siano figlie di una
vicenda monetaria: ma la moneta nel
nostro sistema non è un istituto di mercato, ma è un monopolio statuale.
Tutte le vicende
del credito sono frutto perciò di un’amministrazione discrezionale della
moneta, e non hanno nulla a che vedere con il mercato e la concorrenza. Ciò al
di là di ogni giudizio di valore. Ossia, si potrà anche sostenere che la moneta
sia inevitabilmente un istituto di
Stato (il che non crediamo, basti pensare ai bitcoin), ma l’importante è
saperne trarre le
conseguenze. Mentre Marx confonde
sistematicamente l’elemento Stato con quello mercato, come si è detto; mentre
laddove il capitalismo fosse stato fin dall’origine un anarco-capitalismo
(come sembra a volte dalla lettura di Marx), il che
non è mai stato, allo stesso si sarebbe affiancato sin dall’origine un
anarco-sindacalismo, non godendo i capitalisti della protezione dell’apparato
statale, e la storia sarebbe stata sin dall’origine diversa.
Alla comprensione
di ciò ostava la convinzione di Marx che lo Stato,
sotto il capitalismo, rappresentasse nulla di più che il comitato d’affari
della borghesia, sfuggendogli totalmente il carattere autonomo della dimensione statuale, il che ha contribuito anche a
non fargli prevedere le degenerazioni burocratiche della cosiddetta dittatura
del proletariato, dall’integrale nazionalizzazione dei beni di produzione,
previste invece da Bakunin, il quale aveva ben compreso come la concentrazione
nelle stesse mani del potere politico e del potere economico avrebbe dato vita
alla più feroce delle tirannie (80 milioni di morti in due tra U.R.S.S. e Cina
Popolare di Mao), poi ben analizzate da Bruno Rizzi, Cornelius
Castoriadis e Ignazio Silone.
Altre considerazioni
sull’inadeguatezza della formuletta struttura/sovrastruttura e sulla presunta
primazia logica dei rapporti di produzione su quelli giuridici e politici. Si
pensi all’istituto contrattuale: il contratto è istituto universale, di tutte
le epoche, si ritrova nei Veda come nell’antico Testamento, come del resto la
proprietà privata, e nessuno può dire che si tratti di una mera sovrastruttura
del capitalismo. Anche nel comunismo più libertario ci saranno “contratti”,
dato che le persone, anche vigendo il motto “da ciascuno secondo le sue
capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni” (che fu coniato ben prima di Marx), saranno sempre libere di concordare prestazioni di
qualunque tipo tra di loro.
Lo stesso vale per
donazioni e atti di cortesia, previsti dal codice civile, e valide in ogni
epoca e in ogni struttura sociale. Si pensi poi alla questione del diritto
dell’eredità, che per Marx era questione marginale,
mentre invece occupa tanto spazio nell’analisi, pur da versanti opposti, in
Tocqueville e in Bakunin.
Che poi i rapporti
di produzione e il mero potere economico non costituiscano sempre la molla
dell’azione umana è dimostrata dall’arte e dalla cultura. Nessuno potrebbe
sostenere, ad esempio, che Dante ha scritto la Divina Commedia per diventare ricco,
semmai per avere prestigio, reputazione, a loro volta suscettibili di analisi
economica secondo il modello Gary Becker, ma che non hanno nulla a che fare con
i rapporti di produzione.
Ma che cos’è oggi
un mezzo di produzione? Una mente, un telefono, un computer, che non si negano
a nessuno (anche se le menti possono differire per capacità), mentre il grande
capitale si giova del supporto statale, attraverso le concessioni di monopoli,
i brevetti, i copyright, le politiche di ricostruzione bellica, le grandi opere
pubbliche, tutti istituti statalistici, che non hanno nulla a che fare con il
mercato correttamente inteso, come vedremo trattando dell’”idiocrazia”
E poi ancora il
femminismo: i marxisti più evoluti riconoscono che il femminismo ha rappresentato
una contraddizione nuova rispetto alla contraddizione economica fondamentale,
ma si tratta di un approccio insufficiente; basti pensare che l’adulterio
femminile è stato penalizzato in pressoché tutte le culture fino a tempi
recenti, indipendentemente dai rapporti di produzione concretamente inveratisi
nelle diverse fasi storiche. Quell’istituto aveva dunque un fondamento ideale,
culturale, religioso, nel costume, nel sentimento, forse nella biologia, almeno
come intesa sino a poco tempo fa, ma evidentemente non, o non abbastanza, nei
rapporti di produzione.
Riassumendo,
emergono i sette errori fondamentali, i sette “peccati capitali” della teoria
sociale marxiana, peraltro tutti riconducibili a una erronea valutazione e
sottovalutazione del ruolo dello Stato, del potere e del diritto nel consesso
sociale. Non ci soffermiamo qui sull’aspetto più trivialmente messianico della
sua dottrina, quello deterministico e finalistico, che è stato da più parti
evidenziato, ma ci limitiamo agli aspetti che pretenderebbero maggiore statuto
scientifico, e che forse popperianamente ne hanno, se
è vero che sono stati falsificati dall’esperienza (ma in realtà non solo
dall’esperienza, ma anche dal mero confronto di teorie, secondo un modello già
evidenziato da Feyerabend).
a)
Erronea
attribuzione di centralità all’aspetto “economico” del possesso dei mezzi di
produzione, come fonte fondamentale delle contraddizioni sociali, ignorando che
tale possesso è solo una species
del genus
dominio, e quindi ignoranza della centralità del potere e della lotta di potere
come fattore strutturale fondamentale della storia e della società;
b)
Erronea
analisi in ordine alla prospettiva di un accentramento in poche mani dei
fattori di produzione come effetto dello sviluppo monopolistico del capitalismo,
ignorando che, quando un tale effetto si dà, ciò è frutto dell’interferenza
statuale e del diritto, e non mai della concorrenza in sé considerata. Marx, invero, non pare mai in grado di fornire una visione
analitica del fenomeno “capitalismo” che sia in grado di depurare questo dalla
contestuale presenza dello Stato come giocatore autonomo, in condizione di
inquinare quello che sarebbe l’andamento di un mercato che fosse
effettivamente, come si denuncia erratamente, “lasciato a sé stesso”;
c)
Erronea
configurazione delle cosiddette crisi periodiche, a loro volta considerate
frutto dello sviluppo spontaneo del capitalismo, ignorandosi che esse sono
conseguenze di fluttuazioni del credito in
regime di monopolio discrezionale della moneta, quindi esterno a quello che
si vorrebbe fosse, secondo Marx e i classici, il
“capitalismo”;
d)
Erronea
previsione in ordine all’imminente crollo
del capitalismo, che sarebbe frutto inevitabile dell’impoverimento del
proletariato e conseguente sua ribellione. Del resto Marx
riteneva che l’affermarsi del macchinismo avrebbe reso gli operai semplici
bruti esecutori, laddove noi oggi intravvediamo che l’automazione condurrà
puramente e semplicemente all’abolizione del concetto stesso di lavoro
salariato;
e)
Mancata
previsione della circostanza che l’auspicata “dittatura del proletariato” non
avrebbe condotto all’estinzione dello Stato, ma al rafforzamento dello stesso,
dando vita alla più micidiale delle oppressioni di classe conosciute, quella
della “società burocratica” (Castoriadis)
dell’U.R.S.S. e della Repubblica Popolare Cinese di Mao. Anche qui si tratta
della mancanza di capacità di analisi su come funziona uno Stato; e non si dica
che ciò è frutto dell’epoca, perché nello stesso tempo un Bakunin comprendeva
esattamente prevedere che cosa sarebbe avvenuto;
f)
Erroneità
della teoria metafisica del valore-lavoro, ampiamente superata, vivente Marx, dal nuovo paradigma marginalista e soggettivista, con
conseguente erroneità della dottrina del plus-valore e dei fondamenti
dell’istituto dello sfruttamento;
g)
Inadeguatezza
della teoria della moneta, ancorata alla visione scontata del suo carattere di
monopolio statale, quando Menger già ne illustrava il
carattere di scaturigine spontanea e di mercato. Ed è singolare che un critico
del capitalismo come Marx non si avvedesse che
l’istituto cardine del capitalismo, la moneta appunto, non fosse a sua volta
nell’attualità un frutto del capitalismo e del mercato, ma si trattasse di
un’istituzione monopolistica della trascurata istituzione Stato.
2.
L’idiocrazia
Va
a questo punto precisato che non coglie nel segno la diffusa polemica ostile al
mercato, svolta da certi “anticapitalisti” , che
agitano in proposito l’usurata formula del “neo-liberismo” o del “liberismo
selvaggio”. E’ infatti banale, ma non superfluo,
ribadire che il “capitalismo” che conosciamo –e non certo da oggi - ha ben poco
a che fare con il modello del mercato imperturbato, e che oggi, il “selvaggio”
è tutt’altro che un liberismo sano. Si tratta infatti di un fenomeno in gran
parte fiorito all’ombra dello Stato o degli organismi internazionali superstatuali -sicchè, se i no-global
attaccano tali organismi, essi fanno inconsapevolmente una battaglia
liberista-. alla cui incessante azione, di regolazione o di intervento diretto,
si devono gran parte degli arricchimenti e degl’impoverimenti conosciuti nella
modernità, così come si deve alla decisione “pubblica” dello Stato
l’assegnazione preliminare dei diritti di proprietà e in genere dei titoli
legali. Non solo. Come vedremo di qui a poco, il fenomeno ha assunto in tempi
recenti la consistenza di una nuova forma “idiocratica”
dell’articolazione stessa del pubblico potere in un forse inedito intreccio col
grande capitale, monstrum “privatistico” e appunto “capitalistico”, che ricorda
per taluni aspetti il modello feudale, e in parte quello canonico, peggiorati
dalla sporcatura aziendalistica e dai laminati
plastici, metafora di un’architettura scadente quale quella dei palazzi in cui
operano le relative attività.
Un’eclatante
conferma si ricava dal testo di un insider del sistema di edificazione del
cosiddetto capitalismo globale –che alla luce della descrizione si rivela
piuttosto un nuovo genus
di “capitalismo assistito”- ad opera dell’”impero” .
L’autore descrive un impressionante intreccio -che egli definisce “corporatocrazia”, dalla radice dell’inglese “corporation”,
società per azioni, per quanto sia ravvisabile un’affinità con le letture più
stataliste del corporativismo fascista -, tra poteri dello Stato, istituzioni
internazionali come la Banca Mondiale , imprese petrolifere, dell’energia
elettrica, delle infrastrutture e dell’edilizia, società di consulenza e
revisione, collegate tanto al governo quanto alle corporations, e governi locali
corrotti e dittatoriali, soprattutto quando fornitori di petrolio, ma non solo.
Il tutto volto ad arricchire, attraverso le commesse e gli appalti pubblici, le
imprese stesse e i governanti, a scapito delle popolazioni locali. Queste
vengono infatti indotte artatamente all’indebitamento per realizzare “grandi opere
pubbliche”, inutili e spesso dannose, e comunque sovradimensionate da stime di
fabbisogno di comodo, con il pretesto della promessa di un rapido sviluppo
tecnologico dei loro paesi, sì da vincolarli altresì a politiche internazionali
subordinate rispetto a quella del governo U.S.A.. Con
l’aggiunta che gli esponenti di tale governo sono stati spesso personalmente
coinvolti, come nel caso dei Bush, in quelle operazioni speculative, in un
conflitto di interessi di proporzioni colossali.
Se
ne ricava che, contrariamente a quanto si ritiene comunemente, la dottrina
economica che presiede a tale fenomeno non è quella cosiddetta liberista, ma
all’opposto quella keynesiana , fondata sull’attiva e decisiva iniziativa
statale, in una sorta di “neo-mercantilismo”
di guerra, che non ha nulla a che vedere col mercato correttamente
inteso, considerando che le devastazioni sono altrettante occasioni di
ricostruzioni, e quindi di appalti di opere pubbliche di immani dimensioni e di
dimensione transnazionale, secondo la consueta logica keynesiana, ispirata al
modello del “Monello” di Charlot: prima devasto e poi ricostruisco.
Sulla
base di tali elementi, è il caso di riflettere ancora sulle forme che lo Stato
viene assumendo nella contemporaneità, del suo procedere per “privatizzazioni”
del tutto fittizie, o meglio, che tali sono, ma al di fuori di un sistema di
mercato; privatizzazioni, il cui scopo è solo quello di distribuire il potere
per lotti integrati, e sottrarre le relative operazioni al controllo (parlando
ancora degli U.S.A.) del Congresso e in genere alle verifiche di legittimità;
sicché persino le multinazionali appaiono oggi, certo non espressione di
“liberismo”, come credono i critici di sinistra più ingenui, ma articolazioni
transnazionali e formalmente privatistiche, e quindi (ecco il trucco) “libere”,
della nuova forma-Stato e della sua azione di rapina e spoliazione.
Il
punto cruciale è che la depredazione viene favorita dalla forma privatistica,
per mistificatorie
ragioni di diritto positivo, artificiosamente ispirate a una
sistematica tradizionale, del tutto inadeguata alla nuova situazione. Sicché
viene consentito allo “pseudo-privato” ciò che a un’istituzione pubblica,
almeno in parte imbrigliata dal principio di legalità proprio dello Stato di diritto,
oltre che soggetta al giudizio dell’opinione pubblica, non verrebbe consentito.
Anche se occorre riconoscere che talora dottrina e giurisprudenza, almeno in
Europa, hanno cercato di porre un freno a tale funesta deriva, sia pure tra
contraddizioni, conseguenti all’idiosincrasia anglo-sassone per la scienza del
diritto amministrativo, della quale Albert Dicey
costituisce la più nota espressione.
Se,
in un contesto di monopolio nella produzione giuridica, l’atto del potere
pubblico viene ricostruito, come sempre più spesso si tende a prospettare, nei
termini dell’atto di diritto privato, ci troviamo innanzi a una grave
mistificazione, data l’assenza totale di concorrenza nel quadro in cui viene
adottato. Lungi dal rappresentare un passaggio dal monopolio, proprio del
diritto pubblico, al sistema del mercato, saremmo di fronte a una regressione
verso lo Stato patrimoniale, con perdita secca delle garanzie che il diritto
pubblico classico impone all’attività del pubblico potere.
Il
problema dei fautori delle garanzie del costituzionalismo liberale non è
allora, come sembra si sia destinati a fare, introdurre il diritto privato
nell’attività dello Stato (altra cosa sarebbe assoggettare lo Stato ai principi
civilistici), ma, semmai, esattamente all’opposto, introdurre il diritto
pubblico nell’attività dei monopoli e oligopoli privati che quello Stato stanno
progressivamente sostituendo, in nome di un “anarco-capitalismo”
del tutto malinteso.
Solo
superficialmente, quindi, un libertario, o anche un marxista, dovrebbero gioire
per quelli che, inquadrati storicamente, potrebbero rivelarsi come solo
apparenti passi nella direzione dell’estinzione dello Stato, come l’abbiamo
conosciuto nella modernità, inteso come apparato separato dal resto della
società. Dato che occorre sempre guardarsi da quelli che paiono progressi della
storia che, alla prova dei fatti, si rivelano sonori passi indietro. Ad
esempio, si consideri che un atto di diritto privato, contrariamente a un atto
di diritto pubblico, può essere annullato solo per errore, dolo e violenza, e
non può essere sindacato nei motivi e nei fini.
Il
deciso dislocamento dell’attività statuale, o già statuale, nell’area del
diritto privato determina poi un’altra conseguenza paradossale: l’attrazione
dell’atto del potere nell’ambito dell’attività puramente politica e non giuridificata. L’atto politico condivide con l’atto di
diritto privato l’esser libero nel fine: l’intera attività politica, pre-costituzionale e pre-amministrativa,
si svolge del resto con strumenti privatistici, e forse addirittura pre-privatistici, ossia non giuridicamente rilevanti.
D’altra
parte, è di tutte le teorie classiche e moderne dello Stato attribuire allo
stesso una fondazione privatistica, quale è il contratto sociale, sia esso
quello di di Hobbes o di Rawls,
ovvero una convenzione spontanea e consuetudinaria alla Hume, o, per certi
versi, alla Nozick.
Nella
politica della modernità, si procede a sua volta “privatisticamente”,
attraverso patti e convenzioni tra politici e partiti (patto del Nazareno…),
prima ancora che tra istituzioni, salvo che, a differenza di quanto avviene nel
mercato, i relativi atti sono opachi, in quanto appartenenti agli arcana imperii, ove la trasparenza auspicata dal diritto pubblico non
perviene.
Si
è detto che tale processo storico, secondo cui il diritto pubblico trova
sostituzione tendenziale nel diritto privato, ha una formula politica non
ufficiale in alcune correnti di pensiero che, a nostro modo di vedere, hanno
usurpato l’etichetta anarco-capitalista; ma si tratta
appunto di una mistificazione, perché dell’anarco-capitalismo
manca l’elemento fondante, che è la concorrenza e il mercato. Non ci stupiremmo
un giorno di trovarci di fronte a un Parlamento s.p.a.
e a un Governo s.r.l., senza che il monopolio del potere ne risulti minimamente
intaccato; esso risulterebbe anzi addirittura consolidato, per il recedere dei
momenti di partecipazione dei cittadini alle decisioni collettive. Qualcuno
preda di facili entusiasmi asserirebbe che si tratterebbe comunque di una situazione
“senza Stato”, ma il passaggio dai marmi e dai graniti, ai laminati plastici e
al vetro-resina, non muta la sostanza, ma solo la parvenza.
