Da
Cinema &
Generi 2012 edito da Le Mani
Renato Venturelli
Sidney Lumet e i
generi
Il thriller è una delle vette più alte della “teatralità”, rende plausibile l’implausibile. (Sidney Lumet, Fare un film)
Per
mezzo secolo, Sidney Lumet (1924-2011) è stato lo scheletro nell’armadio dei
cinefili di mezzo mondo, il regista da rispettare e da cui tenere al tempo
stesso le distanze, l’esponente di un cinema middle-brow che esibiva troppo
apertamente le sue ambizioni più superficiali. Gli si riconosceva sempre un’eccellente
direzione d’attori e una capacità di valorizzare le sceneggiature, ma si
trattava di complimenti ambigui, da cui trapelava anche l’accusa di dar troppo
spago agli esibizionismi d’attore (da Rod Steiger ad Al Pacino) o di mettersi
semplicemente al servizio di copioni ben rifiniti.
Non
è soltanto una questione di critica europea. Manny Farber, fin dagli esordi del
1957 di La parola ai giurati, lo liquida
subito insieme a tutto il gruppo televisivo dei Paddy Chayefsky, Delbert Mann,
Martin Ritt, Robert Mulligan, John Frankenheimer. Per Farber, sono autori che
si limitano a riciclare l’immagine dell’artista alternativo in forma
banalizzata e gradevole per un pubblico mediamente acculturato: scuola
newyorkese, provenienza televisiva, temi liberal, recitazione da Actors Studio…
Andrew Sarris, nel suo Directors and
Directions 1929-1968, bibbia dello spettatore auteuriste americano, dieci anni dopo ci va più leggero, ma lo
giudica al massimo “piacevolmente impersonale”: “sfortunatamente, non mostra
alcun segno di potersi elevare dalle aspirazioni middle-brow dei suoi progetti
per diventare il maestro anziché l’imitatore dell’attuale tendenza lontano da
Hollywood”.
A
scatenare le accuse sono nella maggior parte dei casi i suoi film più a tema,
quelli che affrontano in modo retorico argomenti “importanti”. All’uscita di Quinto potere (1976), film “sulla
televisione”, Giuseppe Turroni lo ritiene regista “molto sopravvalutato dalla
critica internazionale” e di “scarsa inventiva filmica”, pur riconoscendogli “una
certa eleganza, un tocco nervoso, delicato, a suo modo sensibile”: “Lumet sceglie solitamente soggetti
interessanti, di piglio “moderno”, ma, a differenza di quel che succede a
Hollywood con “mestieranti” (che poi a volte non sono tali) in grado di andare
oltre la materia trattata, lucidamente selezionandola nei suoi spazi e nei
tempi di un flusso cinetico, Lumet si ferma allo stadio della sceneggiatura
(questa ha avuto un Oscar, come del resto alcuni degli attori protagonisti),
non la illumina con la sintesi di una calibratura espressiva”. Qualche tempo
prima, lo stesso Turroni lo indicava però con bella definizione “regista
discontinuo, ma più importante del suo impegno culturale” (1973), mentre nel
1979 torna sull’argomento, riflettendo in particolare sulla “teatralità” di
Lumet: elogia Fascino del palcoscenico
(1958), Il lungo viaggio verso la notte
(1962), ma soprattutto Il gruppo
(1966), “il più cukoriano dei film di Lumet”, che “è venuto a darci ragione
circa le scelte di uno spazio scenico che vuol farsi segno di una condizione,
se non creativa, certo inventiva”.
La
parola d’ordine più tranciante la dà all’inizio degli anni ‘90 Serge Daney,
parlando di Il verdetto
(“obiettivamente malconcio e mal raccontato, insomma brutto”) e trasmettendo la
formula che sembra definitiva per le nuove generazioni di cinefili: “Lumet è il
prototipo del regista che filma dal punto di vista di nessuno, e crea perciò
un’efficacia astratta, così astratta che rimane sempre ai margini di qualsiasi
punto della sceneggiatura”. Al tempo stesso, però, Lumet è apprezzato da
colleghi registi, e non si tratta di nomi qualunque. A Truffaut, La parola ai giurati era piaciuto (“film
di sceneggiatore, forse, ma che sceneggiatore!”), e per lui Lumet dimostra “un
senso degli attori ammirevole” (il binomio attori-sceneggiatura impostato
autorevolmente fin dal 1957…): qualche anno dopo, dirà in una lettera di essere
stato lui a far premiare a Cannes gli attori del suo Il lungo viaggio verso la notte. Clint Eastwood, in un’intervista,
stupiva tutti citando come modello ideale non i Don Siegel o i Raoul Walsh
altrove elogiati, ma proprio il newyorkese Sidney Lumet, soprattutto per la
capacità eclettica di passare continuamente da un tipo di film all’altro,
mettendosi ogni volta puntigliosamente al servizio della storia da raccontare.
