Sandro Ricaldone

Martino Oberto (1925-2011)

 “Pensare a pensare senza (un) fine”: con questo programma all’inizio degli anni ’50 Martino Oberto dava avvio ad un percorso che tra scrittura visuale e filosofia, istanze anarchiche e cultura off, ne ha fatto per sessant’anni uno dei protagonisti della scena culturale, oltre i confini nazionali.

Dopo essersi accostato al gruppo genovese del Movimento Arte Concreta, ispirato da Munari e Dorfles, con cui espone nel 1953 a Milano, e allo Spazialismo di Lucio Fontana, in una mostra tenuta nel ’56 a Genova, alla Galleria San Matteo, influenzato dall’incontro con la filosofia di Wittgenstein e dalla frequentazione con Ezra Pound, perviene ad elaborare un genere di scrittura che si propone come forma possibile del pensiero, una sorta di “linguaggio fuori dal linguaggio” in cui l’idea e l’espressione vengono portati a coincidere. Di questo approccio, che ne fa uno dei capostipiti dell’area di ricerca verbovisiva, diviene palestra la rivista “Ana eccetera”, fondata e diretta dal 1958 con Anna Oberto, nel cui ambito esordiscono altre personalità di grande interesse come Ugo Carrega, Corrado D’Ottavi, Rodolfo Vitone, Vincenzo Accame, e che ospita, fra l’altro, il suo “Journal anaphilosophicus”.

“La linea di ricerca di Ana Eccetera – scriveva in una dichiarazione del 1973 – ha indicato un “atteggiamento ‘anti’ in cultura e politica culturale” dove il prefisso ‘anti’ è da leggere anche come “avanti, che anticipa qualcosa”. E davvero la rivista, nel ventaglio dei suoi interessi (che abbracciavano la semantica generale di Korzybsky, l’Interlengua di Peano, le ricerche di cibernetica applicata al linguaggio di Silvio Ceccato), ha rivestito un ruolo significativo nell’esplorazione di un orizzonte inedito nel nostro paese.

Ma il dinamismo di Martino Oberto non è rimasto confinato nell’ambito artistico e nella dimensione filosofica, ripresa nel libro-opera “Anaphilosophia” del 1977. Ad essi si è unito l’impegno in campo cinematografico, con il documentario “A proposito di Ezra Pound” del 1955 e con il film concettuale “O botteto” (1968) in cui l’artista compie il suo “salto sul mondo”. E l’attività di analisi e restauro di dipinti, condotta ai massimi livelli, che lo ha portato a intervenire sulla “Città ideale”, il capolavoro esposto nel Palazzo Ducale di Urbino. La sua figura, che negli anni ’60 il poeta belga Marcel Piqueray descriveva come di un “giovane Bertrand Russell italiano”, anche in questi ultimi anni ha segnato con la sua verve gli eventi culturali della nostra città. Ci mancherà, con “il suo sempiterno ‘in project’” (Koenig), con la sua capacità di “gettar via la scala dopo esservi salito” per superare “il limite tracciato al pensiero”. “il Secolo XIX”, 23 giugno 2011