Ma,
forse la cosa sorprenderà di più, tale tendenza trova un precedente anche in
alcune teorizzazioni leniniane, come quando il leader della rivoluzione russa
immaginava di ridurre tutta l’attività statale “a semplici operazioni di
registrazione, d’iscrizione, di controllo, da poter essere compiute da tutti i
cittadini con un minimo di istruzione e per un normale ‘salario da operai’” . E ancora: “Riduciamo i funzionari dello Stato alla
funzione di semplici esecutori dei nostri incarichi, alla funzione di
‘sorveglianti e di contabili’, modestamente retribuiti, responsabili e
revocabili” .
Senonché,
tanto l’attività statuale viene resa semplice, vincolata ed esecutiva, quanto
le scelte di fondo politiche, quelle che riguardano la risoluzione dei
conflitti tra interessi, venivano “privatizzate”, in quanto affidate
all’insindacabile decisionismo del Partito dei lavoratori, così come avviene ed
è avvenuto da noi con la “partitocrazia”. Il massimo tentativo di attuazione
pratica di simili principi si ebbe, come è noto, con la Costituzione cinese del
1975, con la quale, in nome di una travisata e strumentale lettura della teoria
marxiana dell’estinzione dello Stato, si facevano tendenzialmente deperire i
residui di Stato di diritto, per porre le istituzioni pubbliche totalmente al
servizio del dominio del “privato” Partito Comunista. Sicché, in base a tale
ordine di idee, dovremmo forse ritenere che lo Stato comunista, leninista,
maoista e post-maoista, sia “non autoritativo”, in quanto i suoi atti siano o
vincolati, o frutto di soggetti formalmente privati, posti a monte di quello
Stato?
E’ vero invece che, se le parole hanno un
senso non orwelliano, può essere considerato “non autoritativo” solo l’atto
che, in circostanze simili, potrebbe essere adottato da qualunque altro
soggetto del mercato, in regime di reciprocità.
Chiediamoci
invece che cosa accadrebbe se il monopolio di diritto, di diritto pubblico,
fosse sostituito da un monopolio di diritto, ma di diritto privato. I suoi
momenti coercitivi sarebbero liberi da impacci, ma verrebbe meno ogni
legittimazione a quel monopolio, se è vero che, come riconosce lo stesso Nozick, solo la superiore qualità delle sue procedure,
rispetto agli ipotetici concorrenti, potrebbe in ipotesi giustificare il
monopolio stesso.
Un
monopolio di diritto “di diritto privato” sarebbe piuttosto l’equivalente di
una proprietà di dimensione “nazionale”, sicché, per stabilire se un
“proprietario nazionale” sia o no preferibile rispetto a uno Stato
costituzionale, dovremmo confrontare i rispettivi poteri sulla base dei
principi. Ad esempio, il proprietario privato
potrebbe anzitutto discriminare nelle proprie scelte, sicché non varrebbe il
precetto ex art. 3 della Costituzione repubblicana. Né varrebbe l’art. 97,
perché, per i privati, il principio di buona amministrazione trova sanzione
solo attraverso l’istituto del fallimento, ma non prevede di norma la
funzionalizzazione dell’impresa, il suo assoggettamento a criteri
giuridicamente vincolanti di buona amministrazione momento dopo momento.
Eppure
gli atti del proprietario sarebbero comunque “autoritativi”, in quanto atti non
soggetti alla concorrenza, ma di un monopolista di diritto, e tuttavia
“insindacabili” come non lo fossero. Il proprietario, è vero, potrebbe dotarsi
delle stesse regole di uno Stato costituzionale, ma ciò farebbe a suo esclusivo
piacimento, non tenuto a ciò da alcuna regola di
partecipazione alle decisioni da parte degli individui non proprietari che
stazionano nella sua proprietà. I quali sarebbero quindi totalmente in balia
delle decisioni, qualificate dai plaudatores “libere” e “autonome”,
del proprietario.
In
definitiva, privatizzare lo Stato, ma contro e senza la libera concorrenza,
semplicemente non conviene dal punto di vista della libertà individuale, oltre
a consentire “sonori passi indietro” rispetto all’ordinamento costituzionale
liberal-democratico.
Alla
luce di quanto sopra, come definire più tecnicamente quella “corporatocrazia”? E’ il caso di riprendere, anche con
intento satirico, lo spunto di Hanna Arendt, che ci
ricorda come, per gli antichi greci, “una vita spesa nell’esperienza privata di
‘ciò che è proprio’ (idion), fuori dal mondo comune,
è ‘idiota’ per definizione” . Sicché possiamo noi ora
parlare, per contrassegnare questo sistema di “privati”, che ambiscono a farsi
“potere pubblico” o a ereditarne lo scettro con la menzogna, di “idiocrazia” . A dire il vero, se è
idiota chi si fa i fatti propri, è ancora più idiota chi molesta: l’idiocrate si caratterizza per il fatto tanto di farsi i
fatti propri, quanto per molestare gli altri, attraverso il controllo del
monopolio della forza. Un’idiocrazia “aziendalistica”,
se è vero che l’ambizione di siffatto sistema è di parcellizzare, destrutturare
apparentemente, per ristrutturare il potere, organandolo per aziende che hanno
introiettato il principio burocratico in nome del celebrato “management” , diffondendo tra detti soggetti quella sovranità, che
l’evaporazione dell’elemento territoriale classico vuole rendere adespota.
Sicché disponiamo oggi di “privati”, che concentrano, sia pure ripartendoselo,
il monopolio della forza –del resto, non solo il governo, ma anche la
produzione richiede forza fisica - e pretendono appartenenza necessaria (si
pensi alle varie casse di previdenza), che pretendono di riscuotere importi
unilateralmente, quasi si ritenessero investite di chissà quale irrinunciabile
funzione; “società” che rilasciano certificazioni indispensabili per legge o
che dispensano sanzioni amministrative, e si impongono transterritorialmente,
secondo un malinteso concetto di “decentramento” ; ma anche di “privati” che
esercitano una supremazia di fatto sul territorio, esercitando diritti di
superficie o servitù, concessi loro da amministrazioni, ormai autospoliatesi di quasi ogni potere, che gestiscono secondo
modelli di controllo sociale improntati all’uso delle tecnologie (videocamere,
etc.), sovente ispirati all’ignobile ideale delle gabbie giustapposte.
Fondi-pensione e aziende capitalistiche che lucrano sul “silenzio-assenso” per
incamerare i soldi dei lavoratori; per non parlare della Banca d’Italia,
oggetto di un tecnicamente penoso, mistificatorio e abietto tentativo di
contrabbandarla per “privata” –eppure certo non fallisce, né va in liquidazione
coatta amministrativa-, ente, organismo di diritto pubblico in quanto esercita poteri autoritativi e
sovrani sulle banche e su quanto residua del mercato, e che tuttavia, in un
grottesco conflitto d’interessi, è dominato dalle banche stesse, essendo Bankitalia di proprietà dei più forti tra gl’istituti di
credito! Oligopolisti protetti, e padroni del proprio “controllore”! Il tutto
gabellato per “partecipazione”, o magari “democrazia economica”, come si diceva
una volta: prodotti malati della “fantasia” al potere, con uno scopo ben
preciso: sottrarsi all’impaccio della legittimità.
Se
lo Stato nazionale, in un siffatto contesto, non è ancora assorbito dalla forma
esteriore privatistica, ciò si deve fondamentalmente a due fattori: a) le
imprese in forma societaria multinazionale capitalistico-idiocratiche
non risultano ancora dotate di un loro proprio fondamento di legittimazione
adeguato e persuasivo per la massa dei cittadini, dato che non sarebbe
attualmente proponibile uno Stato-Coca-cola, o uno Stato Microsoft; b) Lo Stato
appare a costoro tuttora estremamente utile per dar vita incessantemente a una
normativa di favore nei loro confronti, rinforzando le loro posizioni
monopolistiche od oligopolistiche –invertendo il trend della tradizione
social-democratica-, verosimilmente fino al momento in cui tale opera sia
ritenuta completata.
Diversamente
da quanto auspicava Marx, pertanto, non stiamo
assistendo a uno sviluppo a pieno ritmo di un capitalismo che, in preda delle
proprie contraddizioni, si auto-estingue e con sè
estingue lo Stato, ma a un imprevisto fenomeno di organica osmosi tra quel
capitalismo -forte di istituti di tradizione statalistica quali il brevetto, il
copyright, il marchio e in genere il monopolio protetto dal cosiddetto “diritto
industriale” (intellectual
property),
che in realtà è diritto pubblico coercitivo, risalente almeno all’epoca della
concessione dei feudi, dei munera e delle cariche nobiliari
più parassitarie- e lo Stato stesso. Di tal che l’estinzione di quest’ultimo
non condurrebbe a una fase più alta e spiritualmente elevata dello sviluppo
umano, ma a un deciso passo indietro nella direzione del dominio di classe e
dell’uomo sull’uomo da parte di un ceto avido, incolto e spregiudicato (i
cosiddetti top managers economico-finanziari,
appunto, e i loro sodali politici, cointeressenti, se
non, spesso, coincidenti), avallato dal fondamento di legittimazione dello
Stato e dello stato precedenti e, quindi, dalla stessa inerzia della
popolazione nei confronti del consolidarsi di questi fenomeni: dato che è il
sistema di credenze popolari a munire i fenomeni stessi dei processi, loro
indispensabili, di ristrutturazione della legittimazione.
Tipico
di siffatta idiocrazia è l’aver mutuato, come in un
processo di osmosi, il peggio della burocrazia storica come la conosciamo,
nonché tutte le sue inefficienze. Basta fare la coda da un “MCDonald”
o in un supermercato per rendercene conto; costantemente ci vengono opposti
“regolamenti” inderogabili, come nemmeno capita ormai più con la burocrazia
“pubblica”. Ad esempio, una volta in un MCDonald ci
hanno rifiutato un bicchiere d’acqua, in quanto non previsto dal regolamento; a
volte sembra che, nel ricambio generazionale, tra public sector
e idiocrazia vi sia stata addirittura un’osmosi,
oltre che di mentalità -talora addirittura in peggio, dato il precipitare delle
condizioni della nostra scuola pubblica e privata-, anche di management, o di precari e di personale
avventizio. In alcuni supermercati, dopo essere stati costretti a prestazioni
lavorative gratuite del tutto estranee alla fattispecie contrattuale, e
terminato la coda alla cassa, ti chiedono di fare un’altra coda, quella per vidimare
il biglietto del parking! Di tal che vien quasi l’idea di sviluppare il
discorso di Widar Cesarini Sforza sul “diritto
pubblico dei privati”, per configurare una nuova categoria, quella dell’atto
amministrativo privato, che, in teoria, non sarebbe altro da una proposta
contrattuale ex art. 1341 o 1342 c.c., oltretutto soggetta al canone interpretatio contra stipulatorem; ma che viene
vissuto dagli operatori, ma purtroppo anche dall’utenza e dalla clientela, come
fonte di imperativi di fatto, giuridicamente del tutto insussistenti e privi di
alcuna vincolatività, la cui implementazione è affidata a personale
improvvisato e impreparato.
Val
la pena di sottolineare un altro aspetto particolare, rilevante dal punto di
vista tecnico-giuridico: tutti gli agenti dell’”idiocrazia”,
con i quali noi entriamo quotidianamente in contatto, al di là delle pompose
qualifiche funzionali delle quali si rivestono nel linguaggio cosiddetto
manageriale (businnes manager, market manager, commercial
marketing, preferred clients, principal,
e altre dizioni pretenziose ed enfatiche), sono solo “commessi
dell’imprenditore” ai sensi dell’art. 2210 c.c. Essi sono infatti privi di
alcun potere di trattativa, non essendo titolari, ai sensi dell’art. 2211 c.c.,
di alcun “potere di derogare alle condizioni generali di contratto”, fissate
dall’imprenditore, ove esistente: di imprenditore non è però davvero il caso di
parlare, trattandosi di struttura interamente organizzata in forma burocratica.
Quello con il quale entriamo giorno dopo giorno in relazione, è quindi appunto
solo un apparato burocratico, meramente esecutivo di ordini di un “alto”,
altrettanto burocratico e impersonale, che noi non conosciamo e non vedremo
mai, se non forse in televisione, con il quale non abbiamo diritto di parola e
di trattativa contrattuale, giacché nemmeno il capo-reparto di un supermercato
o di un McDonald dispone del potere di derogare alle condizioni prefissate
della proposta di prezzo e delle altre condizioni del rapporto, sempre ai sensi
dell’art. 2211 c.c.
Tale
“privata” idiocrazia, nei rapporti con il pubblico,
ha dunque introiettato il peggio della mentalità burocratica (“il
dottore è fuori stanza” tanto nel pubblico, quanto nel privato), forse
addirittura oltre quanto lo stesso Stato, nel caso italiano, impregnato talora
dell’anticorpo della cultura “meridionale”, che ha in uggia il legalismo
esasperato e formalistico fine a sé stesso, abbia fatto in passato. Il che non
esclude certo che sempre vi siano state brutalità e pestaggi, tuttora diffusi,
da parte delle polizie. Ma si coglie, in quell’atteggiamento “meridionale”, una
certa influenza dell’ipocrisia farisaica, volta a non prendere del tutto sul
serio il diritto scritto, ammiccando alla contestuale vigenza di consuetudini
contra o praeter
legem che
vorrebbero apparire talora più “bonarie”, laddove nell’idiocrazia
si coglie una componente più marcatamente sadducea, ammantata da malinteso
“efficientismo” –un che di ben diverso dalla nozione economica di efficienza-
alla “ragiunatt” milanese, e non è detto che nel
cambio ci si guadagni, dato che, all’apparente ammorbidimento consuetudinario
della rigidità normativa del cosiddetto “Stato di diritto”, l’idiocrazia ha fatto propria un’idolatria della “legge”,
accompagnata da consuetudini interpretative addirittura più restrittive del
testo normativo stesso, conformato proprio in modo da poterle consentire senza
prevedere rimedi adeguati all’interno del sistema stesso.
Diciamo
che, rispetto alla fase ammantata di formalismo statuale, l’idiocrazia
è un potere che ha gettato quasi del tutto la maschera, sicché dove non arriva
la norma scritta, giunge la mano armata della “prassi”. L’idiocrazia
rappresenta perciò una sorta di fase suprema della burocrazia, tutta incentrata
com’è sulla valorizzazione di elementi organizzatorii
fini a sé stessi tutti interni all’azienda, mutuando le tipiche modalità
indifferenti al risultato –garantito dalle provvidenze pubbliche- della
mentalità burocratica, negando il carattere proprio, comunemente attribuito al
settore privato, che dovrebbe essere quello di mostrare attitudine a soddisfare
le aspettative del mercato e i bisogni dei consumatori. Ci si chiederà allora
come aziende siffatte riescano a sopravvivere, visto che disprezzano clienti e
potenziali clienti (banche che rifiutano l’apertura di conti correnti,
finanziarie che rifiutano finanziamenti di poche migliaia di euro a clienti con
centinaia di migliaia di euro nel conto corrente), le cui esigenze sono loro
indifferenti, ma la risposta la si è già fornita, e cioè che non di mercato si
tratta, ma di tanti monopoli e oligopoli coercitivi, giustapposti e integrati,
di fatto mantenuti dalla redistribuzione del denaro pubblico da parte del
potere politico, che opera alle loro dipendenze, quando non si tratta addirittura
delle stesse persone, come avviene platealmente in Italia, negli U.S.A., con le
grandi famiglie presidenziali, e in Russia, con l’”amico Putin”, accolita di
affaristi, annidati allo snodo dei vertici pubblico-privati del sistema.
Sulla
“mentalità burocratica” e “idiocratica”
andrebbe sviluppato uno studio, del tipo di quello diretto da Adorno sulla
personalità autoritaria, per denunciare la propensione di alcuni, attaccati
-evidentemente eredi degli antichi sadducei-, nemmeno tanto alla lettera della norma,
quanto a una sua accezione asfittica, come si è visto. E ancor più d’attualità
sarebbe oggi uno studio sulla mentalità idiocratica,
nella quale confluiscono il peggio di quella pubblica e il peggio di quella
privata: si pensi all’approccio di alcune telefoniste aziendali, che, quando
chiami, ti chiedono sempre: “Lei di che società è?”, quasi che un privato, per
esser tale, debba per forza appartenere a una qualche s.p.a.;
fino al punto che qualcuno ha sostenuto che un essere individuale non sarebbe mai
un “privato” in quanto tale (ad esempio non lo sarebbe un dipendente pubblico),
ma che per assurgere a privato occorrerebbe appunto costituirsi in s.p.a., ossia in un ordinamento burocratico, almeno per
come è concepito oggi nella pratica!
E
il sistema idiocratico prosegue nella sua velleità di
tutto pervasivamente controllare, attraverso la
schiavitù di una mediocre tecnologia: carte di credito che registrano ogni
nostro personalissimo acquisto, telecomandi con decine di tasti, di cui solo
tre o quattro utili; telefoni cellulari pieni di comandi superflui, che
informano di ogni nostro movimento e segnalano il nostro espatrio, “Fidaty Card” che registrano il contenuto della nostra spesa
e vendono, non si sa a chi, il nostro “profilo di consumatore”, in barba a ogni
ridicola normativa sulla privacy (“mi
mette una firmètta per la praivasi?”).
E DVD che, dopo essere stati inseriti, ti chiedono ancora se vuoi vedere il
film.
Lo
stesso principio della polizia privata, una volta aziendalizzata secondo il
modello idiocratico, quindi in assenza di reale
concorrenza tra gl’interessi contrapposti, ha perduto gran parte della propria
attrattiva, giacché l’esperienza che se ne è avuta fin qui è che il “poliziotto
privato” finisce con il risultare esecutore di ordini, appunto “aziendali”,
senza nemmeno quella sensibilità latamente “politica” che lo forze dell’ordine
dello Stato liberale talora hanno saputo dimostrare in qualche momento del
lontano passato nel dirimere controversie e nel prevenire, con buon senso, sia
pure con un eccesso di paternalismo, i conflitti più irragionevoli, come almeno
suggerisce il personaggio interpretato da Vittorio De Sica, maresciallo dei
carabinieri in “Pane, amore e fantasia”.
