Carlo Romano

Maggioritarie

Federico Vitella: MAGGIORATE. Divismo e celebrità nella nuova Italia. Marsilio, 2024

Fino al 1990 il concorso di Miss Italia adottava dal 1946 fra i sensibili parametri della bellezza femminile le misure di seno, vita e fianchi, ma fu il cinema a stabilire la loro fastosità con l’attributo di “maggiorata”, applicato dapprima a Gina Lollobrigida quando nel 1952 lo sceneggiatore Sandro Continenza, uno dei più prolifici e abili fra gli italiani, glielo appiccicò per la sua generosa interpretazione ne Il Processo di Frine in Altri Tempi, film a episodi di Alessandro Blasetti nel quale l’avvocato Vittorio De Sica, salvandola dall’accusa di tentato omicidio, era d’altra parte impegnato con una infervorata arringa poggiata sulla prorompente bellezza dell’imputata, “maggiorata fisica”, a guidare i giurati dalla sua parte. Non ci volle molto che il termine si sviluppasse in una profusione che coinvolse inizialmente soprattutto Silvana Pampanini, Sophia Loren, Silvana Mangano (tutte partecipanti a Miss Italia).

Federico Vitella, ordinario di storia e teorie del cinema all’Università di Messina, non è tanto interessato a ricostruire la cronaca del fenomeno quanto a delinearne gli aspetti antropologici, sociologici e psicologici con la carica mossa all’inseguimento dell’erotismo e delle sue vampate di cultura non solo di rossori. Da qui parte la necessaria riflessione sul divismo col generoso apporto del giornalismo coadiuvato dalla stampa rotocalco, per altro sperimentata già negli anni Venti proprio dalle testate cinematografiche (“Cine Romanzo”, “Stelle”, “Films”) e con la terminologia a questo punto attestata nel secondo dopoguerra anche sulle riviste di critica specializzata (“Cinema Nuovo, “Filmcritica”, “Bianco e Nero”). Se il rotocalco aveva una resa fotografica migliore delle altre tecniche, con la buona riproduzione delle mezzetinte, l’emergere della figura del fotografo di dive e situazioni stuzzicanti – poi, col nome di un personaggio del felliniano La Dolce Vita, universalizzato in Paparazzo – era stata favorita dalla diffusione di apparecchi fotografici maneggevoli e con ottiche che garantivano un’incisività (Leica, Rolleiflex) sfruttata anche dal materiale commerciale ausiliario come le cartoline coi ritratti, talvolta “spinti” per l’epoca democristiana, delle “maggiorate”. C’era dunque tutto uno spazio sociale ora tecnico ora sentimentale volto a parlare del corpo e a parlare col corpo.

Ciò che questo fenomeno di amplificazione della figura femminile aveva di clamoroso ebbe un corrispettivo - come osserva, mi pare con misurata ironia, Vitella - nell’allargamento dello spazio economico di un cinema italiano già  ai vertici del prestigio internazionale con un neorealismo che in patria causò il “celeberrimo sfogo di Andreotti pubblicato dal quindicinale della Democrazia cristiana “Libertas”, nel febbraio del 1952, a proposito del “pessimo servigio” reso alla patria da Vittorio De Sica con Umberto D (senza contare che deplorazioni tipo “lo scandalo delle curve” di Guido Aristarco ne costituivano una prosecuzione moralistica applicata alle signore del cinema italiano). Ecco, se non siamo esattamente al cospetto di un libro di tradizionale storiografia, l’autore non ci fa perdere nessuno degli episodi che hanno costituito buona parte del succo di quell’originale stagione del nostro cinema, per cui se i critici alla mostra di Venezia erano impegnati a recensire come si deve La strada della vergogna (Aka sen chitai, 1956) alla parata delle stelle in laguna non mancava tuttavia chi “specialista di cronaca mondana prendeva meticolosi appunti sull’elegantissimo abitino azzurro pastello con cui Lollobrigida aveva inaugurato la Mostra”.

Con tutto questo – e con un ingente e suggestivo campionario di immagini - Vitella non omette di riflettere con attenzione sui particolari dell’estetica cinematografica che se possono essere serviti ad enfatizzare un fenomeno, si sono nondimeno sviluppati in una ricerca linguistica che è finita col rendere “più complesso e sofisticato il funzionamento del campo-controcampo”. Per giunta a Vitella il primo piano delle maggiorate non appare affatto estraneo alla ricerca estetica. Per dare a Cesare quel che è di Cesare, Vitella riconosce a Guido Aristarco un’acuta analisi che vede nel primo piano non necessariamente parlato “quanto mancava al parco attoriale femminile mussoliniano (Alida Valli, Assia Noris, Isa Miranda, Clara Calamai, Isa Pola ecc.) per essere davvero competitivo”. Il personale tecnico e direttivo dell’epoca delle maggiorate aveva viceversa piena consapevolezza del valore peculiare del primo piano delle attrici famose (lo rilevò per altro Silvana Pampanini in una testimonianza retrospettiva).  Non era solo un’attenzione per il primo piano bien fait, come dicono i francesi. Un attento esame iconografico della produzione italiana mostra anzi “lo sforzo più o meno importante, più o meno riuscito”, di articolare l’impatto figurativo in paradigmi pittorici di lungo periodo.

Per “fogli di via”