Peter Bogdanovich lo cita tra i registi più amati nell’introduzione a Movie of the Week, e lo sceglie per
chiudere il suo volume di interviste Who
the Devil Made It, sottolineando il suo essere profondamente newyorkese, il
rapporto col teatro, la capacità di dirigere gli attori e di girare secondo
un’idea già precisa di montaggio.
Quanto
a Bertrand Tavernier, insieme a Coursodon lo difende appassionatamente,
approdando a un giudizio più articolato: Lumet “è tutto il contrario di quei
registi fortunati che fanno del cinema con naturalezza e sembrano in pieno
possesso del mestiere fin dal loro primo film: lui ha dovuto imparare il suo, e
questo apprendimento non è avvenuto senza incertezze (Pauline Kael è severa, ma
giusta, quando scriveva nel 1966 che era ancora fondamentalmente un regista
televisivo e che la sua regia restava monodimensionale)”. Tra gli aspetti più
apprezzati, c’è la volontà di Lumet di girare sempre e comunque film, alla
maniera dei registi classici, accettando anche lavori su commissione. “Per
rendere giustizia all’opera di Lumet, il critico deve abbordarla con la stessa
modestia pragmatica, la stessa assenza di pretenziosità, sapersi orientare
senza idee preconcette tra i falsi grandi soggetti (tipo Il verdetto), le banalità (tipo
Sono affari di famiglia), le opere trepidanti e pasticciate come Dimmi quello che vuoi!, e le vere
riuscite, minori e maggiori, di quest’innamorato di una New York che conosce a
memoria e che sente e filma magistralmente”. E il grande Jacques Lourcelles,
pur citando nel suo Dictionnaire solo
Il gruppo e Assassinio sull’Orient Express (“film decorativo dove tutto diventa
decorativo, compresa la recitazione degli attori”), lo considera “uno degli
ultimi veri autori del cinema americano”, preconizzando la futura riscoperta di
molti suoi film.
E’
proprio in quest’ottica di classicità che si colloca il lungo rapporto tra
Lumet e i generi, per lo più confinato a un ambito preciso: quello poliziesco,
magari attraverso alcune delle sue varianti (rapina, processuale ecc.), ma
sicuramente il più consono a un regista così eminentemente urbano, “a child of
New York City if ever there was one”, come lo definisce Bogdanovich. E questo
al di là del fatto che anche in questo campo si alternano ovviamente film più o
meno riusciti, operazioni più o meno sentite. Ma è come se la mediazione del
genere fornisse uno schermo in grado di attenuare, dirottare e sublimare
quell’impeto didascalico, quell’enfasi didattica che invece inquina spesso i film
in cui affronta in modo più diretto i “grandi temi”, gli argomenti
culturalmente più rispettabili.
Il
suo film d’esordio, La parola ai giurati (1957),
si presenta del resto come combinazione delle sue principali caratteristiche:
film processuale, teatralità dello spazio chiuso, possibilità di parlare della
società contemporanea attraverso la mediazione di una struttura narrativa
“forte” e di genere, esaltazione degli interpreti (in gran parte caratteristi),
possibilità di non distaccarsi troppo dalla propria formazione televisiva. La
sua produzione fino a tutti gli anni sessanta sarà per lo più segnata dalla
matrice teatrale e dal suo ripensamento, da Fascino
del palcoscenico a Pelle di serpente
(Tennessee Williams), da Uno sguardo dal
ponte (Arthur Miller) a Il lungo
viaggio verso la notte (O’Neill), Il
gabbiano (Cechov), La poiana vola sul
tetto (ancora Williams)… In mezzo, incursioni abbastanza riuscite ma non
ancora decisive nel fantapolitico (A
prova di errore, 1964), nel militar-carcerario (La collina del disonore, 1965), nella spy-story (Chiamata per il morto, 1967, che a
dispetto delle critiche resta una delle migliori trasposizioni da Le Carré).