E
molto anarco-capitalismo e i suoi cascami hanno
imboccato la mesta parabola di munire di giustificazione teorica siffatte
impressionanti “innovazioni”, involuzioni d’intelligenza (non a caso
l’etimologia ci ha suggerito uno sferzante “idiocrazia”),
come si è visto, oligopolistiche e collusive, pessime oltretutto sotto il
profilo della dottrina.
Quanto
ne siamo lontani! E dire che, se anarchici classici e no global sbagliano oggi
diagnosi sulla descritta natura dell’imperialismo delle multinazionali, che
vanno ormai appunto qualificate nei termini del depositario e affidatario di
quote coercitive di sovranità, gli anarco-capitalisti
sembravano poter indicare orizzonti ben più appetibili, pur non vedendo tutta
la verità, allorchè non comprendevano che un sistema
di mercato svincolato dalla protezione e promozione statale, quale essi hanno
sempre dichiarato di auspicare, avrebbe portato a conseguenze “rivoluzionarie”
che essi stessi non mostravano di immaginare, e che forse non avrebbero nemmeno
gradito: quell’anarco-capitalismo plus dixit quam voluit , e tuttavia diceva.
In
definitiva, l’”idiocrazia” di cui sopra abbiamo
parlato rappresenta solo una fase suprema e più sofisticata, nell’incontro
statalismo-capitalismo monopolistico-socialdemocrazia, di un modello antico,
riconducibile almeno in parte alla compravendita delle cariche e dei munera, vicende
che peraltro non prevedevano il completo assorbimento delle istituzioni
pubbliche nel concetto di “azienda privata” come oggi goffamente ci viene
propinato dal gergo mass-mediale, malamente attinto da frettolose letture di
teoria dell’organizzazione .
L’art.
2210 c.c. si attaglia perfettamente all’idiocrazia e
al suo punto di implosione, consistente nell’evaporazione della figura imprenditoriale,
sostituita da una gerarchia funzionariale
intra-aziendale che non risponde a nessuno, stante la non necessità, per
attività sostanzialmente assistite dalla finanza pubblica e dalla legislazione
di privilegio, di fornire servizi efficienti, dato il recedere dell’interesse
del consumatore in attività dal carattere spesso emulativo e vessatorio nei
suoi confronti.
Il
venir meno della figura imprenditoriale nell’idiocrazia
determina la sua inefficienza, con conseguente schiavitù del consumatore, che
lavora gratis per il supermercato da quando raccoglie la merce dagli scaffali a
quando la introduce nei sacchetti o che deve andare a ritirarsi il “decoder”
perché l’azienda ha altro da fare e si vede che non ama acquisire clientela,
dato che si paga per visionare ogni singolo film, e senza decoder non si può
guardare il film e quindi pagare. Un sistema pianificato a tavolino da
“strateghi” e “managers”
sulla base di mediocri nozioni di psicologia aziendale e del consumatore,
elaborate in “briefing”, in “brainstorming”, la cui intelligenza e
vivacità fa il paio con quella degli organi collegiali delle scuole e delle asl, di impianto quindi e ispirazione burocratica e
“legalista” molto più di quanto si ritenga comunemente (i pareri dei legali
sono molto richiesti, per essere e sentirsi “a posto”), da parte di soggetti
nei quali lo stimolo dell’utile fondato sulla soddisfazione del consumatore è
del tutto assente.
I
prezzi dei beni e dei servizi, in questo quadro, non hanno valore di
corrispettivo, ma di mera riscossione finalizzata al controllo individuale e
sociale, dato che il potere e la ricchezza degli azionisti, di facciata od
occulti, deriva sempre dalla virtualità finanziaria, mai dall’utile d’impresa,
del resto inverificabile, data l’inaccessibilità dei bilanci reali, sempre che
anche questi siano redatti in modo intelligente, e il carattere fittizio, anche
per l’assoluta opinabilità di molte poste e cespiti, come nel caso della
valutazione dei beni immobili, di quelli ufficiali e resi pubblici, o i cui
presupposti siano elaborati attraverso due-diligence del tutto approssimative.
L’idiocrazia ribalta il luogo comune della teoria economica
della sovranità delle preferenze del consumatore, dato che il di lei
atteggiamento nei confronti del “cliente” non è dissimile da quello del vecchio
apparato burocratico statale-ministeriale nei confronti del “suddito” e poi
dell’”utente”: di disinteresse, in nome di una supremazia, che non ha nulla a
che vedere con la capacità di acquisire consenso in un sistema concorrenziale.
La
forma-burocrazia, di cui è espressione l’idiocrazia
della decadenza “capitalistica”, ha attinto quindi dai modi comportamentali del
pubblico impiego, dalle inefficienze della relativa sindacatocrazia
(benché le inefficienze nel pubblico impiego non sono un mala quia mala, dato che possono
rappresentare, in qualche caso, dei boicottaggi dall’interno), e da certe
modalità organizzatrici proprie delle organizzazioni collaterali del PCI degli
anni ’70, il tutto condito dalla scadente teorica e retorica del “managerismo”,
avviata da noi dal fenomeno, negli anni ’80, del “rampatismo”,
storicamente associato al PSI di Craxi e Martelli, al di là delle effettive
responsabilità individuali -che portò però a un compenetrarsi pubblico-privato
culturalmente più intenso di quanto non lasciasse prevedere il sistema
IRI-partecipazioni statali-enti pubblici autarchici, prima fascista e poi
democristiano-, per poi sfociare nel plebeo mito pseudo-efficientista del
berlusconiano venditore porta a porta di polizze assicurative e finanziarie,
dall’imbonitore televisivo dei vari “Aiazzone” e “Grappeggia”,
del mobile moderno o antico “in legno massello” ed “estremamente valido”, e
nella pianificazione urbanistica “convenzionata” e “contrattata” di
dislocazione nel territorio dei relativi “capannoni” (PIP, quasi interi comuni
destinati a zone industriali D, etc.), che trovano una prima vivace
caratterizzazione e ricostruzione anche teorica nel personaggio del brianzolo
venditore di divani “Lillo” del simpatico attore comico lombardo di Luino
(quindi quasi svizzero) Massimo Boldi (“vien
zue a trovarmi”).
In
quel punto di implosione si viene a determinare l’intersezione con l’altro
elemento portante del sistema idiocratico, ossia la
sua compenetrazione strutturale, quindi anche fisica, di quelle attività con
beni demaniali e pubblici, con devoluzioni di quote di potere sovrano
attraverso il monopolio della moneta, resa artificialmente risorsa “scarsa” e
“limitata” attorno alla quale competere –laddove si tratta, in quanto virtuale,
di risorsa intrinsecamente inesauribile- con il meccanismo delle cosiddette
concessioni di servizio pubblico –che sono in primo luogo concessioni di poteri
autoritativi-, con la conseguenza che la proposta di contabilizzazione nei
bilanci degli enti pubblici territoriali del valore di stima di mercato (metodo
“Lange”) di quei beni e di quei servizi, taglierebbe l’erba sotto i piedi di
quel sistema idiocratico, che si nutre esattamente
dell’appropriazione esclusiva di quel valore, che non risulta né dai bilanci
pubblici, né da quelli “privati” aziendali.
Questi
“privati”, infatti, si giovano dell’imponente valore economico di quei beni, di
quel suolo, di quelle concessioni in esclusiva della titolarità di servizi e di
poteri, che quindi vengono sottratti alla generalità degli individui, con una
perdita secca, dato che il trasferimento di ricchezza e di risorse dalla
collettività al soggetto privilegiato non viene evidenziato né politicamente,
né giuridicamente, o almeno non contabilmente, non consentendo al cittadino
comune di acquisire la consapevolezza che il suo impoverimento non è frutto di
“spontanei” e “naturali” meccanismi di mercato, ma di scelte
politico-amministrative che tengono celato quel trasferimento forzoso di potere
e di ricchezza, spacciato per “scelta pubblica” ed effettuata a tutela di
“interessi pubblici” del tutto indeterminati e imprecisati, come nel caso delle
cartolarizzazioni immobiliari.
Sicché
il profitto dell'idiocrate si fonda sistematicamente
sulla legislazione coercitiva, sull'obbligo di stipulare contratti di
assicurazione, sull'obbligo di versare importi a titolo
"previdenziale", sull'obbligo di adesione a questa o quella
corporazione, sull'obbligo di acquistare caschi di protezione, cinture di
sicurezza, giubbotti catarifrangenti, sedie a cinque piedi invece che a
quattro, su obblighi di manutenzione periodica, sull'obbligo di
ristrutturazione di impianti elettrici, in assenza di che -data la mancata
previsione del reddito di esistenza, conseguente all'occultamento delle ricchezze
comuni- intere categorie non saprebbero come guadagnarsi da vivere, stante
l'assenza di una domanda di mercato in tutti quei settori.
A
tale fenomeno si accompagna una devastazione culturale e delle idee, dato che i
soggetti che si locupletano attraverso l’uso forzoso della mano pubblica, fanno
ciò ammantati dell’ideologia e della formula politica “liberista” e delle
“privatizzazioni”, sicché chi ne denuncia il carattere truffaldino si espone
alla facile contraccusa di “statalismo”, laddove al contrario è palese che gli
“statalisti” sono esattamente coloro i quali, costituiti in cartello idiocratico attorno alla sovranità, utilizzano gli
strumenti formali e di coercizione materiale per acquisire e, in questo senso
sì, “privatizzare”, risorse che sono originariamente comuni, sovrapponendo
abusivamente l’idea che una risorsa comune sia “statale”, e che quindi sia
“statalista” chi rivendica il carattere comune della risorsa sottratta ed
impossessata unilateralmente dai soggetti in grado di accedere agli strumenti
propri della coercizione statale.
Si
direbbe perciò che siamo innanzi a un gioco delle tre carte, a un cambiare le
carte in tavola di portata storica, che ha indotto in errore anche i critici di
sinistra, convinti davvero di essere in lotta contro un sistema “capitalistico”
e “di mercato”, nel quale però l’elemento capitalistico è totalmente assente,
dato che l’idiocrate non rischia mai capitale proprio
in vista della produzione di un profitto sulla base del consenso dei
consumatori; in realtà non rischia nulla, se non di soccombere nella
competizione in senso lato politica, ivi compresa l’eventualità che il popolo
dei “consumatori” smascheri l’imbroglio, determinando, con il venir meno alla
radice del consenso al sistema, il suo crollo e appunto la sua “implosione”.
Tale
prospettiva risulta del resto agevolata dall’attuale assetto dei poteri, una
volta individuato il bandolo della matassa dell’intreccio pubblico-privato
nell’istituto concessorio beni-servizi, e guadagnata
consapevolezza collettiva e il conseguente favorevole rapporto di forza.
Il
carattere formalmente “privatistico” dei soggetti egemoni nell’idiocrazia rende agevole, sul piano tecnico e teorico,
l’obiezione che costoro non possono sensatamente e legittimamente rivendicare
esclusive e “appartenenza necessaria”, pena l’incorrenza
nell’istituto dell’abuso di posizione dominante, a dir poco, data
l’irrazionalità della pretesa che ne determina ipso facto la nullità (voidness),
conseguenza del resto implicita nello stesso istituto, che ha consacrato
l’illiceità continentale dello ius abutendi.
E il fatto che i beni demaniali siano rimasti pubblici e non siano stati mai
privatizzati, se non nell’uso –ma in vari casi vale l’istituto dell’accessione
con riferimento alle costruzioni accessorie e pertinenziali-, rappresenta un
vantaggio, dato che ciò consente di procedere alla mera contabilizzazione loro
e dei servizi dagli stessi consentiti (strade e autostrade, anzitutto, ma anche
coste, lidi, spiagge, demanio idrico, il cielo, sulla base del principio per il
quale la proprietà si estende usque ad sidera et inferos, e quindi
il sottosuolo, cave, torbiere, miniere, e ancor più in profondità, etc.), senza
la necessità di ricorrere a complesse e politicamente delicate procedure e
operazioni espropriative -se non con riferimento ai beni degli enti
ecclesiastici, salvo approfondimento della natura giuridica del loro possesso
da parte di quegli enti alla luce del concordato e del trattato con la “Santa
sede”-, dato che si tratta di beni già ab origine “nazionali”, che non
richiedono alcuna ulteriore “nazionalizzazione”, ma solo l’atto formale del
loro riconoscimento, della loro individuazione e della loro contabilizzazione.
Una
volta private del supporto finanziario virtuale in esclusiva, dell’uso del bene
demaniale e dei privilegi normativi costitutivi di monopoli e riserve, le
aziende capisaldo del sistema idiocratico
(istituti di credito, società di assicurazione, enti di assistenza e previdenza
pubblici e privati, sistema dei mass-media radio-televisivi, sistema integrato
della sanità pubblico-privata, caso tipico in cui l’intervento pubblico
massimizza i profitti privati, produzioni assistite dalla legislazione
vincolistica e di “obbligo” di rifornimento, etc.), semplicemente si
affloscerebbero, dissolvendosi nel mercato aperto, avviando quel processo di
transizione dalla fuoriuscita dell’istituto burocratico-aziendale, del quale
abbiamo parlato in passato, soprattutto alla luce del primo elemento, il
superamento dell’esclusiva nella monetarità virtuale
e la diffusione universale di questa.
Con
la generalizzazione della virtualità monetaria (“rendita di esistenza”, libero
conio) verrebbero inoltre meno tutti i parassitari passaggi della filiera
commerciale imposti solo dalla necessità di giustificare redditi e rendite
monopolistiche, dato che i soggetti coinvolti sarebbero liberati dal legame a
situazioni lavorative prive di significato imprenditoriale, che, per
“giustificare” artificiose distribuzioni di denaro, incrementano dolosamente i
costi di transazione e vivi -invece che ridurre quelli naturali o inevitabili,
date fisicità e dimensione spazio-temporale, come sarebbe tipico dell’essenza
di una funzione imprenditoriale vera e propria-, con la conseguenza che oggi,
ad esempio, bibite che sono poco più di una spruzzata d’acqua, zucchero e
colorante costano l’equivalente di migliaia di lire, invece che pochi
centesimi, o di essere distribuiti gratuitamente al consumatore!
Una
volta ravvisata la superfluità e il carattere meramente emulativo delle aziende
protette dalla legislazione e dalla finanza amministrata e riassorbite queste
nel mercato, o comunque venutone meno il carattere privilegiato in caso di
servizi effettivamente utili, i loro beni, ove non siano immediatamente
riutilizzabili sulla base dei principi civilistici, potrebbero costituire
oggetto di una procedura espropriativa trilaterale ai sensi della legge del
1865, che consente il trasferimento della titolarità di un bene, non allo Stato
–questo il contributo innovativo della nostra proposta di “transizione”
rispetto a quella marxiana, ma a terzi, e quindi in favore di società o di
cooperative, non in mano “pubblica-statale”, ma delle quali ogni cittadino sia
titolare di un’azione, o di una quota negoziabile, di pari valore,
determinando, con la socializzazione di quei beni, il loro affidamento a un
effettivo mercato paritario e in equilibrio –ogni singolo individuo sarebbe,
come detto, titolare di una pari quota-, e non a un mercato fittizio, come è
avvenuto nel caso di dismissioni e cartolarizzazioni nel quindicennio che
abbiamo alle spalle, dai provvedimenti Amato del 1992 a quelli Tremonti della
legislatura 2001-2006, approccio che però non appare ancora tramontato.
In
definitiva, una nota di ottimismo va però accennata. L’idiocrazia,
insistendo sul proprio carattere privato, scava sotto i propri piedi, perché
nessuno è tenuto a rapporti con privati, che possono essere solo volontari.
Alla luce di tale considerazione, siamo pronti a una rivalutazione del
fenomeno, se scopriremo che in realtà sia il frutto di una strategia
particolarmente acuta di estinzione dello Stato, che richiede solo una fase di
passaggio di sacrificio -così come il fascismo, sulla spinta della propria
sinistra (anche di matrice anarco-sindacalista)
tendeva alla devoluzione delle funzioni statuali a una quantità di soggetti, i
“corpi” e gli enti autarchici, che, nella prospettiva, avrebbe potuto essere a
sua volta considerata una strategia di estinzione dello Stato-. In tal caso, ma
solo in tal caso, chapeaux!
3.
Contabilizzazione
dei beni demaniali e rendita di esistenza.
Occorre
muovere da un apparente assioma: la Terra è originariamente di tutti e non di
nessuno, è res communis e non res nullius.
Perché si tratta di un assioma solo apparente? Perché in realtà si tratta del
corollario di un ragionamento articolato.
Il
punto di partenza, elementare, è che le parole di A, i suoi comportamenti, non
sono in grado da soli di costituire obblighi giuridici in capo a B. Ne deriva
che le apprensioni unilaterali di porzioni di territorio non sono in grado di
costituire, in assenza di consenso, idonea proprietà. Ne deriva ancora che, in
assenza di consenso, dette appropriazioni comportino un compenso in favore dei
non proprietari. Ovvero, che un consenso debba comportare una qualche
compensazione, in assenza di che il non proprietario non può ritenersi
vincolato a rispettare la proprietà altrui.
In
conclusione di tale ragionamento si ricava appunto che la Terra è comunione di
tutti, almeno originariamente. E, come si vede, il fondamento di tale
conclusione è, a dispetto di quello che si potrebbe pensare, libertario e
individualista.
