Da “Libro Aperto”, rivista fondata da Giovanni Malagodi
(n.107, 2021)
Pier
Franco Quaglieni*
Raimondo Luraghi, lo storico e
il patriota
Nell’agosto
del 2021 cade il centenario della nascita di Raimondo Luraghi,
storico e docente universitario, partigiano combattente, considerato uno dei
massimi studiosi della Guerra Civile americana. Dal 1990 al 2000 fu
rappresentante dell’Italia nel Comitato mondiale per la Storia Militare
dell’Unesco. Nel 1998 fu insignito dal Presidente della Repubblica della
Medaglia d’Oro dei Benemeriti della cultura.
Luraghi, pur essendo nato a Milano, visse fin
da ragazzo a Torino ed è singolare che per i suoi 90 anni fu festeggiato in
molti ambiti rigorosamente non torinesi, se si eccettua la significativa
iniziativa, su proposta del Centro “Pannunzio”, della
Preside del Liceo “Cavour”, di cui fu allievo, di omaggiarlo invitandolo a
consegnare i premi ai migliori allievi del Liceo: un gesto altamente
significativo riconosciuto dai giovani presenti. Torino, invece, rimase assente
da ogni forma di riconoscimento. Eppure Luraghi fu
partigiano combattente, decorato di medaglia d’argento al Valor Militare in
seguito ad una ferita riportata in combattimento. Nell’immediato dopoguerra
collaborò all’edizione torinese de “L’Unità”. Poi la strada seguita da Luraghi lo portò verso altri interessi ed egli si rivelò
uno studioso non schierato politicamente. Già nella Resistenza, pur militando
nelle Brigate “Garibaldi”, fu amico leale di Enrico Martini Mauri, Ufficiale
degli Alpini quindi militare di carriera,
Comandante partigiano delle Divisioni Alpine Autonome, sprezzantemente
definite dalla sinistra “badogliane”, su cui scrisse pagine di grande
significato storico e fu autore di una bella prefazione a Partigiani penne
nere, il libro di memorie resistenziali di Martini Mauri. Il libro uscì
nel 1968 da Mondadori e non fu mai più ristampato fino al 2016 quando le
Edizioni del Capricorno di Torino lo fecero uscire con la mia prefazione.
Sono molto importanti le sue memorie partigiane, oggi introvabili anche
su internet , Eravamo partigiani. Ricordi del tempo di guerra (Milano,
Rizzoli 2005), perché descrivono la sua partecipazione alla Resistenza come
ufficiale del Regio Esercito. Inizialmente con i giellisti,
si allontanò da loro per la faziosità politica che li
contraddistingueva e preferì i garibaldini che, dopo la svolta di Salerno da
parte di Togliatti, avevano anteposto la lotta di liberazione alle questioni di
Partito. Luraghi si rese conto tuttavia di una realtà
molto diversa che serpeggiava tra i partigiani comunisti.
Egli sottolineò
come la stragrande maggioranza dei combattenti per la libertà fosse costituita
da ufficiali, sottufficiali, soldati che diedero forza e consistenza al
movimento partigiano. Non fu mai favorevole al revisionismo. Si dichiarò
disposto a stringere la mano a chi combatté dall’altra parte ma senza
impensabili e storicamente errate equiparazioni tra partigiani e “ragazzi di Salò”.
Rifiutò
l’egemonia comunista sulla Resistenza, rimanendo sempre coerente con gli ideali
di libertà che lo spinsero, giovane ufficiale, a salire in montagna. In una
intervista uscita sul “Corriere della Sera” egli dichiarò testualmente:
<<Quando la politica si infiltra nella storiografia è come un’iniezione
di cianuro: finisce di ucciderla>>. Basterebbe questa frase per cogliere
il valore di uno dei maggiori storici italiani che si pone al livello di quelli
che in passato furono Franco Venturi e Renzo De Felice. Il fatto di essersi
staccato dal mondo comunista gli procurò un lungo isolamento ed una vistosa
ostilità. Per quanto fosse sicuramente il maggior storico militare della
generazione successiva a quella di Piero Pieri, venne in più occasioni
discriminato anche a livello accademico. Rilevava le ovvietà antimilitari, più
che antimilitariste di certi storici italiani e riteneva che la Grande Guerra
avesse fatto gli Italiani completando il Risorgimento. In un’occasione mi citò,
parlando della Resistenza e della guerra civile del 1943 – 1945, la locuzione
latina audiatur et altera pars, sottolineando il
dovere di scrivere anche dei fascisti con rigore storico, lui che era stato un
valoroso partigiano.
Il suo
capolavoro è la Storia
della guerra civile americana, un’opera ciclopica e minuziosa che, per dirla
con lo storico Adolfo Omodeo ci restituisce <<
il senso della storia>>, cioè la complessità storica che non può essere
confusa con le semplificazioni ideologiche che tendono ad utilizzarla impedendo
ai lettori di capire veramente gli accadimenti. Per Luraghi,
che ebbe la cattedra universitaria a Genova ma non a Torino e che fu visiting
professor nelle principali Università americane e canadesi, la guerra
civile americana non può essere interpretata secondo una visione moralistica e semplificata che divide sudisti e
nordisti tra schiavisti e liberatori, ma va studiata come una vera
rivoluzione nazionale, in cui << l’utopia apocalittica>> – come
diceva Luraghi citando Omodeo
– ebbe un ruolo , ma non fu determinante. La figura di Lincoln viene infatti
vista come il Cavour o il Bismarck degli Stati Uniti d’America, che nascono
come Nazione proprio da quella guerra terribile per numero di morti e di
rovine. Con grande intuizione, Luraghi vede in quella
guerra civile l’inizio della guerra moderna con le sue immani carneficine per
l’uso di armi legate al potenziale industriale americano che modificherà
radicalmente il modo di condurre le guerre, come farà in seguito la Grande
Guerra del 1914. Lo storico che, citando Bismarck, ritiene che le Nazioni siano
forgiate << con il ferro e con il sangue>> e che cita spesso i
grandi classici da Polibio a Machiavelli, denuncia così il dramma della guerra
moderna di cui egli stesso, giovanissimo, fu protagonista e partecipe durante
il secondo conflitto mondiale sul fronte occidentale.
Accettò di
introdurre con una lectio
magistralis al Circolo Ufficiali di Torino
nel 2012 il ciclo, organizzato dal Centro “Pannunzio”
con il gen. Franco Cravarezza, dedicato all’apporto
delle Forze Armate alla Resistenza, tema fino ad allora rimasto quasi
nell’ombra. In lui parlarono ad un tempo il volontario della libertà e lo
storico, ma prevalse quest’ultimo, com’era nel suo spirito. Fu partecipe attivo
di tante iniziative del Centro “Pannunzio”.
Quest’uomo eccezionale mancò agli inizi del 2012 e ci addolora il fatto di non
aver potuto ricordarlo al Cimitero Monumentale di Torino e soprattutto che a
farlo siano stati personaggi che, lui in vita, gli erano stati molto distanti,
ma ci consola che il suo magistero abbia influito su molti di noi grazie alla
sua frequentazione. C’è da augurarsi che il centenario della sua nascita sia
l’occasione per ricordarlo degnamente come studioso e come patriota.
*Pier FrancoQuaglieni ha diretto per
decenni il Centro Pannunzio di Torino che nel 1968,
poco più che ventenne, contribuì a fondare con Arrigo Olivetti e Mario Soldati.
Giornalista e storico, ha scritto numerosi saggi, in particolare sulla storia
del Risorgimento.