La
vera svolta avviene con gli anni settanta e con l’incandescenza che scaturisce
in quel periodo dal contatto tra cinema di genere e ottica autoriale. Rapina record a New York (1971) usa lo
spazio chiuso di un colpo grosso in un condominio per raccontare con stile
asciutto una società dove tutti sono controllati e spiati – anche se Pauline
Kael osserva giustamente come la tanto celebrata rete di intercettazioni sia in
realtà superflua dal punto di vista dell’intreccio. La formula del film di
rapina torna qualche anno dopo in uno dei suoi titoli più incensati: Quel pomeriggio di un giorno da cani (1974),
dove sfrutta le potenzialità claustrofobiche del genere per lasciare libero
sfogo all’assolo di Al Pacino e a un’enfatica lezione sull’America dei
mass-media. Riflessi in uno specchio
scuro (1973), con Sean Connery, introduce una delle figure più importanti
dell’opera di Lumet: quella del poliziotto, al centro della fondamentale trilogia
che comincia con Serpico (1973),
prosegue con Il principe della città
(1981) e approda a Terzo grado
(1990), dove un giovane procuratore indaga sul poliziotto marcio Nick Nolte ma
scopre una corruzione che si annida dappertutto. Col suo protagonista cristologico
e la sua forza mitologica, Serpico è
il film più giustamente famoso di Lumet (“a rebel with a cause”, secondo la
definizione del regista), ma Il principe
della città è quello che raggiunge forse una più ossessiva intensità, con i
suoi tempi eccessivi, i suoi squilibri narrativi, l’angoscia di doppiezze,
confessioni e tradimenti, l’intensità di un soggetto che lo stesso Lumet definì
“da tragedia greca” (il poliziotto Treat Williams che decide di collaborare,
crede di poter controllare la situazione e si ritrova intrappolato senza
scampo).
In
mezzo, ci sono tante altre incursioni nel genere, che oscillano tra un corretto
professionismo e la declinazione di temi più personali. Tenendo sempre presente
quanto ha scritto Lumet nel suo libro Fare
un film: “il thriller è una delle vette più alte della teatralità, rende plausibile l’implausibile”, affermazione che
traccia un collegamento diretto tra la frequentazione del genere e uno degli
aspetti centrali della sua figura autoriale.
Si
parte da Assassinio sull’Orient Express
(1974), giocosa variazione sul tema del gruppo di personaggi in uno spazio
chiuso, memore come dice Lumet della grande tradizione “ferroviaria” di Shanghai Express o La signora scompare, per certi aspetti anche un rovesciamento
dell’impostazione di La parola ai giurati,
perché ad essere forzatamente rinchiuso in uno spazio circoscritto è un cast
stipato di star e grandi attori (“l’idea di avere un cast pieno di star è stata
mia”). Il verdetto (1982) fornirà lo
spunto per un’elogiatissima interpretazione di Paul Newman come avvocato
alcoolista, diventando oggetto di appassionate discussioni tra chi lo rivendica
tra i migliori film di Lumet e chi invece lo considera implacabile
testimonianza dei suoi limiti.
La
struttura simil-Insospettabili di Trappola mortale (1982), la commedia
familiar-criminale Sono affari di
famiglia (1989), il giallo al servizio di Jane Fonda Il mattino dopo (1986) o l’anonimo remake del cassavetesiano Gloria (1999) rimarranno tra i titoli
meno riusciti, ma elementi più personali troviamo nell’ambiente ebraico
fondamentalista di Un’estranea tra noi
(1992), nella crisi dell’avvocata in carriera di Per legittima accusa (1993), e soprattutto nell’improvvisa scoperta
di un universo morale fatto di zone grigie più che di nitide certezze da parte
di Andy Garcia nell’ottimo Prove
apparenti (1996). Quest’ultimo è probabilmente il film migliore del gruppo,
anche se Lumet non riesce a trattenere le abituali scene di pianto con cui è
solito ricondurre l’attenzione alle angosce dei personaggi come autentico
fulcro del racconto, attenuando i meccanismi dell’intreccio ed esaudendo al
tempo stesso le voglie esibizioniste degli interpreti: stavolta abbiamo
addirittura tre scene di lacrime l’una dopo l’altra, prima Lena Olin, subito
dopo Andy Garcia e infine Ian Holm, e tutto nel giro di pochi minuti.
D’altra
parte, Lumet è sempre stato un regista che crede alle lacrime. Ma Prove apparenti conferma anche come sul
suo proverbiale eclettismo ci sarebbe molto da discutere e da distinguere,
perché quasi ogni suo film è riconoscibile per il modo in cui guarda ai
personaggi, per la centralità dei loro tormenti interiori, per i tempi presi
nel raccontarli.