Questa
è la base logica-teorica della rendita di esistenza. La rendita di esistenza è
quell’istituto per il quale un cittadino, per il solo fatto di esistere,
essendo comunque comunista in senso civilistico dei beni della Terra, ha
diritto a una rendita ricardiana sulla propria quota di mondo.
Per
Ricardo, infatti, “Rendita è la parte del prodotto della terra corrisposta al
proprietario quale compenso dell’uso dei poteri originari e indistruttibili del
suolo” ; e poiché, nel geo-comunismo originario, tutti
sono comproprietari pro quota del suolo, quella rendita spetta a tutti in egual
misura, quale compenso per le attività di chi su quel suolo le pratica. In
sostanza, si tratterebbe di individuare il valore di mercato del complesso
degli usi attuali del mondo e, su tale base, calcolare quotidianamente
(attraverso una vera e propria borsa) il valore della nuda proprietà, dividendo
il valore complessivo per il numero degli abitanti della Terra. Ognuno sarebbe
proprietario di una quota di mondo, e tale quota, uguale per tutti, avrebbe un
valore costantemente aggiornato. I possessori di terra sarebbero tenuti a
versare la propria quota in proporzione al valore di mercato del bene
particolare posseduto, che del resto è provvista monetaria sottratta alla
comunità.
A
nostro avviso, come avrò modo di argomentare oltre, non si tratta di un
istituto statalistico (come lo è il reddito di cittadinanza previsto in molti
Paesi d’Europa), tuttavia non v’è dubbio che, in una fase di transizione, dello
stesso debba farsi carico lo Stato. Si oppone di solito a tale genere di
proposte che lo Stato non avrebbe fondi sufficienti per far fronte a un simile
dispendio di costi. Ma si tratta di una mistificazione, come illustrerò.
Ma
vediamo prima la ragione storico-politico dell’istituto che si viene
proponendo. Si dice che, in conseguenza dei processi di automazione in corso,
ad esempio negli Stati Uniti, nei prossimi anni, il 47% dei posti di lavoro
verrà sostituito dalle macchine; si pensi che sono già in fase avanzata di
studi gli aerei senza pilota. Infatti ciò non vale solo per i lavori manuali
o di basso livello, ma anche per le professioni intellettuali, che trovano in
Internet un grande strumento di concorrenza. Possiamo cioè immaginare un futuro
senza giudici e senza avvocati, senza commercialisti e senza consulenti del
lavoro, e ben pochi ne sentirebbero la mancanza. E magari la guerra la
farebbero i robot tra di loro, se ai droni di attacco si affiancheranno i droni
di difesa.
Sicché
tutte le invocazioni a difesa del posto del lavoro, alla lotta contro la
disoccupazione, appaiono ormai fuori tempo e reazionarie, come reazionarie da
moltissimo tempo appaiono le politiche sindacali, tutte tese a difendere
un’etica del lavoro, perniciosa e oramai senza ragion d’essere, come
argomentarono, in tempi assai lontani Paul Lafargue e
Bertrand Russel, con le loro apologie dell’ozio. Del
tutto illusorie appaiono perciò le affermazioni di alcuni, secondo le quali il
mercato, una volta persi i posti di lavoro, ne creerebbe di nuovi. A parte il
fatto che non necessariamente ne creerebbe per chi il lavoro l’ha perso, ciò
poteva forse valere una volta, ma non oggi, dato che oggi, e sempre di più in
futuro, assistiamo a una rivoluzione strutturale nella direzione del sempre
meno lavoro, e questo francamente non mi sembra un male,
se entriamo nell’ordine di idee di scindere concettualmente “reddito” da
“lavoro”. Quello che conta è che le persone abbiano di che vivere, non che
abbiano di che lavorare, magari in aziende decotte, intasando strade, facendo i
pendolari, inquinando, intristendosi, e chi più ne ha più ne metta. Ovvero
realizzando opere pubbliche keynesiane dannose, come le inutilissime ma
costosissime rotonde che, negli anni scorsi, hanno invaso le nostre città.
Ma,
si diceva, non ci sarebbero le risorse per raggiungere un simile risultato. A
parte il fatto che lo Stato sociale burocratico che oggi conosciamo è
estremamente costoso, ma ha anche il difetto di essere selettivo e autoritario,
ed è tutto da vedere che sia meno costoso dell’ipotesi di una rendita di
esistenza universale ed eguale per tutti, come dicevo, l’idea che lo Stato sia
“povero” costituisce un inganno storico. Si tratta di un esempio di quelli che,
già nel XIX secolo, Amilcare Puviani chiamava
“occultamenti di ricchezza”.
Già
nel 1896, infatti, Antonio Labriola scriveva che, con l’evoluzione storica, lo
Stato “è dovuto divenire una potenza economica”, in particolare “nella diretta
proprietà del demanio”, oltre che “nella razzia, nella preda, nell’imposizione
bellica” . Si trattava dell’eredità dello Stato
patrimoniale, di quelli che già per A. Smith erano i beni di sua proprietà per
il sostentamento del principe, oltre che per gli spostamenti delle truppe.
Oggi
questo demanio è sterminato, ma, questo è il punto, non viene contabilizzato,
oltretutto in ispregio al principio di “veridicità”
del bilancio: strade e autostrade, porti e aeroporti, impianti energetici, beni
storici e artistici, coste, acque territoriali, fiumi, laghi, risorse naturali
degli enti locali, miniere, cave, armamenti, strade ferrate, l’etere, che viene
dato in concessione alle emittenti televisive per scarso corrispettivo, così
come le coste vengono “privatizzate” con concessioni novantanovennali
per pochi denari. E poi nemmeno le corpose riserve auree (da noi 2.500
tonnellate) vengono contabilizzate.
Eppure
tutti dicono che lo Stato è “povero”, che ha un immane deficit di bilancio, una
voragine di debiti, che non ha di che spendere: eppure stranamente, quando la
politica vuole, lo fa.
Questi
beni incarnano il potere sovrano, sono gli strumenti della supremazia, quelli
che fanno di uno Stato uno Stato: però lo Stato sarebbe anche “povero”. Come
ciò sia possibile merita una spiegazione, perché avrà anche una spiegazione il fatto che lo Stato
rivendica il monopolio monetario, ma anche un’imposizione fiscale elevatissima,
pur senza averne bisogno, alla quale corrispondono servizi a volte modesti, a
volte faraonici.
Vige
in proposito una prassi, che se vi fosse consapevolezza verrebbe ridotta a
“trucchetto contabile”: il valore di quei cespiti non è iscritto nel bilancio
dello Stato! Lo Stato è ricchissimo e non lo sa, o finge di non saperlo e non
vuole che si sappia. Si comporta come un miliardario che possiede otto ville,
il quale vantasse la propria povertà, perché delle ville vedesse solo i… costi
di manutenzione.
L’art.
2424 c.c. impone che i cespiti immobiliari siano iscritti in bilancio
all’attivo, ma lo Stato non applica a sé il codice civile, è il “diritto reale”
attraverso il quale istituzionalmente si pratica lo ius
abutendi, e quindi non iscrive quei beni, perché non
li tratta da ricchezze quali sono, ma da oneri, da un lato, e da immateriale scettro
mistico, dall’altro. Ma la tendenza evolutiva dell’ordinamento giuridico va nel
senso di applicare anche allo Stato i principi civilistici, sicché quei
pretesti non convincono più.
In
base a quale ordine di idee razionale, una società privata iscrive in bilancio
il valore di un terreno, e quel valore dovrebbe volatilizzarsi, una volta che
il terreno fosse espropriato da una pubblica amministrazione? Il valore
d’estimo resta evidentemente lo stesso.
Se
tutti i beni suddetti fossero iscritti a valore di mercato nel bilancio dello
Stato, questo andrebbe immediatamente all’attivo, e cesserebbe la litania della
“voragine dei conti pubblici”, che giustificherebbe l’alta tassazione, oltre al
chiacchiericcio televisivo e alle stucchevoli controversie con l’Unione
europea. Portando il bilancio all’attivo, quei valori diverrebbero innanzitutto
provvista monetaria (vale più il contenuto del caveau di una qualunque banca
centrale, o quello del Louvre? I monumenti di Roma o le riserve della Banca
d’Italia?) Nemmeno le corpose riserve auree, come detto, vengono iscritte in
bilancio, dato che viene attribuito loro solo un valore “psicologico” a
sostegno del prestigio della sovranità statale.
A
questo punto si delinea un bivio tra due scenari: uno statalista, l’altro libertario.
Se da un lato valorizzare le ricchezze pubbliche può far pensare a uno
Stato-monstrum, dall’altro, il valore della rendita di esistenza sarebbe
talmente elevato che, in prospettiva, lo Stato cadrebbe da sé, dato che ognuno
non avrebbe bisogno che di agenzie di intermediazione monetario e lo Stato non
avrebbe più nulla da fare.
Saremmo
di fronte a una contraddizione dialettica tra l’esercizio di un potere,
distribuire denaro, e il carattere “suicida” di tale esercizio, che
consentirebbe a ognuno di ignorare lo Stato per tutti gli altri servizi che lo
Stato pretendesse di fornire a cittadini resi ricchi e ampiamente
autosufficienti. Il tutto, si badi, senza necessità di marxianamente
nazionalizzare alcun bene, dato che quei beni sono già dello Stato, anche se
dissimulati.
Lo
Stato verrebbe ridotto a un documento, il suo bilancio, che sarebbe un
simulacro, un semplice rendiconto dell’avvenuto trasferimento di valore, e
quindi di potere, alla società.
Pagare
per andare in spiaggia è come pagare per vedere le gambe della moglie: si paga
per usufruire di beni demaniali, quando dovremmo essere noi a essere pagati,
trattandosi di beni già nostri.
Eppure
si tratta di beni, di cespiti, che oggi come oggi non vengono nemmeno
contabilizzati nei bilanci pubblici. Si parla infatti di un principio di “invalutabilità” dei beni demaniali, “che si spieg(herebbe), come dice la
manualistica di Contabilità dello Stato, considerando l'essenza dei beni
demaniali e la loro rilevata strumentalità rispetto ai fini dell'ente al quale
sono affidati” . In altre parole, i beni demaniali
vengono fatti afferire alla sovranità e vengono perciò sottratti al mercato e
al suo giudizio. E infatti, prosegue questa manualistica, “I beni demaniali non
vengono valutati, in conformità al principio che essi sono extra commercium
e che lo Stato ne può disporre soltanto ricavandone le utilità di cui sono
suscettibili ma non può considerarli come elementi attivi del suo patrimonio” . Dal che si ricava che la sovranità statuale, in tali
casi, esprime il proprio dominio anche, e forse soprattutto, attraverso un
substrato materiale oltremodo consistente -basti por mente all’art. 822 c.c.- e
non solo, come solitamente si ritiene, sull’”opinione” e l’astrazione: il suo
carisma è nutrito di carne, non solo di credenze.
Del
resto, se una società privata per azioni iscrive in bilancio all’attivo i
propri “beni immobili” (art. 2424 c.c., c. 1, 1° cpv., n. 2), e lo stesso fanno
le società in mano pubblica, non si vede perché solo lo Stato e gli altri enti
territoriali debbano ignorare di possedere beni immobili e fondiari oltretutto
immensi e immani. Se ne ricava che il bilancio dello Stato sia un bilancio
senza cespiti, l’unico noto con tale bizzarra caratteristica.
Potrebbe
solo sorgere il dubbio che, in quanto beni demaniali astrattamente
incommerciabili, essi siano privi di valore di mercato, e che quindi sia arduo
contabilizzarli con un valore assegnato, sia pure alla “Lange” , come del resto
già avviene con la liquidazione bonaria dei sinistri da parte dei periti delle
società di assicurazione, o nelle perizie contabili; il dubbio però è privo di
fondamento, dato che i beni hanno necessariamente un valore: se un terreno ha
valore nel momento in cui è in mani private, non può cessare di possederlo a
seguito di un esproprio, o della sua conseguente apprensione alla mano pubblica
attraverso altra forma. Come che sia, per fugare ogni ombra, basterebbe
assegnare detti beni a una public company cooperativistica nelle mani di tutti
i cittadini, formalmente operante sul mercato, e quindi soggetta al citato art.
2424 c.c., di tal che i beni acquisterebbero, anche formalmente,
commerciabilità, anche se ben difficilmente potrebbero darsi privati in grado
di acquistarli in toto, in grande, o in buona parte. Sicché la loro
destinazione più adeguata pare quella dell’uso civico condominiale, formalmente
privato, ma a destinazione pubblica.
In
ogni caso, la circostanza che quei beni, iscritti direttamente nel bilancio
statuale o nel bilancio di una società pubblica allegata al bilancio dello
Stato, e quindi parte della finanza pubblica allargata e del bilancio
consolidato, non siano in concreto destinati alla vendita, non comporta la loro
sottrazione teorica al mercato, e quindi l’invalutabilità,
allo stesso modo in cui il bene immobile di una società privata, il cui valore
sia iscritto in bilancio, non cessa di esprimere questo valore, pur quando non
vi sia alcuna intenzione di cederlo, e quindi esso sia, in concreto, sottratto
al “mercato” solo da questo punto di vista. In altri termini, l’essere dotato
di un valore di mercato costituisce, per un bene, una nozione distinta dalla
sua destinazione all’effettiva circolazione nel mercato stesso in senso
materiale. Con l’ulteriore vantaggio che, iscrivendo il bene, senza cederlo, in
bilancio, pubblico o privato, esso esplica la propria capacità di esprimere il
proprio valore esercizio dopo esercizio, e non un’unica volta, all’atto della
vendita.
Prendiamo
il caso dell’Autostrada del Sole: non si tratterebbe solo di contabilizzare il
colossale valore economico del bene “stradale”, ma anche e soprattutto della
sua capacità di produrre e fornire un servizio economico autonomamente
valutabile, che è quello di consentire il trasporto privato, un intensissimo
via vai che ha un valore di proporzioni “incommensurabili”; si tratta in
concreto di dotarsi di strumenti aggiornati di stima (vi sono vari istituti che
fungono da precedenti ispiratori, di utilizzo di quello che chiamiamo
"metodo Lange" di valutazione del bene, alla luce degli andamenti di
mercato: dalle perizie automobilistiche sui danni, a quelle per le indennità di
espropriazione, alle due-diligence nelle
M&A tra società), che ne consentano una contabilizzazione, che forse da
sola (si pensi poi al resto: anche solo spiagge, ma montagne, fiumi, laghi,
acque costiere, usi civici e altro) basterebbe a portare in pareggio, e oltre,
il bilancio dello Stato e a consentire di tagliar corto con la falsa polemica
della bufala della “voragine del deficit”, normalmente agitata in danno delle
classi deboli, e non certo dei grandi appaltatori e concessionari di opere
pubbliche, solo per fare un esempio.
In
ogni caso, inserire o no i beni demaniali e pubblici nelle poste attive del
bilancio dello Stato è in realtà, in regime di statualità,
una scelta di diritto positivo, sicché, una volta constatati i benefici
dell’opzione positiva, sarebbe demenziale rinunciarvi. Ad esempio, Jacques
Attali ha scritto che non esistono regole rigide e tassative per redigere un
bilancio pubblico, e che l’Italia, con il suo gigantesco patrimonio monumentale
e artistico, potrebbe permettersi un deficit ben superiore a quello, per fare
un caso, dell’Ucraina. Ma si tratta di approccio approssimativo; perché allora,
per essere più precisi, non contabilizzare direttamente quel patrimonio
monumentale e artistico, invece che andare a spanne?
Del
resto, un radicale e liberista, Antonio De Viti De Marco, già molti decenni fa
rilevava che “Il ‘patrimonio’ dello Stato consta dei beni che lo Stato
possiede, amministra e fa valere come un qualunque privato proprietario o
industriale, sottostando alla comune legge giuridica, che regola per tutti i
cittadini il diritto di proprietà, e alla comune legge economica, che regola la
formazione del prezzo dei beni privati” : sicché, a identità di “legge
giuridica” tra bene di proprietà privata e bene di proprietà pubblica non può
che corrispondere identico criterio di formazione del relativo bilancio, con
conseguente iscrizione in esso di tutti i cespiti posseduti.
Tutto
quanto precede ci consente ora di essere più precisi, passando a delineare i
contorni di una prima prospettiva concreta, per quanto ripetutamente accennata.
Se il mondo è originariamente di tutti, e non di nessuno, è escluso, come si è
visto, che atti unilaterali di apprensione possano sottrarre beni alla
comunione, se non nei limiti dell’uso e della disponibilità di ciascuno ad
acconsentire a che tale uso avvenga: la comunione è sempre vigente, in assenza
di atti espliciti di alienazione delle quote. Ne deriva che ognuno ha diritto a
vedersi riconosciuto da parte dei singoli “proprietari” (che sarebbero solo
degli usufruttuari-concessionari) un canone, per dir così, di locazione con
riferimento alla propria quota di mondo, o meglio, di affitto
, trattandosi di concessione di un’attività imprenditoriale, in senso
lato di usufrutto di impresa. Ovvero ancora, per esprimerci in termini
tecnico-economici, di una rendita per la proprietà comune della terra data
appunto in uso al singolo titolare di diritto reale parziario.
La
necessità di una rendita di esistenza in forma monetaria si propone solo in un
contesto produttivistico, nel quale vi siano beni di consumo da acquistare,
sicché la produzione di ricchezze ulteriori rispetto a quelle naturali finisca
con l’attribuire un senso a quella dotazione originaria, che può così essere
spesa nel mercato particolare di quei beni di consumo. In caso contrario, data
la vastità delle risorse naturali a disposizione, non v’è nemmeno bisogno di
moneta per acquisire ciò che la natura offre direttamente, e che può costituire
oggetto di apprensione individuale senza alcuna mediazione altrui, o per
trasformare la natura, da soli, o in unione con altri.
