Bruno Maffi (1909 – 2003) fu un
eccellente traduttore dal tedesco, dall’inglese e dal francese. Tradusse, fra
gli altri, Steinbeck, Cronin e Ödön
von Horváth per Bompiani, Jane Austen
e Dickens per Rizzoli, Orwell per Mondadori… Lavorò con Pavese all’Einaudi. Fu
anche nel Comitato Centrale di Giustizia e Libertà e nel 1934 ebbe l’incarico
di ricostruire il centro socialista in Italia. Si avvicinò successivamente alla
sinistra comunista italiana e nel 1943 fu dei fondatori del Partito Comunista
Internazionalista. Quando questo si scisse nel 1952 seguì Amadeo Bordiga e
firmò per anni l’organo “Programma Comunista”. Nel testo che segue – ricavato
da Esperienze e Studi Socialisti,
in onore di Ugo Guido Mondolfo (La Nuova
Italia, Firenze 1957) rievoca il suo vecchio professore (fratello di Rodolfo
Mondolfo) che fu vicedirettore di “Critica Sociale” all’avvento del fascismo e
che tornò a dirigere alla sua caduta.
Bruno Maffi
Ricordo di Ugo Guido Mondolfo
So di non
appartenere al novero degli allievi che hanno procurato molte soddisfazioni al
Maestro. Non ho seguito la via della scienza pura; ho battuto e batto in
politica una strada che non è la sua. Non v'è pregiudizio di parte nel mio
ricordo, e nel mio brevissimo omaggio.
A noi appena usciti dal ginnasio, il nome di Ugo Guido Mondolfo incuteva un
grande rispetto e, perché non dirlo? una certa paura. Ce l'avevano dipinto
severo, e la sua figura ascetica non era di quelle che creano un'immediata
corrente di calda intimità fra professore ed alunno. Istintivamente, ci
sentivamo sperduti in un mondo nuovo di cui non possedevamo la chiave. E, se ne
eravamo conquistati, è perché finivamo per riconoscere nella maschera severa
l'austerità della scienza che spregia la retorica, l'approssimazione, la facile
conquista, non la durezza dell'uomo che guarda dall'alto l'inerme e l'incolto.
Ci avvicinava a sé a poco a poco, non con gli artifici brillanti di una facile
parola o di un cuore aperto - che pure brillava, a tratti, nel lampo
d'indulgente ironia degli occhi intenti - ma con lo stesso rigore formativo di
una cultura solida e di una mente chiara. Senza darlo a vedere, ci iniziava al
difficile uso degli strumenti della ricerca storica e ad una visione
razionalistica del mondo.
Per me, se ripenso a quegli anni lontani e così difficili, è questo il primo
insegnamento che i suoi alunni hanno ricevuto da lui. Altri professori potevano
essere più brillanti, più facili, più vicini a noi - forse solo perché più
giovani - nessuno ci forniva un metodo più sicuro, un più valido mezzo di
formazione. E' con lui che abbiamo cominciato a ragionare con la macchina del
nostro cervello.
E poi, ci schiudeva un mondo insospettato. Uscivamo dal bozzolo di programmi
ricalcati su una concezione aulica della storia, che allineava su una scena di
cartapesta personaggi forse pittoreschi ma puramente letterari, staccati dalla
loro e dalla nostra vita; per la prima volta, vedemmo muoversi sotto la
superficie dei cosiddetti grandi fatti storici le classi e le loro continue
lotte, e il tessuto economico e sociale articolarsi; vedemmo dietro i blasoni e
le armature tintinnanti, di cui era stata nutrita la nostra fantasia giovanile,
e dietro la brillante vita cittadina dei pannelli storici di colore, i popolani
con le loro fatiche e i loro tormenti, e gli aspri conflitti di forze sociali
al vertice e alla base di quelli che, nei sudati libri di ginnasio, ci erano
parsi i solidi e monolitici edifici di repubbliche, regni ed imperi;
riconoscemmo finalmente nel popolo grasso e minuto della Firenze medievale o
negli Stati della Parigi settecentesca le immagini - proiettate su un altro
schermo, ma vive e tangibili - del nostro stesso tempo; risentimmo nelle lotte
e nelle conquiste del passato l'eco di quelle che si agitavano, confusamente
presentite e spesso mal comprese, intorno a noi, e che battevano fino alle
porte della nostra scuola - il Liceo Berchet, - come di tutti i presunti
sacrari intangibili di una cultura intemporale. Così
le tensioni del primo dopoguerra, alle quali non potevamo sfuggire neppure se
l'avessimo voluto perché tumultuavano con violenza nella nostra vita quotidiana
e si ripercuotevano nel cerchio delle nostre famiglie, delle nostre amicizie,
perfino dei rapporti fra compagni (ricordate le furibonde battaglie
trasfigurate al ritmo delle battaglie del passato, o compagni dispersi della
IB?), si illuminavano alla luce delle tensioni di classe in età lontane e
vicine; e non a caso ho ricordato il tumulto dei Ciompi e la rivoluzione
francese, perché appunto in quei grandi episodi - programma o no - la voce di
Mondolfo toccava i suoi accenti più vivi e più caldi, e l'impeto delle lotte di
classe infrangeva, prepotente e fecondo, la corazza della cultura ufficiale.
Non egli, così scrupoloso, avrebbe imposto agli alunni la propria ideologia; ma
essa dava al racconto storico un'ossatura, lo rendeva palpitante e, insieme,
limpido. in un modo che per alcuni di noi non andrà mai perduto. Nessuno gli
avrebbe chiesto - né avrebbe ricevuto da lui - un filo
conduttore (del quale tuttavia lo sapevamo in possesso) per orientarsi e agire
nel presente, come per interpretare e capire il passato: ma il filo c'era, e ci
veniva non dai libri ma dal suo modo di illustrare, chiarire e concatenare i
fatti. Aveva un nome, dovevamo saperlo più tardi: si chiamava interpretazione
materialistica della storia.
È a questa scuola, alle parole ch'egli ci diceva dalla cattedra e passeggiando
nel suo caratteristico modo fra i banchi, alle difficili esercitazioni che ci
affidava e che inevitabilmente battevano su quei due grandi tasti, che si è
accumulato per molti di noi - poco o molto che abbiamo fatto, vicini o lontani
che siamo - il secondo debito di riconoscenza per Ugo Guido Mondolfo
professore. Era, dopo l'insegnamento di un romantico socialismo materiato di
fatiche e privazioni che qualcuno di noi respirava a casa, una prima e solida
educazione al marxismo; e, per lui era una battaglia che continuava mentre, fuori
e dentro le mura della scuola, la classe dominante celebrava e suoi sanguinosi
trionfi. Era presto per capirlo, allora; non è tardi per riconoscerlo. E, di là
da ragioni affettive familiari e personali, e fuori e al di sopra delle
posizioni di parte, è un motivo di più per volergli bene.