A
questo periodo in cui Lumet trova una sua dimensione personale all’interno di
produzioni più o meno “su commissione” appartengono inoltre due tra i suoi
lavori più intimi, anche se accolti nella generale indifferenza del pubblico e
di gran parte della critica. Uno è Daniel
(1983), che partendo dal “caso Rosenberg” affonda in una radice poco esplorata
dei malesseri dei suoi film: gli anni del maccartismo, delle delazioni, dei
sensi di colpa, dei personaggi violentati da una società cupa e oppressiva,
quasi che in quel coacervo di colpe di un’America buia si trovasse una matrice
dell’intero cinema di Lumet. Altro film tormentato e struggente sarà poi Vivere in fuga (1988), su una famiglia
costretta a spostarsi ininterrottamente attraverso l’America per le colpe e gli
idealismi dei genitori, due ex-studenti radical che per un attentato giovanile
hanno privato se stessi e i loro figli di una vita autentica. Braccati dagli
agenti, cercano adesso di rendersi
invisibili al mondo cambiando casa, nome e aspetto fisico ogni pochi mesi, ma
cercando disperatamente di mantenere al tempo stesso una loro tenace identità
familiare. Il potenziale thriller si indirizza così verso il melò, facendone
innanzitutto una questione di spazi: da sempre propenso a riprendere i suoi
personaggi in ambienti chiusi, Lumet ci racconta i continui spostamenti dei
suoi protagonisti in spazi raccolti, quasi a sottolineare la tendenza
centripeta di quel continuo movimento, in un angoscioso tentativo di ritornare
costantemente a quel nucleo familiare perduto e continuamente desiderato,
fulcro della propria identità e del rapporto con l’oppressione sociale. Per
certi aspetti, si tratta quasi di un film gemello di Daniel, dolente e intimista eppure quasi dimenticato, assolutamente
da rivedere.
Infine,
gli ultimi due film diretti da Lumet, quelli che alla vigilia della morte
avevano fatto riflettere molti cinefili, ostili per decenni ma conquistati a
poco a poco dall’onesta umiltà del suo lavoro anni ’80 e ’90, dalla sua
progressiva classicità di sguardo. Onora
il padre e la madre (2007) è sicuramente il più ambizioso, il film dove la
struttura di genere veicola una programmatica didatticità di discorso: partendo
da una rapina a una gioielleria, compie infatti una sistematica distruzione di
ogni retorica familiare, scandita da una serie di flashback a incastro e dal
consueto repertorio di interpretazioni, dai vecchi mostri sacri (Albert Finney)
ai nuovi (Philip S.Hoffman).
Onora il padre e la madre
non è solo il film d’addio di Lumet, ma pure quello dei consensi unanimi, anche
se il titolo più provocatore e originale è probabilmente l’altro, il “minore” e
meno celebrato Prova a incastrarmi (2006),
in cui cinquant’anni dopo La parola ai
giurati Lumet torna alla formula del film processuale: solo che il protagonista
è stavolta un gangster mafioso (Vin Diesel, sorprendente), che rifiuta di
denunciare i complici e decide di difendersi da solo davanti al giudice. In
questo modo, non fa soltanto esplodere i meccanismi spettacolari del processo
all’americana, portando in aula tutta l’ambigua, trascinante e torva umanità
del criminale da strada, ma compie un atto quasi liberatorio nei confronti dei
tribunali della coscienza, dei sensi di colpa e dei conflitti interiori del
cinema di Lumet, in una ribellione ai ricatti del potere che corre sul filo di
una spiazzante ambiguità morale. Un ritorno alle origini del cinema processuale
che finisce insomma per ribaltare beffardamente quello che era stato
l’approccio abituale del regista.
Lumet
chiude così la sua carriera con due film che in maniera diversa si
contrappongono alle tendenze del momento, indifferente ai giochi citazionisti e
pulp, agli svuotamenti e alle decostruzioni alla moda, per ribadire invece un
suo rapporto costruttivo con i generi: come ha scritto Roberto Pugliese, è un
autore che non usa i generi come contenitori da svuotare, ma da riempire. Alla
maniera, in fondo, degli autori classici, di cui apprezzava innanzitutto
l’etica del lavoro: “Troppi cineasti vogliono fare solo capolavori – diceva –
Per capire la mistica della macchina da presa ci vuole tempo, bisogna
impregnarsene. Ecco perché voglio lavorare tanto. Ad ogni nuovo film che giro,
scopro ciò che sono capace di fare”.