Ora,
prendendo comunque le mosse dall’intuizione della rendita di esistenza
correlato al valore della quota di nuda proprietà della Terra spettante a
ciascun singolo individuo diviene indispensabile comprendere a quanto
effettivamente ammonti questa quota, per capire se essa rappresenti davvero per
ognuno una fonte di reddito sufficiente per sopravvivere e per vivere almeno
dignitosamente; e per far ciò occorre, evidentemente, comprendere a quanto
ammonti il valore complessivo della produzione mondiale, momento dopo momento,
della cui “impresa” ognuno sarebbe usufruttuario in comunione. Orbene, secondo una
stima del WWF Internazionale pubblicata a pagina 2 del “Manifesto” del 25
ottobre 2006, , competerebbero a ciascun singolo
individuo la bellezza di 2,2 “ettari globali” per individuo abitante del
pianeta, il che davvero non sembra giustificare l’attuale stato di miseria, nel
quale versano oggi molti esseri umani nel mondo, dato che lo slogan del giorno
potrebbe essere ormai, nemmeno più “tutti proprietari”, ma addirittura “tutti
latifondisti”.
Stabilite
le premesse teoriche, il problema che si pone al movimento libertario è di
saper dare, almeno in una logica di second best -nella
prospettiva del free-coinage integrale
fondato sulla provvista monetaria delle risorse naturali a tutti comuni-, una
praticabilità “non statalista”, non “da Stato mondiale”, a tale procedimento
(guardando cioè già oltre la fase della transizione), per non incorrere nelle
note secche della tassazione e dello Stato sociale e dei suoi istituti
discrezionali, o meglio arbitrari, di distribuzione del reddito.
Si
potrebbero allora immaginare agenzie in concorrenza, anche con banche dati
comuni (misura antitrust, a dispetto
delle apparenze) continuamente aggiornate, le quali procedano ai conteggi,
confrontabili in modo da verificarne l’attendibilità; e garantiscano la
riscossione e la distribuzione degli importi, sicché il non contribuire
andrebbe in danno quantomeno della reputazione (Nozick
parlava di un distintivo da portare all’occhiello a riprova del versamento
effettuato); per quanto non sia da escludere l’ipotesi della riscossione
coattiva su azione diretta degli interessati, una volta che quella
corresponsione sia concepita come vero e proprio diritto di tutti.
Al
di là delle soluzioni pratiche, quel che conta è che un “proprietario” che non
versi la propria quota di “rendita” ai “non proprietari” sia considerato un
possessore non “convalidato”, non avendo acquistato dal prossimo l’astensione
di questi dall’uso della forza: ma solo di fatto, fondato cioè solo sulla sua
capacità di difendere con la forza il proprio possesso, e quindi esposto alla
reciprocità e alla ritorsione, oltre che al danno alla reputazione e alla
considerazione, e quindi passibile per ciò solo di ostracismo e boicottaggio da
parte di altri individui.
In
altri termini, ciascun aspirante possessore può anche operare una valutazione
di convenienza, se pagare la quota o rinserrarsi nel bene posseduto, assoldando
magari armigeri a tutela di questo; ma, in tale ipotesi, si esporrebbe al
giudizio degli altri, assumendosene la responsabilità. Si noti, per altro
verso, che l’istituto da noi proposto, nonostante le apparenze, non solo non
costituisce imposta, ma è semmai il suo esatto contrario; dato che una
“imposizione”, un “diritto di albinaggio”, proviene da chi eserciti il
controllo individuale del territorio ed esprime il suo dominio su chi non lo
controlla; mentre nel nostro caso si tratta di un compenso dovuto proprio da
chi pretenda un controllo sul territorio, a favore di chi non lo controlli,
come compensazione per l’astensione da un impedimento da parte di costui.
L’istituto è quindi civilistico e non tributaristico, cioè non pubblicistico:
c’è una corrispettività volontaria che manca nell’imposizione.
Nell’immediato,
ripetiamo, la nostra proposta si fonda sulla disponibilità di immense riserve
di beni cosiddetti demaniali, o comunque delle risorse naturali di proprietà
pubblica, che fungono da corposa provvista monetaria, tanto da subito pubblica,
quanto in prospettiva privata e sociale.
Ma
perché, anche nell’immediato, e non solo nei discorsi un po’ utopici di
prospettiva, la nostra proposta non è “statalista”, come qualcuno ci ha
rimproverato? Per i seguenti motivi, in parte già accennati.
a) Innanzitutto, corrispondere a ciascuno
direttamente una corposa rendita periodica, comporterebbe ipso facto lo
smantellamento dell’attuale stato sociale, autoritario, selettivo,
discriminatorio, e verrebbero spazzati via tutti i cosiddetti “diritti
sociali”, che sono settoriali e non sono universalizzabili (diritto al lavoro,
diritto alla salute, diritto allo studio, diritto alla casa, etc.), e che, come
ha mostrato da ultimo Guido Corso, entrano in patente contraddizione con i
diritti fondamentali di libertà;
b) In secondo luogo, non solo la nostra
proposta non comporta imposizione fiscale, ma anzi la ridurrebbe e, in
prospettiva, la estinguerebbe, in quanto non più necessaria;
c) Infine, dai punti che precedono,
deriverebbe la devoluzione al mercato e alla comunità di tutte le funzioni di
servizio pubblico, ma in un mercato costruito, si badi, su basi egualitarie,
dato che la rendita di esistenza sarebbe eguale per tutti, ferma restando la
possibilità di incrementi consensuali ulteriori.
Si
tratta, in definitiva, di una proposta democratica e libertaria, nella
direzione tanto della certezza del diritto, quanto del deperimento del potere,
quanto della democrazia, se è vero che il mercato egualitario decentrato è, per
quanto se ne sa, il sistema più democratico tra quelli conosciuti.
PARTE
SECONDA
DIRITTO
E POLITICA
1.
Stato
di diritto e “Preambolo allo Statuto” del Partito
Radicale.
Come
si diceva nell’introduzione, Marco Pannella nasce liberale: il partito
radicale, nel quale egli costituì, con altri giovani, all’inizio degli anni
’60, la sinistra interna, nacque come “Partito Radicale dei Liberali e dei
Democratici Italiani” nel 1955. La sinistra ereditò poi un partito in fase di
scioglimento, e lo condusse nell’attraversata nel deserto degli anni ’60,
conducendo varie battaglie, la più nota delle quali fu quella per
l’introduzione dell’istituto divorzile.
Pannella
ebbe però, lo si ricordava, anche una fase più libertaria, anzi “anarchica”
negli anni ’70, almeno al livello delle dichiarazioni di principio.
Nella
sua nota prefazione al citato libro di Andra Valcarenghi,
che fu festosamente salutata da Pasolini come il manifesto del radicalismo
italiano, Pannella scriveva: “Non credo
al potere, e ripudio perfino la fantasia se minaccia d’occuparlo” (detto
tra parantesi, Pannella faceva benissimo a diffidare della fantasia al potere,
dato che Hitler e Pol Pot
erano fantasiosissimi…).
E
poi, in vari interventi congressuali, ai quali abbiamo assistito personalmente
(in assenza di scritti, è a questi che occorre spesso far riferimento per
comprendere il pensiero pannelliano), Pannella si dichiarava a favore del
“deperimento del potere”, e individuava nel “diritto” lo strumento di tale
processo di deperimento, da condurre “un millimetro al giorno, nella giusta
direzione”.
Oggi,
invece, Pannella fa più volentieri riferimento al concetto di “Stato di
diritto”, e dice che i radicali conducono battaglie in suo nome e per la sua
difesa, magari, opportuna precisazione, contro la “ragion di Stato”; e si noti
che i documenti del Partito Radicale Transnazionale traducono la locuzione
“Stato di diritto” con quella di “Rule of Law”,
benché le due espressioni non siano totalmente coincidenti e sovrapponibili,
perché la prima sembra più riconducibile allo Staatsrecht tedesco, che è altra cosa, ossia il diritto promanato dallo Stato,
mentre la seconda, di stampo anglosassone, implica (come notò per primo
Tocqueville) l’applicazione diretta della Costituzione da parte dei giudici
ordinari, nonché dei principi generali del diritto, e la judicial review, ossia lo sottoposizione rigorosa
di quel diritto al controllo giurisdizionale di legittimità.
Senonché,
tra la fase “deperimento del potere” e quella “Stato di diritto” si colloca,
nel 1980, il “Preambolo” allo Statuto del Partito Radicale, l’opera teorica,
succinta, ma più ambiziosa, sin qui, del Marco Nazionale, che sembra dire cose
ancora diverse, anche se in parte contraddittorie, o suscettibili di
interpretazioni contrastanti.
Diciamo
subito che il concetto di “Stato di diritto” ci fa venire in mente
quell’efficace espressione emiliana, che suona così: “Legare il cane con le
salsicce”. Lo Stato che pone quel diritto che dovrebbe legare lo Stato, ma lo
Stato, preteso monopolista della produzione giuridica, può ad libitum porre nuovo diritto in sostituzione di quello che
dovrebbe vincolarlo! Altri ha descritto tale situazione con la metafora della
cintura di castità, di cui i politici hanno la chiave, ma quella emiliana pare
più simpatica, in effetti. Come dice Pannella, la “grande utopia dello Stato di
diritto”: la legge (le salsicce) che dovrebbe governare gli uomini (il cane), ma
sono gli uomini a governare la legge, sicché il cane si mangia agevolmente le
salsicce: grande utopia, ma più utopistica dello stesso anarchismo, a meno di
non avvelenare le salsicce, ma in tal caso non avremmo più neanche il cane…
Ma,
si diceva, i radicali fondano la politica del rispetto dello Stato di diritto
sul Preambolo del loro statuto. In realtà tale testo appare più complesso, e
non risulta sia stato mai studiato fino ad ora dal punto di vista della
dottrina giuridica, sicché ci compiacciamo di apprestarci a farlo noi.
Può
leggersi dunque in questo testo che il partito “proclama il diritto e la legge,
diritto e legge anche politici del Partito Radicale, proclama nel loro rispetto
la fonte insuperabile di legittimità delle istituzioni, proclama il dovere alla
disobbedienza, alla non-collaborazione, alla obiezione di coscienza, alle
supreme forme di lotta nonviolenta per la difesa, con la vita, della vita, del
diritto, della legge”.
Il
partito, poi, “Richiama se stesso, ed ogni persona che voglia sperare nella
vita e nella pace, nella giustizia e nella libertà, allo stretto rispetto,
all'attiva difesa di due leggi fondamentali quali: La Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo
(auspicando che l'intitolazione venga mutata in "Diritti della
Persona") e la Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo nonché delle
Costituzioni degli Stati che rispettino i principi contenuti nelle due carte;
al rifiuto dell'obbedienza e del riconoscimento di legittimità, invece, per
chiunque le violi, chiunque non le applichi, chiunque le riduca a verbose
dichiarazioni meramente ordinatorie, cioè a non-leggi”.
Notiamo,
anzitutto, che Pannella intelligentemente non ha parlato di “Stato”, ma di
“istituzioni”. Lo Stato è solo una delle istituzioni che deve rispettare il
“proprio” diritto per essere “legittima”.
Emerge
qui una concezione non necessariamente statalistica, ma istituzionalistica, nel
senso di Santi Romano, del diritto. Ma se si vuole essere coerentemente non
statalisti e non formalisti nella concezione del diritto, bisogna occorre far
riferimento anche al diritto consuetudinario, alle convenzioni tacite percepite
come più o meno vincolanti, al diritto delle istituzioni spontanee, al diritto
delle “pretese” di Bruno Leoni, al diritto dei contraenti, al diritto
evoluzionistico, al diritto di formazione individuale e comunitaria, etc.
Ora,
quid iuris
di tale “diritto” per il “Preambolo” pannelliano? A rigore, un radicale
dovrebbe disobbedire, non collaborare, ricorrere alle supreme forme di lotta
nonviolenta per il rispetto di qualunque norma giuridica, da chiunque posta in
essere? E a che scopo?
Abbiamo
assistito a radicali locali prendere un po’ troppo alla lettera la lezione
pannelliana, e digiunare per il rispetto, da parte del comune, di regolamenti
locali insignificanti, magari giustamente disapplicati dall’istituzione locale,
quando sappiamo che la sociologia del diritto ci insegna che esiste una
quantità di norme inutili e dannose che per
fortuna non sono applicate (si pensi a certi demenziali limiti di velocità,
magari residuo di lavori antichi sulle carreggiate). E allora dovremmo
scomodare le supreme forme di lotta nonviolenta per fare applicare tutta questa
inutilità? Dovremmo digiunare perché la mafia (istituzione nel senso di Santi
Romano, come ha dimostrato uno studio di Giovanni Fiandaca) rispetti il suo
codice d’onore? Se chi scrive stilasse una “G.U. di Fabio Massimo Nicosia”,
contenente i nostri criteri di azione, probabilmente quel simpatico radicale
locale, che conosciamo personalmente nel suo impeto battagliero, digiunerebbe
perché noi li rispettassimo, ma a lui che gliene cale? Noi in passato avevamo
affrontato il problema nel saggio “L’anarco-capitalismo
come ordinamento giuridico”, nel quale ci eravamo chiesti quale fosse il
rapporto tra compagnia di protezione e cittadino che non ne facesse parte,
concludendo che questi fosse legittimato a invocare il rispetto delle procedure
di essa una volta che questi venisse in contatto con la stessa, subendone la
sanzione, diversamente vi sarebbe estraneità tra i due soggetti. E in effetti
lo stesso vale anche nel rapporto con lo Stato, secondo la dottrina liberale,
se è vero che, come ha riconosciuto persino Costantino Mortati (quindi
originariamente un non liberale), una cosa è il cittadino, una cosa è lo Stato.
E allora dovremmo forse digiunare perché gli Stati che prevedono la pena di morte
la applichino indefessamente, pena la loro illegittimità? In effetti, sembra
talora che in tal modo i radicali non abbiano un contenuto di proposte autonomo
da avanzare, ma si rimettano al diritto vigente di cui chiedono l’applicazione.
Naturalmente non è così, essi chiedono l’abolizione internazionale della pena
di morte, l’abolizione dell’ergastolo, l’instaurazione di un regime
anti-proibizionistico sulle droghe, da ultimo l’inserzione del principio del
diritto di conoscenza nella Carta O.N.U.: ma sulla base di che? Non certo sulla
base del diritto vigente, che non prevede nulla di tutto ciò, ad esempio
nessuna norma di diritto vigente impone il ricorso all’amnistia, che è scelta
opportuna alla luce delle statuizioni della C.E.D.U. ma non necessitata (qualcuno,
ad esempio l’immarcescibile Marco Travaglio, chiede la costruzione di nuove
carceri). Evidentemente, essi hanno principi ulteriori rispetto a quelli della mera invocazione del diritto
vigente, ma quali sono?
Una
risposta, però incompleta, viene dalla seconda parte del “Preambolo”.
Con
la seconda parte i radicali fanno proprio un contenuto positivo, quello dei diritti fondamentali delle Carte O.N.U. e
della Convenzione Europea, nonché delle diverse costituzioni, tutte
espressioni, direbbe Bobbio, di diritto naturale positivizzato, ovvero, come
dice Pannella, di diritto positivo storicamente acquisito. E’
certo moltissimo, ma non abbastanza a supportare le diverse iniziative
radicali. Ad esempio, la carta O.N.U. non esclude la pena di morte e men che meno
l’ergastolo, né parla di anti-proibizionismo o di altro.
Più
pregnante, a questo punto, si rivela invece la terza parte del “Preambolo”.
Essa suona così: Il partito “Dichiara di conferire all'imperativo del "non
uccidere" valore di legge storicamente assoluta, senza eccezioni, nemmeno
quella della legittima difesa”.
Di
primo acchito, la prescrizione appare imbarazzante, anche per le contraddizioni
nelle quali i radicali sono incorsi in occasione delle due guerre del Golfo.
Tuttavia Pannella ha spiegato abbastanza persuasivamente che il “non uccidere”
non implica il “non difendersi”. Ad esempio, diciamo noi, si può sparare alle
gambe di un aggressore, cercando di non ucciderlo per quanto possibile, e sin
qui sta bene.
Quel
che appare più interessante è però la concezione generale del diritto che si
può ricavare da tale “radicale” asserzione. Com’è noto, in tutte le dottrine
classiche del diritto (Thon, Austin, fino a Kelsen e anche a Ross e ai
realisti), la sanzione è supportata dalla forza
della coazione, sicché fondare il diritto sulla nonviolenza è certamente un
tentativo forte, che andrebbe approfondito…
Si
tratta certo di imperativo “cristiano”, ma anche buddhista, e in genere
riconducibile alle religioni orientali, ma anche ebraico, a dispetto delle apparenze
più superficiali, basti pensare al classico del grande rabbino dell’ottocento
Elia Benamozegh, “Morale ebraica e morale cristiana”.
