Giannino
Malossi
lettera a “Domus”
Milano 12 marzo 2004
A Stefano Boeri e redazione
Domus
Salve
Vi ringrazio per avermi prospettato la
possibilità di collaborare al prossimo numero di “Domus”. Effetti della
propaganda del caro amico Stefano Mirti. Diffidate.
Alla vostra offerta occorre però che
risponda con una premessa: io non mi sono riconosciuto nella linea della
rivista, per lo meno in quella espressa nell’editoriale-copertina del numero di
Gennaio. La revisione del passato è una specialità culturale dei media
allineati nella prospettiva del pensiero prevalente in questo momento, che non
è la mia prospettiva. La storia è una mia specialità. Quindi prima di procedere
vorrei capire meglio in che direzione intendete andare. Vi invito quindi a mia
volta a discutere la mia posizione. In privato o, se credete, pubblicamente.
Voi siete liberi, ovviamente, di
addentrarvi nella critica ai temi della contestazione, se vi sembra che ne
valga ancora la pena. Per altro io, come Felice Casson, a quel tempo avevo 14
anni: non ho motivi di rimpianto per fatti a cui non ho partecipato. Certo a
una parte della società italiana sembra che il ’68 abbia bloccato la
digestione, e da allora a Milano c’è ancora chi fa una malattia
dell’occupazione della Triennale. Ma occorre allinearsi ai mal di pancia della
terza età di destra che da 36 anni brontola sui cappelloni? Prendere per
opinionisti di riferimento i capannelli dei pensionati in Piazza Duomo e ai
loro organi ufficiali, le pagine di cronaca locale, inchiodati alla parodia
della canzone “Sapesse, Contessa….”
Non condivido neppure la vostra
indignazione per la distruzione delle preziose opere esposte in quella edizione
della Triennale. Conoscendo abbastanza bene la Triennale dal 1979 (ho curato
una piccola mostra per la XVI Triennale) in poi, sono portato a pensare che più
di qualche ragione i contestatori la dovevano avere allora, e altre ne
avrebbero ancora oggi. Certo non erano soli, in quel tempo, a contestare la cultura
ufficiale. Considerando gli avvenimenti di quell’anno in Italia, in Europa e
nel mondo, ci sarebbe da indignarsi se quei fatti NON fossero accaduti: avrebbe
significato che Milano era una grande e poco confortevole città della provincia
padana, isolata e tagliata fuori dal corso del mondo, soffocata da una cultura
monodimensionale, autoreferenziale, localista, apologetica. E forse dal punto
di vista della sicurezza del decoro urbano e delle opere d’arte, una Santiago
del Cile in anticipo di qualche anno. Vi sarebbe piaciuta di più? Non credo.
Perché invece non considerare quella
lontana occupazione della Triennale come un colossale happening, un evento
artistico ad alto tasso di partecipazione popolare, un modo di manifestarsi
dello spirito del tempo con l’inevitabile danneggiamento dei supporti scenici
dovuto all’incontenibile esuberanza delle masse, un po’ come succede
regolarmente nei dopo partita? Per opere d’arte che aspirano a simulare
“rottura” a livello semantico ma in realtà si limitano a molto meno o a niente
del tutto schiere di appassionati d’arte contemporanea vanno in visibilio e
sono pronte alla celebrazione glamour. Qui siamo di fronte all’originale di cui
si venera la copia e ci poi si scandalizza?
Certo l’ambiente diciamo così alla guida
delle massime istituzioni culturali di molte città, avrebbe preferito non
essere disturbato, allora come oggi, non solo a Milano. Neanche a Praga per
esempio. O a Pechino, due decenni dopo. Ma non sarebbe stato facile comunque
arrestare il corso dei mutamenti che stava avvenendo ovunque, con motivi
piuttosto solidi e radicati nella dialettica della storia. Ma appunto, di
questi motivi si può discutere, potrebbe essere interessante. La contestazione
alla Triennale, secondo il vostro ragionamento, era un effetto o una causa del
cambiamento in atto?
Ma c’è ancora un punto in cui non vi
seguo: é mai possibile che volendo ridiscutere la cultura del ’68 e i suoi
terribili effetti, invece che prendersela con la numerosa schiera dei ringhiosi
residuati bellici che ancora sono in circolazione, tanto più ringhiosi quanto
ben piazzati nella ferma difesa dell’esistente (cioè nella posizione opposta a
quella da dove erano partiti) si debba additare proprio Gianni Emilio
Simonetti, che non compare in TV, che non scrive rubriche su settimanali,
mensili e quotidiani, non ha saltato schieramento (voltato gabbana, direbbe
Vergani) ma al contrario, come ha sempre fatto, si limita a produrre pensiero
critico originale per la demolizione di militanze, ideologie e altre fesserie
culturali? Non è un po’ troppo facile tirare al bersaglio su uno che si espone
da sempre senza protezioni sorretto solo dal proprio lavoro intellettuale e
dalla coerenza della propria ricerca? E come mai, invece, non vedete quelli che
stanno nascosti nella luce azzurrastra della TV? Non è un po’ troppo poco
consequenziale la vostra revisione storica?
Se davvero vi sta a cuore ridefinire
positively cultura e ruolo dell’architettura, che poi è come dire discutere
della cultura in generale e del suo ruolo nella società di oggi, uno come
Simonetti dovrebbe essere considerato
come uno che é GIA’ DAL ‘68 dalla vostra parte, cioè voi dovreste essere ADESSO
dalla sua, invece di costruire, magari senza saperlo, un obiettivo facile,
identificato nelle foto resa segnaletica, per i rancorosi starnazzamenti fuori
tempo dell’ambiente vetero-milanese che attende pateticamente una vendetta
culturale a cui non ha diritto, perché non ha cultura, ma solo feticci.
Ammuffiti dal tempo, tra l’altro.
Giannino Malossi