Ma
si tratta anche di un’etica giuridica libertaria: il libertarismo, come noi lo
intendiamo, si fonda sull’iniziativa di un soggetto, il “legislatore
originario”, che imponendo rinuncia,
che costringe l’altro alla cooperazione, dando vita al bene pubblico
indivisibile libertà, nel quale
ognuno sia in grado di perseguire le proprie preferenze in un quadro giuridico
comune costituito da una meta-norma che consenta il dispiegarsi dei diversi
ordinamenti particolari co-possibili. In questo senso, la nonviolenza è laica, perché non fa proprio alcun
contenuto morale prestabilito, ma è compatibile con tutti gli orientamenti morali
configurabili, purché ognuno di essi non pretenda di imporre agli altri il
proprio quadro di riferimento. E’ quanto avvenne nell’America delle origini,
quando, come ricordò Ruffini, le diverse sette “teocratiche” compresero che non
era possibile imporre alle altre la propria teocrazia, e ognuna si ritenne
libera di costituire la propria (si veda in proposito il commovente film “Nel
nome del Signore”, ove si vedono quaccheri e battisti ridere gli uni degli
altri, ma rispettando la reciproca autonomia), e quanto forse si arriverà a
ottenere attraverso i pur tumultuosi processi migratori in corso in nome di un
talora malinteso “multiculturalismo”. Ma su questo necessariamente torneremo.
Resta
il punctum dolens
dell’invocazione della nonviolenza a sostegno di un diritto, quello dello
Stato, fondato, come si è visto, sulla forza, anzi, sulla rivendicazione del
relativo monopolio, il che è anche peggio. Sicché, per uscire dall’empasse, occorre
coniugare e far fare la pace ai due Pannella: chiedere sì, se del caso, che lo
Stato rispetti il suo proprio diritto, ma solo a condizione che ciò sia
funzionale al suo deperimento e al deperimento di ogni potere. Diversamente si
tratterebbe di un’inutile fatica di Sisifo.
2.
La
partecipazione democratica (second best).
Com’è
noto, il movimento radicale, in tutti i suoi ormai lunghi anni di storia, ha
sovente incentrato la propria iniziativa politica sulla partecipazione
popolare, mostrando una singolare fiducia nel coinvolgimento dei cittadini
nella decisione politica. In particolare, attraverso l’attivazione
dell’istituto del referendum.
Diciamo
singolare, con riferimento alle prevalenti, da noi, culture politiche. E’ conosciuta la resistenza di Togliatti all’istituto
referendario in sede di costituente, come è nota l’incredibilmente restrittiva
giurisprudenza della Corte Costituzionale in questa materia, che ha dilatato
enormemente i requisiti di ammissibilità del referendum abrogativo, rispetto a
quanto letteralmente previsto dall’art. 75 della Costituzione.
Il
principio che inconsapevolmente mosso i radicali, che parrebbe ovvio, ma che
tanti ostacoli trova da noi, è che il
popolo non può possedere un potere legislativo inferiore rispetto a quello dei
suoi rappresentanti.
Ma,
se così è, logica imporrebbe che ci si battesse anche per l’introduzione del referendum propositivo, accanto a quello
abrogativo, anche considerando che una legge nuova è sempre anche abrogativa
del quadro giuridico precedente, così come una norma abrogativa è anche sempre
innovativa rispetto a detto quadro giuridico.
In
casa radicale si sono invece talora levate voci contrarie al referendum
propositivo, in nome, si immagina, di una funzione meramente di “controllo” del
voto popolare, ma, come detto, tale posizione non ci pare congruente con
l’aureo principio enunciato.
Se
dunque da noi siamo cantottant’anni indietro rispetto
alla situazione descritta da Tocqueville nella “Democrazia in America”, la
lotta per la democrazia diretta (soggetta spesso a ironie sciocche del tipo
“non siamo in Svizzera”… magari!) deve piuttosto
proseguire ed estendersi.
Ad
esempio proponendo l’elezione diretta, con previsione di recall, dei magistrati, o almeno
dei capi-ufficio, dei procuratori della repubblica, i quali si presentino alle
elezioni con un proprio programma vincolante, in grado di superare l’ipocrisia
della fasulla obbligatorietà dell’azione penale; estendendo, seguendo
l’insegnamento del “municipalismo” di Camillo Berneri,
la democrazia a livello locale, concentrando le funzioni amministrative nei
comuni (giustizia compresa, tranne quella civile, da devolversi sempre di più
ad arbitrati privati, data l’inutile macchinosità dell’odierna costosa
procedura civile).
Emerge
a questo punto la questione del federalismo e della secessione.
Pannella
si è di recente riconfermato contrario alle secessioni territoriali,
intervenendo a proposito dei referenda scozzese e catalano, invocando il superamento
dell’istituzione “Stato nazionale” in nome del federalismo europeo di stampo ventoteniano.
Che
le secessioni territoriali (altro discorso andrebbe condotto con riferimento
alle secessioni individuali) non siano eo ipso libertarie
lo sosteniamo da tempo, anche in polemica con anarco-capitalisti
tardo-rothbardiani fautori di siffatte secessioni.
Tuttavia, occorre considerare che, se è auspicabile un federalismo verso l’alto
di stampo neo-kantiano, altrettanto auspicabile, si direbbe, è il federalismo
verso il basso, con riferimento quantomeno alle funzioni amministrative che
possano essere esercitate direttamente dai cittadini o da loro “magistrati”
revocabili, per utilizzare la dizione dei classici.
Va
da sé, peraltro, che ogni secessione di questo tipo deve comportare
l’inserzione in un più ampio ordinamento internazionale, in una comune “corte
di giustizia”, che garantisca i diritti umani fondamentali, la libertà di
concorrenza, di libera circolazione, etc. Certo, vanno invece osteggiate
secessioni che non intendano rispettare tali diritti, o che siano rivolte
all’introduzione di dazi o simili ostacoli illiberali, barriere che il mercato
non può e non vuole riconoscere.
Ci
si può chiedere, a questo punto, quale strategia politica debbano seguire, in
regime democratico-liberale, i radicali, per perseguire i propri obiettivi.
Mentre
gli anarchici classici, in nome del rifiuto della delega e invocando i sacri
principi di Saint Imier, reclinano di essere
coinvolti in alcun modo nelle competizioni elettorali o altrimenti democratiche
(pur essendo coinvolti giornalmente, in una quantità di atti quotidiani
compromettenti, in un mondo che detestano), i radicali sono sempre stati laici rispetto al voto e al non voto.
Così
cioè come non rifiutano per principio le elezioni, nemmeno si sentono obbligati
a parteciparvi, se non sulla base di valutazioni caso per caso, e questo è un
criterio sano.
Si
tratta tuttavia di approfondire quale debba essere l’atteggiamento
“politico-elettorale” dei radicali, tanto ove si presentino, quanto ove non si
presentino.
A
nostro avviso, i radicali devono mantenere la propria collocazione storica,
come descritta in introduzione, ossia all’estrema
sinistra dello schieramento istituzionale. Del resto, lo stesso miglior Rothbard diceva che storicamente, a partire dalla
rivoluzione francese, la destra è rappresentata dagli statalisti nostalgici
dell’ancien régime,
mentre la sinistra è rappresentata dai liberali, dai radicali, dai libertari,
costituendo invece il socialismo, con il suo miscuglio di statalismo e di
antistatalismo, un confuso movimento centrista.
Ciò
non significa abbandonare il principio della trans-partiticità, che consente di
colloquiare con esponenti di ogni estrazione politica sulla base dell’adesione
alle concrete singole battaglie, ma essere perfettamente consapevoli della
propria identità.
Ciò
comporta che, ove si affermi un sistema politico latamente “all’americana”, i
radicali devono costituire l’ala libertaria dello schieramento progressista, in
mancanza di che, allora, tanto vale, battersi per l’affermazione di un sistema
perfettamente proporzionale, dato che, del resto, è proprio sotto il sistema
proporzionale che i radicali hanno dato il meglio di sé nelle lotte
parlamentari.
In
un sistema o nell’altro, comunque, la presenza parlamentare può essere molto
utile, non tanto come generico diritto di “tribuna”, quanto per esercitare
sindacato ispettivo, per consentire una frequente attività di visita dei
penitenziari, per controllare gli intinera legislativi nelle commissioni, per battagliare per
la discussione dei progetti di legge di iniziativa popolare, spesso insabbiati
nelle stesse, etc.
In
mancanza di una presenza parlamentare, i radicali hanno, in tempi recenti,
incentrato la propria iniziativa nella proposizione di azioni giurisdizionali,
le più interessanti delle quali sono quelle adite a livello internazionale.
Anche questo profilo dell’azione radicale va salutato positivamente. Pannella
sembra finalmente essersi convinto, almeno in parte, dell’inanità
dell’iniziativa di tipo penalistico, a favore di un approccio più di common law, invocando, a livello di
giudici ordinari, statuizioni in grado di costituire precedenti vincolanti per
lo stesso legislatore.
Ad
esempio, negli Stati Uniti, la legalizzazione dell’aborto è stata disposta in
conseguenza di una pronuncia della Corte Suprema, nel noto caso del 1973 Roe vs. Wade,
caso pilota per tutto il mondo, non in conseguenza di un atto del
legislatore. Come diceva Bruno Leoni,
del resto, è proprio la legislazione,
con il suo carattere alluvionale, confusionario e pasticcione, a costituire fonte
di incertezza del diritto, mentre il diritto giurisprudenziale consuetudinario,
fondato sulla vincolatività del precedente, la cui ratio va ravvisata nel rispetto della parità di trattamento nel
tempo, è più in grado di consentire al cittadino stabilità nell’elaborazione
delle proprie aspettative.
3. La
realizzazione di mercato dei beni pubblici.
Una
delle giustificazioni dello Stato contemporaneo è che lo stesso sarebbe
indispensabile per la realizzazione dei beni pubblici, dato il presunto fallimento
del mercato in questo campo: the public good argument for the state.
Il concetto di bene pubblico è così dilatato, ormai, che tutto diviene argomento di legittimazione dello Stato e del suo
inarrestabile intervento. Per Nozick, ad esempio, che
pure è fautore di uno Stato “minimo”, sarebbero beni pubblici indivisibili la
giustizia e la protezione dei diritti di proprietà, ma l’argomento era già
stato pre-confutato da Murray Rothbard
in “Man, Economy and State” ove si dimostrava il carattere divisibile del
servizio di difesa e protezione.
Anche
tra gli anarchici classici ci sono state divisioni sul punto. Errico Malatesta
e Merlino, ad esempio, discussero su come fosse possibile, in anarchia,
realizzare una strada, bene indivisibile e di “monopolio naturale” riuscendo a
rimanere in assenza di istituzioni coercitive. Secondo Merlino ci si sarebbe
dovuti attenere al principio maggioritario e le minoranze avrebbero dovuto
essere costrette in qualche modo ad accettare le decisioni della maggioranza,
pena il caos. Secondo Malatesta, invece, è pur vero che le maggioranze
avrebbero avuto la meglio, ma a ciò si sarebbe dovuto addivenire con la
persuasione e con il consenso, con l’abitudine spontanea ad accettare, in
società, le statuizioni dei più.
A
noi pare che entrambe tali posizioni sottovalutino il ruolo della possibile
iniziativa imprenditoriale. Immaginiamo infatti che un soggetto eserciti la
propria alertness
(Kirzner) e individui una domanda latente di beni
collettivi (Olson). Egli potrebbe predisporre un progetto
e farsi elicitatore, superando il dilemma del
prigioniero, di una gara d’asta tra favorevoli e contrari a una data opera
pubblica. Si tratterebbe di una sorta di project financing democratico e di mercato:
immaginiamo infatti che qualcuno si faccia promotore tra i favorevoli di una
raccolta di fondi per finanziare l’opera, mentre altri si faccia promotore tra
i contrari di altrettanto, per compensare l’imprenditore, inducendolo a non realizzare l’opera.
Se
i contributi dei favorevoli saranno superiori, e sufficienti a garantirgli un
margine di utile, l’imprenditore restituirà ai contrari i proventi della loro
colletta e realizzare l’intervento. Se saranno superiori i contributi dei
contrari, verranno restituiti i fondi a entrambi, tranne il surplus differenziale quale compenso
dell’iniziativa, e l’opera non verrà realizzata.
Si
dirà: perché ricorrere al voto monetario e non a quello ordinariamente
referendario? Perché il voto monetario misura non solo la scala ordinale delle
preferenze, ma anche quella cardinale, misura, come ricorda l’economista
coreano Ng, anche l’intensità delle preferenze.
Ognuno
potrà perciò contribuire non solo in funzione di una generica predisposizione
favorevole o contraria all’opera, ma anche dell’effettivo coinvolgimento personale
sulla sua realizzazione o non realizzazione.
In
tal modo, il mercato si fa compiutamente democratico, oltre a consentire
un’effettiva valutazione costi/benefici dell’intervento. Si dirà ancora che in
tal modo i ricchi saranno avvantaggiati rispetto ai poveri, dato che potranno
contribuire di più nella direzione da loro auspicata. Ma, a parte che, come
rileva David Friedman, nei quartieri popolari ci sono più grosse macchine che
buone scuole, non bisogna pensare che i ricchi (a parte ogni nostra considerazione
sulla rendita di esistenza) saranno tutti da una parte e i poveri tutti
dall’altra. Ci saranno ricchi contrari e ricchi favorevoli, poveri contrari e
poveri favorevoli.
D’altra
parte, non si tratterà solo di pagare direttamente di tasca propria, ma anche
di far valere la propria capacità imprenditoriale nell’acquisire finanziamenti
in una direzione o nell’altra.
Un
ulteriore vantaggio è che, mentre nel voto referendario, sarebbero
verosimilmente coinvolte solo le popolazioni direttamente interessate, soggette
alla sindrome “non nel mio giardino”, con il voto finanziario potrebbero
partecipare alla decisione tutti gli coloro i quali si auto-selezionassero come
in qualche modo interessati o che si sentissero coinvolti nell’iniziativa, in
senso vuoi favorevole, vuoi contrario.
Quale
sarà, del resto, la concreta conseguenza di un simile modo di procedere? Come
si è detto, l’opera sarà assoggettata a una verifica costi/benefici quale
nessun’opera pubblica richiede oggi all’intervento coattivo dello Stato, che
realizza interventi improntati a ragion politica e non a efficienza, tanto più
occultando i costi nella fiscalità generale, e quindi dando molte volte la
falsa impressione della gratuità per opere spesso inutili (si veda la Bre.Be.Mi.) e altamente costose.
Ne
deriva che, in un siffatto meccanismo di mercato democratico, è impensabile che
si realizzino, ad esempio, centrali nucleari (l’imprenditore dovrebbe farsi
carico di costi di assicurazione incommensurabili, internalizzare
per intero i costi di smaltimento delle scorie, etc., tutti costi che oggi
vengono minimamente considerati nel computo del costo sociale dell’iniziativa);
come la T.A.V. Torino-Lione, palesemente fuori tempo in un quadro
internazionale di comunicazioni aeree, per la quale dovrebbero considerarsi i
costi immani della perforazione delle montagne, oggi gravanti sul contribuente
ignaro, dello smaltimento dell’amianto rinvenuto, etc.
La
nostra proposta, infine, ci pare meno macchinosa di quella avanzata da David
Friedman, per la quale l’imprenditore, per realizzare opere pubbliche nel
mercato e superare l’eventuale frustrazione da free-riding, dovrebbe acquistare tutte le
terre interessate e poi rivenderle a prezzo maggiorato, dati i superiori costi
di transazione insiti in quest’ultimo tipo di proposta.
4.
I
diritti civili
A)
Manicomi,
carceri, diritto penale, polizia.
I
radicali si sono a suo tempo resi protagonisti di una fondamentale battaglia
contro i vecchi manicomi, legati a una visione di segregazione della malattia
mentale o presunta tale (non ignoriamo gl’insegnamenti dell’anti-psichiatria di
un Thomas Szàsz), sostituiti da una rete di comunità
di riabilitazione, di case-famiglia, etc., e si è trattato sicuramente di un
grande passo in avanti.
Noi
possiamo parlare a ragion veduta di tale fenomeno, avendo trascorso, oltre a
quindici giorni a San Vittore, svariati periodi nei reparti psichiatrici degli
ospedali, quasi due anni in un Ospedale Psichiatrico Giudiziario (purtroppo gli
O.P.G. non sono stati toccati dalla riforma, anche se oggi si parla di
un’abolizione sempre rinviata), e poi, finalmente, quattro anni in comunità
psichiatrica.
Dalla
nostra esperienza, susseguente a T.S.O. sicuramente illegittimi nella forma
(mentre nella sostanza non spetta a noi in questa sede giudicare della nostra
“follia”) ricaviamo che i reparti psichiatrici sono ancora degli ambienti
angusti, in cui il fumo è contingentato e dove vengono stilate cartelle
cliniche senza alcun contraddittorio e controllo, che non vengono negati
nemmeno a un appaltatore di opere pubbliche, pur trattandosi di relazione certo
meno delicata. Quanto agli O.P.G., non possiamo che rilevarne il carattere
esclusivamente afflittivo, privi come sono di qualunque valenza riabilitativa e
di cura. Si tratta in pratica di vere e proprie carceri, e delle peggiori
(salvo forse, a quanto dicono, quello di Castiglion delle Stiviere), oltretutto
soggette al principio “sai quando entri, ma non sai quando si esce”. Si tratta
del cosiddetto ergastolo bianco, per
cui, come abbiamo constatato direttamente, anche soggetti autori di “reati” di
lieve entità, subivano proroghe annuali continue di internamento, sulla base di
giudizi di “pericolosità sociale” persistente, del tutto approssimativi.
Quanto
infine alla comunità, la nostra esperienza è tutto sommato positiva. Il degente
è effettivamente seguito, curato, pernotta in dignitosissime camere singole o
doppie, può tenere computer con internet e
telefono cellulare, può uscire anche da solo per andare al bar, in biblioteca,
etc. Certo, la tua permanenza è sempre assoggettata al giudizio discrezionale
degli psichiatri, i quali possono anche trovare pretesti discutibili per
prolungarla, nondimeno il trattamento pare rispettoso dei diritti umani
fondamentali e gli operatori, almeno nel nostro caso, si sono rivelati motivati
e cordiali.
Siffatte
comunità appaiono un possibile modello per il “carcere” del futuro. I radicali,
come è notissimo, stanno conducendo da anni una forte battaglia per il
ripristino della “legalità” carceraria, contro le inumane condizioni dei
detenuti e contro il sovraffollamento, ottenendo importanti risultati, come la
sentenza “Torreggiani” della Corte Europea dei
Diritti dell’Uomo. A quest’ultimo proposito non possiamo che confermare. Nella
nostra permanenza a San Vittore eravamo in quattro in pochi metri quadrati e le
celle erano praticamente sempre chiuse.
Tuttavia,
preferiremmo che i radicali estendessero sistematicamente al carcere
l’approccio “abolizionista” che hanno sempre mantenuto per i manicomi,
trattandosi in entrambi i casi di istituzioni totali irriformabili, essendo
ormai storicamente sorpassato e agli sgoccioli il modello “panopticon” due secoli e mezzo fa
concepito da Jeremy Bentham.
In
verità, dal mondo radicale non mancano e non sono mancate voci abolizioniste. Ci
fa piacere ricordare l’allora consigliere regionale lombardo
anti-proibizionista Giorgio Inzani, che ormai venti
anni fa organizzò, replicandolo, un convegno appunto abolizionista, al quale
noi stessi abbiamo partecipato con una nostra relazione.
Ma
lo stesso Pannella non ha mancato a suo tempo di prendere posizione su tale
argomento. Abbiamo di recente riascoltato un filo diretto di quasi quarant’anni
fa (con Pannella, vista la carenza di scritti, è agli interventi congressuali,
ai fili diretti, ai dialoghi domenicali che bisogna sovente fare riferimento),
nel quale prendeva chiaramente posizione contro l’istituzione carceraria.
Tuttavia il tema è stato sostituito da un approccio “riformistico” che suona a
volte troppo asfittico e inadeguato.
Invero,
il carcere è inadeguato innanzitutto perché è il diritto penale a essere
inadeguato, sia sul piano oggettivo,
sia sul piano soggettivo.
a)
Sul
piano oggettivo, non è adeguatamente giustificato che cosa debba costituire
“reato”. In base all’art. 40 del codice penale, dovrebbe sempre essere
raffigurarsi un evento dannoso o pericoloso, ma noi siamo in presenza di una
grande quantità di fattispecie di reato nelle quali non si comprende in che
cosa consista il danno o il pericolo (ammesso che un atto di pericolo, che non
cagioni alcun danno effettivo, possa essere sanzionato): si tratta in molti
casi di victimless crymes, e una
volta che si considerino omicidio, lesioni e reati di violenza, che ne resta?
b)
Sul
piano soggettivo, quel che non
funziona è la pretesa del diritto penale di sindacare, attraverso il giudizio
sul dolo, sulla colpa, etc., il foro
interno delle persone.
Si
noti che, storicamente, tale requisito di responsabilità e colpevolezza
intendeva rappresentare un progresso, nel senso che, in mancanza di mens rea, l’imputato non avrebbe potuto
essere considerato colpevole e condannato. In realtà c’è da chiedersi oggi chi
sia quell’uomo in grado di sindacare la mente altrui, la mens rea altrui, se non un dio!
A
ben vedere, dovremmo invece, in presenza di effettivo danno, ricondurre
l’istituto del reato a quello di mero illecito civile, a prescindere da ogni
valutazione di foro interno, sulla
base del semplice nesso tra condotta come causa e danno come effetto, con conseguente
semplice risarcimento del danno. Il che appunto suppone che danno davvero vi
sia. Come abbiamo più volte notato, inoltre, non può non sottolinearsi il
carattere intrinsecamente discriminatorio del diritto penale, fondato
sull’azione officiale, mentre nel caso dell’illecito civile sarebbe il
danneggiato ad auto-selezionarsi e a pretendere indennizzo o risarcimento.
Del
resto, nel diritto penale si pretende, come rilevò Alf
Ross, che il cittadino introietti il significato di riprovazione morale della pena. In
altri termini, si tratta di un settore del diritto non laico, come dimostrò nel medioevo il passaggio dal modello
“Rotari” al modello “Liutprando”.
Sia
consentito un’ulteriore ordine di considerazioni.
a) Recenti pronunce (caso Cucchi, caso Commissione
“grandi rischi” dell’Aquila, caso Saviano, caso “eternit”) dimostrano come il
riporre fiducia nel giudizio penale come strumento di soluzione di gravi
problemi sociali non ha fondamento, dato il vincolo subito dallo stesso al
principio di “verità processuale”, che non ha nulla a che vedere con la verità
reale, anche per l’incidenza, oltre che degli elementi probatori, di quelli
attinenti all’elemento soggettivo del reato;
b) Per contro, da parte di molti si insiste
nell’utilizzare il processo penale, incentivando il protagonismo politico di
molti giudici, proprio per acquisire informazioni “reali” su importanti
vicende, altrimenti inaccessibili in quanto appartenenti agli
arcana imperii. Si pensi alla denuncia rivolta contro i contraenti del
“Patto del Nazareno”, presentata da esponenti del “Movimento 5 Stelle”, al
dichiarato scopo di conoscere il contenuto di quel patto. Ovvero si pensi al
processo sulla questione della “compravendita” di voti parlamentari per far
cadere l’allora governo “Prodi”. Tutte vicende di difficile configurazione
penalistica, ma che approfittano dell’inadeguatezza o totale assenza di altri
strumenti di controllo forniti dall’ordinamento, caricando il processo penale
di elementi politico-sociologici del tutto impropri.
Un
cenno, infine, alla questione della brutalità della polizia. Anche a tale
proposito possiamo vantare esperienza personale, ma non vogliamo farcene
condizionare. Preferiamo restare su considerazioni di carattere generale.
La
funzione istituzionale delle forze di polizia dovrebbe essere, salvo errore, il
portare la legge a esecuzione. Ma che cos’è la legge in uno Stato di diritto
moderno? Per rispondere, occorre riferirsi alla cosiddetta gerarchia delle fonti.
Nella
gerarchia delle fonti, al primo posto vengono le dichiarazioni dei diritti
dell’uomo e del cittadino, i trattati internazionali, le costituzioni, e poi le
leggi, e via via le sentenze, i provvedimenti amministrativi, etc. Dovremmo
allora arguire che, quando vediamo plotoni di poliziotti per le strade muniti
di manganelli, manette, caschi integrali, mitragliette e scudi di protezione,
essi stiano in tal modo facendo rispettare… dichiarazioni dei diritti dell’uomo
e del cittadino, i trattati internazionali, le costituzioni, e poi le leggi, e
via via le sentenze, i provvedimenti amministrativi, etc!
Sembra
un paradosso, ma dovrebbe essere così. Le forze di polizia appaiono oggi
strumenti consustanzialmente inidonei alle esigenze
dello Stato di diritto correttamente intese. Esse “tutelano” un “ordine pubblico”
cocnepito del tutto asfitticamente, con “sentenze
passate in giudicato” di loro conio, come quella volta che, come abbiamo
riscontrato in una trasmissione televisiva, vigili urbani si aggiravano tra le
prostitute di strada per misurare a spanne il rispetto da parte loro del
“comune senso del pudore”, valutando i centimetri delle loro gonne e gli
eventuali reggicalze. Come se una non prostituta che stia semplicemente
aspettando l’autobus non potesse indossare siffatte vestimenta,
e come se “prostituta” fosse nozione con un senso purchessia (sul che torneremo
tra non molto).
B)
La
Corte Penale Internazionale.
I
radicali, in particolare Emma Bonino, hanno ricoperto un ruolo importante
nell’ideazione e nel compimento della Corte Penale Internazionale, volta a
perseguire i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità e il genocidio.
Diciamo subito che a tale proposito non intendiamo fare valere le nostre
radicali riserve nei confronti del diritto penale.
Esse
valgono per il comune cittadino, non per gli uomini di potere coinvolti in
crimini mostruosi, con riferimento ai quali non è necessario alcun giudizio sul
foro interno per accertare la
colpevolezza. Sappiamo che Hitler, Stalin, Mao e Pol Pot erano dei massacratori di popoli, pur in assenza di
alcun giusto processo.
E
tutto si può contestare a Gaetano Bresci, si può ben essere contro la
“propaganda del fatto” in nome della nonviolenza, ma non imputargli di non aver
debitamente accertato la responsabilità di Umberto I negli eccidi di Bava Beccaris, che si presume iuris et de iure.
In
altri termini, consideriamo le corti internazionali di giustizia come strumenti
volti a procedimentalizzare e mitigare il
tirannicidio, ferma restando la legittimità, in linea di astratta teoria,
di quest’ultimo.
Per
entrare più nel dettaglio di questa delicata materia, contrappunteremo un testo
francamente irritante, “La giustizia dei vincitori – Da Norimberga a Baghdad”,
di Danilo Zolo, filosofo del diritto, già
demoproletario approdato alfine a posizioni oggettivamente reazionarie.
Zolo muove dichiarandosi un
“osservatore realistico delle relazioni internazionali” e, su tale base, si fa
promotore di una denuncia della giustizia dei vincitori, che sarebbe iniziata
con Norimberga e sarebbe proseguita fino ai Tribunali ad hoc jugoslavi, del Ruanda, etc.
In
particolare, Zolo critica l’estensione agli individui
della soggettività internazionale, e conduce una polemica contro l’ideologia
occidentale dei diritti dell’uomo, che minerebbe le sovranità statuali e che
verrebbe imposta con la forza a Paesi di cultura diversa, più attenti ai
diritti collettivi e a relazioni di altro genere che quelle fondate sui diritti
soggettivi e sulla libertà negativa.
Per
contro, Zolo lamenta che i tribunali ad hoc, espressione della giustizia dei
vincitori, non avrebbero rispettato i
principi dell’habeas corpus e del rule of law, sfiorando appena però la questione della Corte Penale,
che, non avendo ottenuto la ratifica degli U.S.A., non si presta evidentemente
a una tale censura.
Zolo ha buon gioco solo quando denuncia
gli orrori della guerra, ma, da buon realista politico, dovrebbe anche dirci
quale sia l’alternativa in certi casi, dato che egli semplicemente irride al
pacifismo kantiano e kelseniano, ritenuto “di scarso
interesse politico e teorico” (!), e dato che egli giustifica il terrorismo,
ritenendo importante comprenderne le ragioni, per eliminare il quale non ci
sarebbe altra strada che proporre il suicidio dell’occidente cattivo.
Opponiamo
quanto segue:
a)
E’ vero che il processo di Norimberga
costituisce un esempio di “giustizia dei vincitori”, come tale stigmatizzato
dallo stesso Kelsen, ma il suo fondamento di
giustificazione consisteva nel fatto che i processati fossero gli aggressori. E questo è un importante
precedente, recepito dallo Statuto della Corte Penale, anche se subordinato a
successivi adempimenti;
b)
Quanto
all’estensione della soggettività internazionale agli individui, essa, che
trova un precedente antico nelle teorizzazioni del Mancini, va salutata come un
fatto positivo, rispettoso dell’individualismo metodologico, essendo gli Stati
nulla più che aggregati di individui, sicché le aggressioni imputate agli Stati
vanno più esattamente configurate come aggressioni perpetrate da singoli
individui (Hitler, Stalin, etc., erano singoli
individui, sia pure organizzativamente supportati); e la responsabilità
penale non è forse per definizione personale?
c)
Quanto
ai diritti umani, Zolo è sorprendente. Noi non siamo
fautori della superiorità dell’occidente tout
court. Non ignoriamo che la cultura della tolleranza, come ricorda sempre
Amartya Sen, affonda le proprie radici nelle antiche religioni orientali, e che
nello stesso Corano (Sura
2, versetto 62) si dice che anche ebrei e cristiani potranno trovare salvezza,
se credono in Dio e/o se compiono buone opere (e si deve ritenere che i
sedicenti “fondamentalisti islamici” non sappiano leggere). Tuttavia non
crediamo ci si debba vergognare se, nella modernità, è in Locke, in Hume, in
Jefferson, in Mill che possiamo trovare i nostri
progenitori. Il problema è semmai che l’occidente non sempre ha rispettato e fatto valere, come nell’imperialismo, i propri sacrosanti
principi.
Ciò
che è sorprendente, in particolare, è che Zolo
continui a parlare di imperialismo occidentale per quanto riguarda i diritti
umani, della loro pretesa di universalizzazione, ignorando o fingendo di
ignorare (vi allude in un momento, per verità) che essi sono previsti dalla
Carta dell’O.N.U., e quindi sottoscritti da tutte le nazioni. Che poi tali
diritti intacchino il mito della sovranità nazionale è fatto solo
positivissimo, almeno alla luce dei nostri principi libertari.
Come
detto, l’impagabile Zolo contrappone ai diritti umani
altri valori di altre aeree geografiche, che sarebbero nientedimeno che
“l’ordine, l’armonia sociale, il rispetto
dell’autorità, la famiglia”! E stiamo parlando di un estremista di
sinistra! Bella fine hanno fatto costoro, pur di difendere… la Cina odierna. E
infatti Zolo si compiace di sottolineare che molti
paesi dell’America Latina (anche loro bella roba!) e dell’Asia, “con in testa
la Cina”, hanno rivendicato la priorità “dello sviluppo economico-sociale,
della lotta contro la povertà”, etc. E c’è chi ci crede! Comunque, quand’anche
vi fosse sincerità in tali parole, non pare abbia senso contrapporre i diritti
umani allo sviluppo economico e alla lotta contro la povertà, potendo le varie
cose andare di pari passo.
Zolo, poi, indefesso, contrappone ai
diritti individuali, che secondo i liberali sarebbero gli unici
universalizzabili, i diritti collettivi. Quali sarebbero questi diritti
collettivi? Il diritto di praticare la propria religione, il diritto di
disporre di risorse naturali, il diritto di parlare la propria lingua, i
diritti delle donne, i diritti dei fanciulli.
La
rozzezza di Zolo è senza pari. E’
a tutti evidente, infatti, che siffatti “diritti collettivi” sono perfettamente
riconducibili a diritti individuali: ognuno ha diritto di praticare la propria
religione, di parlare la propria lingua, ogni donna e ogni fanciullo non sono
altro che individui, anche disporre di risorse naturali è attività
riconducibile all’iniziativa individuale. Se così non fosse, anche i pretesamente contrapposti diritti individuali sarebbero
“collettivi”, sarebbe del “collettivo” il diritto di esprimere il proprio
pensiero, tanto più il diritto di associarsi, e così via. Insomma, Zolo è totalmente ignorante del dibattito attorno alle
teorie dell’individualismo metodologico, in altri termini è semplicemente un illiberale.
d)
Zolo è addirittura comico, nel senso
che non conosce vergogna e senso del ridicolo, quando imputa ai tribunali ad hoc di non essere stati rispettosi
dell’habeas corpus e del rule of law, del principio nullum crimen, nulla pena sine lege,
come se non si trattasse di principi elaborati dal crudele occidente, che egli,
mantenuto dai contribuenti dello stesso, aborrisce. Naturalmente non può dire
altrettanto della Corte Penale, e infatti Zolo quasi
non ne parla. Ripetiamo che a quest’ultima non può imputarsi di essere
espressione di giustizia dei forti, tant’è vero che gli U.S.A. non l’hanno
ratificata.
e)
Zolo, professandosi realista, afferma
che bisogna comprendere la ragioni del terrorismo, e forse può darsi che su
questo non abbia tutti i torti: se il terrorismo c’è, un qualche motivo vi
sarà. Ma egli lo ravvisa solo nella questione dell’oppressione del popolo
palestinese, non menzionando però mai il fatto che Israele è uno scoglio
(democratico o quasi) in un oceano di Stati autoritari che ne auspicano la
distruzione, sicché, sempre da buon realista, egli dovrebbe anche fornire a
Israele indicazioni di condotta che abbiano un senso, appunto, “realistico”,
data la situazione.
f)
Invece
che cosa propone Zolo, come soluzione a tutti i
problemi di disagio internazionale? Che l’occidente si suicidi, questo cattivo
occidente che pretende di imporre a tutti l’universalizzazione dei diritti
umani fondamentali: “Occorrerebbe liberare il mondo dal dominio economico,
politico e militare degli Stati Uniti e dei loro più stretti alleati europei.
La fonte prima, anche se non esclusiva (sia
grazia. N.D.R.) del terrorismo internazionale è infatti lo strapotere dei
nuovi civilissimi ‘cannibali’ bianchi, cristiani, occidentali”. E tutto ciò
realistico, oltre che sensato? Mah!
g)
Si
diceva che Zolo ha buon gioco solo quando denuncia
l’orrore della guerra e la facilità con cui gli U.S.A. vi ricorrono, anche
sulla base di legittimazioni teoriche come quella di Ignatieff,
che dopo aver fornito una teorizzazione esemplare dei diritti umani e dell’universalizzabilità della sola libertà negativa (anche se
noi tendiamo a superare la dicotomia libertà negativa/libertà positiva, con la
teorizzazione che forniamo della rendita di esistenza), giustifica su tale base
la guerra cosiddetta umanitaria. E in effetti è su questo che si gioca la sfida,
per venire alle cose piccole, anche per i radicali: elaborare una dottrina e
una pratica della nonviolenza, che sia alternativa alle dottrine guerrafondaie,
da porre a fondamento dei diritti umani –pace
Zolo- universali. Si tratta di sfida non da poco, messa
duramente alla prova da vicende del tipo Isis, ma che è la più grande che ci
troviamo oggi davanti.
C)
Droga.
Come
si sa e come si è detto, in materia di droghe i radicali sono da sempre su
posizioni antiproibizioniste (anzi, essi considerano l’antiproibizionismo un
approccio universale, e parlano di “antiproibizionismo su tutto”). Anche in
tale settore essi hanno ottenuto alcuni importanti successi, in particolare
(già dopo la “fumata” pubblica di Pannella del 1975) sul terreno della
depenalizzazione del consumo personale, poi rinnegata dalla famigerata legge
Iervolino-Vassalli, e poi ripristinata da un brillante referendum popolare radicale, brillante nel senso che l’esito non
era dato per nulla per scontato. Poi è intervenuta la Fini-Giovanardi, che ha
complicato ulteriormente le cose, salva susseguente sentenza della Corte
Costituzionale, che ne ha consacrato l’invalidità per motivi formali.
Insomma,
come diceva Popper, passare la vita a risolvere problemi! Ma proprio per questo
bisogna cercare di risolverli su basi teoriche il più possibile solide.
Pannella,
com’è noto, sostiene la “legalizzazione” delle droghe, non la loro
“liberalizzazione”. Anzi, sostiene che le due proposte sarebbero l’una
l’”opposto” dell’altro, in quanto la droga sarebbe oggi di già “libera”, in
quanto rinvenibile a qualunque ora del giorno e della notte. Si vorrebbe dire a
Pannella di circondarsi meno di avvocati penalisti e più di economisti, magari
ripristinando l’antico rapporto con Antonio Martino!
Finché
si tratta di un espediente retorico, volto ad acquisire consenso presso
l’opinione pubblica moderata, stia bene l’invocare la “legalizzazione”, ma il
rischio è che a forza di ricorrere a quell’espediente si finisca con il
crederci veramente; e non si dica per favore che la droga sarebbe oggi di già
“libera”! A parte il fatto che “liberalizzazione” non è una parolaccia (persino
l’on. Bersani ha “liberalizzato”, quand’era ministro, alcune licenze
commerciali); e a parte il fatto che, nel nostro sistema, liberalizzare comporterebbe
sicuramente l’introduzione di alcune regole, occorre considerare che, sempre
nel nostro sistema, a invocare regole non si sa dove si finisce, data la
tendenza minuziosa del legislatore al riguardo; e a parte ancora il fatto che,
se si è “antiproibizionisti su tutto” in quanto convinti che una proibizione
crea più danni di quanti ne elimini, bisogna anche comprendere che
regolamentare comporta una certa dose di proibizione, quindi una certa quota di
male; a parte tutto ciò, oggi la droga è tutt’altro che “libera”.
Ne
sarà “libera” l’offerta da parte dei cartelli mafiosi, ma non è libera la
domanda. Il consumatore sopporta costi di monopolio, costi da clandestinità, il
rischio di sanzioni (oggi il ritiro della patente e del passaporto), e così
via.
Del
resto, se sussistesse un trasparente e non opaco mercato concorrenziale delle
droghe, si aprirebbe lo spazio per l’intervento di associazioni di consumatori,
che vigilerebbero sulla qualità del prodotto, il che oggi non avviene, per cui
della situazione attuale tutto si può dire, meno che le droghe siano immerse in
un mercato davvero “libero”: sostenere il contrario sollecita dubbi sul fatto che Pannella e i suoi più
stretti seguaci siano veramente consapevoli di che cosa sia e di come funzioni
un’economia di mercato, sicché auspichiamo una revisione in senso radicalmente
libertario e non statalistico delle premesse dell’azione, in sé sempre
meritoria, al riguardo.
D)
Prostituzione.
Sulla
prostituzione i radicali non hanno fin qui condotto battaglie specifiche
particolarmente intense; si diffonde però nell’ambiente, e non da oggi, la
tendenza a chiederne a sua volta la “legalizzazione”. In realtà qui c’è poco da
“legalizzare”, a parte l’abolizione del reato di “adescamento”.
Valgono
qui, a maggior ragione, le considerazioni svolte a proposito della droga. A
maggior ragione, si diceva. Infatti, come abbiamo già sostenuto in vari
precedenti scritti, la “prostituzione” è in realtà uno pseudo-concetto che
unisce arbitrariamente il fatto dell’atto sessuale (ma che cos’è un atto
sessuale? Lo è il ricoprirsi di cioccolata, come faceva per i “clienti” Angela
Finocchiaro in un film di Maurizio Nichetti?) con il fatto della corresponsione
di utilità, insomma lo stigma deriverebbe dallo scambio. Ma, come ha già notato Walter Block,
tutte le attività umane consistono normalmente in scambi, sicché inventarsi il
“fatto istituzionale” “prostituzione” proprio con riferimento al sesso, si deve
in realtà a una mentalità sessuofobica, dura a morire, perché a rigore dovremmo
definire “prostituzione” qualsiasi scambio tra un comportamento e una data
utilità.
Si
dirà che la prostituzione in senso stretto riguarda un comportamento molto
intimo, ossia l’uso diretto del corpo e la confusione di questo con un corpo
altrui. Ma proprio tale considerazione suggerisce che si deve osteggiare
qualsiasi “regolamentazione” della prostituzione, men che meno la relativa
tassazione, proprio perché si tratta di un libero uso del corpo! Nessuno di noi
accetterebbe una legge (altra cosa è la morale religiosa), che ci dicesse che
cosa possiamo o non possiamo fare con il nostro corpo in unione con adulti
consenzienti, men che meno che tale comportamento sia tassato!
Si
dirà ancora che una prostituta o un prostituto vanno con molte persone, e che
quindi ciò deve trovare risposta sul piano della prevenzione sanitaria.
Rispondiamo che quello quantitativo non può essere un valido criterio di
differenziazione, dato che conosciamo persone che hanno molti rapporti sessuali
indipendentemente dalla professione che svolgono. Sicché la legge dovrebbe
disciplinare i rapporti di tutti coloro i quali ne hanno molti! Immaginiamo
l’intrusività di una simile normazione, e certamente la consideriamo
indesiderabile.
D’altra
parte, se si vuole ravvisare il proprium della prostituzione nella natura economica dello
scambio, è agevole opporre che anche nel matrimonio ciò avviene sovente. Gary
Becker ha elaborato in proposito una vera e propria economia del matrimonio, fornendone una rappresentazione in termini
analoghi a quelli che ha un’impresa secondo Ronald Coase:
in altre parole, un’organizzazione volta
a limitare i costi di transazione.
Sostiene
Becker che molti dei servizi e benefici che si hanno nel matrimonio possono
essere reperiti nel libero mercato: appagamento sessuale, pulizia della casa,
nutrimento necessario: il matrimonio te li mette a disposizione senza bisogno
di cercarli altrove, ma tutto ciò ha evidentemente un costo iniziale e di
mantenimento. Becker fa eccezione per i figli, che non si potrebbero trovare
sul mercato, e per il sentimento dell’amore. Si resta stupefatti, dato che uno
può ben avere figli fuori del matrimonio, e innamorarsi, perché no, di una
prostituta (dobbiamo ricordare “Pretty Woman”?).
Problema
diverso sarebbe quello dell’eventuale legalizzazione del cosiddetto
“sfruttamento” della prostituzione. In tal caso si tratterebbe probabilmente di
un’attività imprenditoriale, essa sì, forse, da assoggettarsi a tassazione, a
meno che tra il ruffiano e la prostituta cosiddetta non vi sia rapporto affettivo.
Comunque sul punto sospendiamo il giudizio.
E)
Matrimonio
egualitario.
Ha
suscitato qualche malumore la recente presa di posizione di Pannella, che si è
detto favorevole alle unioni civili tra persone dello stesso sesso, ma
contrario al matrimonio omosessuale, che ora si preferisce definire “matrimonio
egualitario”.
Sbaglierebbe
però chi ritenesse, maliziosamente, che tale presa di posizione sia frutto del
recente e controverso flirt, che
talora appare unilaterale, tra Pannella e Papa Bergoglio.
In realtà Pannella è sempre stato contrario al matrimonio omosessuale.
Ricordiamo
in proposito un antico dibattito tra Pannella stesso e il compianto Paolo
Pietrosanti. Quest’ultimo sosteneva animatamente che il matrimonio era ed è
l’unico negozio giuridico in cui sia rilevante il sesso dei contraenti (ad
esempio, non è rilevante, a Federico Fellini piacendo, il sesso della
tabaccaia). Pannella ribatteva che il “matrimonio” è concetto e istituto
storicamente connotato, e che per i gay
si sarebbe dovuto inventare qualcosa di diverso. Pannella sottolineava che
“matrimonio” viene da mater, e che
quindi l’istituto mal si attagliava a una coppia omosessuale.
L’argomento
prova troppo. A parte il fatto che Pannella ci ha insegnato che la natura è
storia e cultura, e quindi anche le parole possono evolversi nel significato,
se “matrimonio” viene da mater,
“patrimonio” viene da pater, e
quindi, a rigore pannelliano, non dovrebbero darsi “patrimoni” in mani
femminili o sterili, così come gli sterili non potrebbero sposarsi.
Aggiungasi che, ribaltando
paradossalmente l’affermazione costante dei cattolici contrari, secondo i quali
l’art. 29 della Costituzione sarebbe preclusivo di qualsiasi riconoscimento
della coppia omosessuale, è proprio l’art. 29 a imporre viceversa il matrimonio tra omosessuali, pena la disparità
di trattamento e la violazione del principio di uguaglianza, almeno una volta
che si ammetta che anche quella tra omosessuali può essere una “famiglia”.
Sicché, se non ci penserà il legislatore, si arriverà probabilmente al
matrimonio egualitario per via di giurisprudenza costituzionale.
Tuttavia,
qualche volta capita che Pannella rischi di avere ragione anche quando sbaglia.
Quando
egli rileva che il matrimonio è storicamente connotato, non erra di sicuro, ma questo
non solo per gli omosessuali, ma per tutti. Si vedano le considerazioni svolte
a proposito di quell’organizzazione monogamica che è il matrimonio per Gary
Becker. Il vero problema, a questo punto, è il carattere statalistico, e di diritto pubblico, del matrimonio.
Bisogna
de-nazionalizzare il matrimonio,
riportandolo nel diritto privato, e riducendolo, per omosessuali e non, a mero
contratto tra individui.
A
questo punto si risolverebbe anche il problema della poligamia e della
poliandria, posto, almeno il primo, dalle ondate immigratorie. Se tutto è
ricondotto a libero contratto, e non a convenzione… pubblicistica, nulla osta a
che stipulino un uomo e quattro donne, tre donne e sette uomini, cinque uomini
tra loro, e così via.
F)
Immigrazione.
In
materia di immigrazione, i radicali hanno raccolto firme per due referendum di carattere ampliativo, ma
in numero insufficiente.
Si
tratta certo di materia delicata, nella quale le pulsioni conservatrici e
reazionarie sono non solo vellicate dai vari Matteo Salvini,
ma purtroppo spontanee, e diffuse in tutto il mondo. Gli U.S.A. sono da sempre
nazione di immigrati, ma anche da loro si sono affermate politiche restrittive,
almeno fino ai recenti provvedimenti di Obama, anche se, come ricorda David
Friedman, ai piedi della Statua della Libertà sono da sempre incise parole
immortali di accoglienza al riguardo.
Certo,
il buonismo alla Boldrini non aiuta, anzi è spesso controproducente, data anche
il tono spesso di supponenza della cattedra di provenienza. Quel che
occorrerebbe fare sarebbe invece piuttosto di convincerci e convincere che
l’immigrazione conviene.
Non
siamo specialisti della materia, quindi ci limitiamo a due considerazioni:
a)
L’immigrazione
aumenta la concorrenza economica. Si
pensi ai commercianti cosiddetti abusivi, alla capacità dei cinesi di
introdursi in tutti i gangli dell’economia a prezzi stracciati, dalla
“prostituzione” (ottimo rapporto qualità/prezzo, a quanto si dice), ai negozi
di parrucchiere, ai nails shops, al
tessile, nella ristorazione, etc. Si pensi ai servizi alla persona, agli
anziani (rumene, sudamericane) al lavoro domestico dei filippini, e così via.
b)
L’immigrazione
aumenta la concorrenza giuridica.
Ogni gruppo etnico si fa infatti portatore di un proprio sistema di vita, di un
proprio sistema di valori, in una rete di solidarietà interna al gruppo, in
definitiva, di un proprio ordinamento
giuridico in concorrenza con gli altri, e ciò è molto proficuo in vista
della messa in discussione della vecchia idea di monopolio territoriale del potere e del diritto. Si pensi in particolare ai
Rom, presenti con il proprio ordinamento personale in tutti i paesi d’Europa.
La sfida è che, come si è anticipato, siffatto multiculturalismo trovi
conciliazione in un meta-quadro giuridico liberale che consenta la
co-possibilità e coesistenza di tutti gli ordinamenti particolari.
Naturalmente,
per convincersi che tutto ciò sia utile, bisogna già essere convinti che sia
utile la concorrenza. Sicché la battaglia delle idee si viene a collocare a un
livello più elevato e forse più tecnico di discussione.
G)
Eutanasia.
Lasciamo
per ultima l’eutanasia, non perché sia poco importante, ma in quanto tema poco
controverso in casa radicale. Al contrario, si tratta di tema centrale, al
punto di poter divenire nei prossimi anni l’equivalente di quello che fu
l’aborto negli anni ’70: in entrambi i casi si tratta di questione di
“antiproibizionismo”, dato che siamo convinti che l’eutanasia clandestina
dilaghi, anche per cognizione diretta, al tempo della dipartita della madre di
chi scrive.
Si
tratta, sempre in entrambi i casi, di questione afferente la libertà
fondamentale del corpo, che pone l’interrogativo su chi sia il proprietario del nostro corpo.
In
effetti, le argomentazioni dei contrari ci sfuggono, nella loro pochezza.
Quando
un malato terminale, in preda al dolore e/o allo sconforto, o quando qualcuno
in vista di diventarlo lascia il proprio “testamento
biologico” (living will),
chiedendo che la propria infelice vita sia interrotta, non si comprende proprio
chi possa essere abilitato a opporre la propria volontà alla sua.
I
cattolici contrari non possono che opporre la rassegnazione al dolore, come
Maria Teresa di Calcutta che rifiutava la morfina ai malati (e come oggi si
rifiuta irragionevolmente la cannabis terapeutica),
ma questo sarà un problema loro, che non si vede come imporre ai refrattari.
Tra
i radicali, in tale campo è particolarmente impegnata l’Associazione “Luca
Coscioni”. Sicché non ci resta che chiudere augurandole di vincere, nei
prossimi, speriamo pochi, anni, questa fondamentale battaglia.
CONCLUSIONE
Quale
futuro per i radicali.
Giunti
alla fine di questa rassegna, solo poco parole sul futuro dei radicali, dopo
che, dal nostro punto di vista, si è già detto tutto quello che avevamo da
dire, sia in termini di analisi economica, sia in termini di analisi giuridica
(sempre che abbia senso una tale distinzione).
Si
è già alluso al recentissimo feeling
tra Marco Pannella e Papa Francesco, o almeno del primo verso il secondo, dato
che resta ancora da vedere quanto questo amore “egualitario” sia ricambiato.
Alcuni
ultimi accenni (proprio su aborto e eutanasia) non lasciano ben sperare,
d’altra parte sarebbe folle aspettarsi radicali revirement da parte di
un’Organizzazione millenaria, che normalmente ci mette secoli a mutare opinione
sui temi fondamentali. Basta pensare al ruolo della donna all’interno della
Chiesa, che è ancora quello di mille anni fa.
Con
ciò non si vuole negare che qualche innovazione Francesco la stia introducendo,
trovando anche critici che sono arrivati a dire che se Pannella si è avvicinato
al Papa non è perché il primo si sia convertito, ma è perché sarebbe il secondo
ad essersi secolarizzato (pensiamo ad Antonio Socci).
Tuttavia,
al posto di Pannella, lasceremmo che il Papa segua in libertà il proprio
tentativo (che fin qui ha dato i suoi frutti più appariscenti in materia di
giustizia penale), e cercheremmo sbocchi altrove.
A
nostro avviso, i radicali dovrebbero ulteriormente laicizzarsi, non il contrario. In questa società secolare, se ci si
vuole rivolgere alle nuove generazioni metropolitane (quelle degli “happy
hour”, per intenderci) e fare concorrenza alla declinante demagogia del
Movimento 5 Stelle, occorre dare di sé l’immagine, corrispondente a
un’effettiva identità, di partito della
modernità e della libertà individuale, quindi dell’anti-statalismo a tutto
campo.
Per
quanto ci riguarda, proporremmo di partire chiedendo l’abbassamento della maggiore età a 16 anni: in fondo, il diritto di
voto ai diciottenni risale ormai a quarant’anni fa, e quindi, se si considerano
i cambiamenti sociali intervenuti, i tempi appaiono maturi per una simile
riforma.
Insomma,
in definitiva, meno misticismo e più pragmatismo, ma accompagnando quest’ultimo
con un costante aggiornamento dell’elaborazione teorica; il che è mancato, in
questi anni, tra i radicali, delegandosi a Pannella un’incessante ed affannosa
ricerca, sempre connessa alle singole battaglie, che di rado ha trovato
occasioni di ampio respiro (ne abbiamo ravvisata una nel famoso “Preambolo”,
redatto ai tempi della lotta contro lo “sterminio per fame nel mondo”, e di cui
abbiamo pur posto quelli che sono, dal nostro punto di vista, i suoi limiti in
termini di dottrina del diritto).
Quindi
coniugare teoria e prassi, avendo sempre a riferimento i settori più dinamici
della realtà sociale, i loro bisogni, i loro desideri, la loro spinta
innovativa, che il renzismo a parole dichiara di
voler rappresentare.
Riteniamo,
in conclusione, che lo spazio da coprire sia enorme. Certo, però (ripetiamo),
con una tessera del costo di centinaia di euro…