Cinquant’anni
fa, a bordo di un mercantile proveniente da New York, i coniugi Lowry
arrivavano a Genova prima di trasferirsi in Sicilia.Verosimilmente, nessuno
andò ad intervistarli (il romanzo Sotto il vulcano sarebbe stato tradotto solo al
principio del decennio successivo) e qui lo ricordiamo perché, avendo smesso di
chiederci chi bevesse di più tra Malcolm Lowry e Dylan Thomas o che gusto abbia, in mancanza d’altro, una
lozione dopobarba, la pubblicazione di Salmi e canti (racconti di e su, a cura della vedova Margerie, per Feltrinelli, suo
storico editore italiano) fa quasi tenerezza, riportando a tempi in cui romanzi
e racconti, pur distillati d’esperienze divergenti, bruciavano amicizie
stellari sotto lo stesso ordine cosmico. Quelle che seguono sono le pagine
firmate da Max-Pol Fouchet per un vecchio numero delle “Lettres Nouvelles” (1960) dedicato al nostro autore.
Max-Pol Fouchet
no se
puede…
Fu nel 1947 che Stephen Spender
mi spinse a leggere Under the Volcano.
Lui stesso aveva da poco scoperto il libro nel corso di un viaggio aereo tra
New York e Parigi. Riferisco la circostanza sia per ringraziare il poeta sia
perché provo sempre l’impressione di rivelazione avuta fin d’allora. Oggi, dopo
un nuova lettura, la sesta, quella sensazione è la medesima, inalterata. Dopo
Joyce, dopo i grandi Faulkner, nulla di così importante, niente che vada più
lontano e in profondità ci è stato offerto dalla letteratura straniera. Sotto il vulcano è uno dei rari libri
che il nostro tempo imporrà all’avvenire, quando si effettuerà la selezione tra
veri e falsi valori, quando la paglia sarà separata dal grano. Compiango chi
non saprà riconoscerlo. Qui è un punto dirimente della critica.
In questo libro non si
penetra facilmente, è vero, non più che
in Ulisse o L’Urlo e il Furore. Chi predilige la
non-resistenza resta a riva.D’altra parte l’opera affida la guardia ad un primo
capitolo cerberiforme ! Quaranta pagine senza fessure, senza compiacenza, senza
appello, senza acchiappa-lettori, in cui si dispiega tutta la tematica
dell’autore. Primo capitolo che è, del resto, l’ultimo. Là si riassume, nella
coscienza di un personaggio, con scarti diversi, un dramma compiuto il cui
svolgimento ci sarà svelato in seguito.
Eccoci in una tragedia
ancora ribollente, e ne ignoriamo lo sviluppo. Siamo al culmine, ma non al
corrente. Dopo, solo dopo, ci acclimatiamo, respiriamo, portati via dal
movimento. Ci permettiamo dunque di dare questo consiglio al lettore
volenteroso: legga il capitolo iniziale senza farsi scoraggiare, poi, presa
conoscenza del resto, ritorni al punto di partenza, e si accorgerà che
quell’inizio è, in sé, una meraviglia di scrittura ispirata.
Difetto di composizione ?
Per niente. Procedimento troppo specioso ? Ancora meno. Si tratta di ben altro.
Di musica, innanzitutto, se vogliamo. Quel primo capitolo, purgatorio degli
impazienti, equivale ad un preludio; vi si intendono i leit-motive senza ancora
sapere a che preciso evento collegarli. L’opera di M. Lowry somiglia in effetti
ad una sinfonia i cui motivi, nel loro ricorrere, assicurano l’unità totale,
ritornano modulati, talora si organizzano in contrappunto. E’ pure un poema, in
cui quei temi hanno la funzione di rime, di assonanze. Tuttavia il libro non si
spiega paragonandolo alla musica, alla poesia. Esso si spiega in funzione del
tempo suo proprio. Siamo qui in un universo di ritorno ciclico. Ogni evento vi
si ritrova, vi si ridice perché corrisponde ad un archetipo assoluto, lo
riprende, lo riproduce, lo fa risuonare. Nel corso dell’intreccio uno degli
elementi principali è una grande ruota di fiera: gira, sempre presente, in un
senso o nell’altro, trascinando cabine che poi riconduce alla posizione
d’origine. Chiaro simbolo di un tempo di eterno ritorno che non va da una partenza
ad un arrivo ma che, muovendosi su sé stesso, senza posa si ritrova. Questa
concezione dà al libro il suo aspetto di
“rivoluzione” costante.
Questo universo della
ripetizione è quello di un’età dell’oro: dove l’uomo sarebbe sottratto al
divenire, pervenendo all’estasi, alla pace sacrale. Che l’azione del libro
avvenga in Messico non dipende dal caso: essa si accorda pienamente con le
antiche cosmologie. Ma i personaggi vivono in una durata che quella del
peccato: hanno dietro di sé la colpa commessa; in sé e davanti a sé il castigo,
l’Inferno. Chi sono, questi personaggi ? Innanzitutto, Geoffrey Firmin, il
console decaduto, alcolizzato e sapiente.
Egli non ignora né la Kabbala, né le scienze tradizionali, né la letteratura
nella misura in cui quest’ultima segua la via regale dei misteri. Per lui
l’alcool non è vizio, ma passione dell’anima, mezzo di conoscenza. L’etilismo
di Geoffrey attinge quello sregolamento di sensi con cui, nei termini di
Rimbaud, ci si rende veggenti.
Il console ha una donna,
Yvonne. Lei lo ha lasciato; lui non l’ha trattenuta. Yvonne ritorna. Lui
sperava che ritornasse. Lui l’ama. Lei lo ama. Tuttavia i due amanti non
possono ricongiungersi. Li separa una maledizione. Un interdetto pesa sul loro
amore. Che colpa hanno commesso, per subire tale castigo ? Si amavano, sì, ma
non hanno saputo difendere il loro sentimento, metterlo alla prova,
assumerselo. Si sono abbandonati a vicenda, Yvonne ha lasciato Geoffrey
all’alcool, Geoffrey non si è opposto alla partenza di Yvonne. Hanno distrutto
il loro giardino edenico. Ormai non possono ritornarvi. E’ la legge. E le loro
suppliche cozzano nella sua inflessibilità. “Potremmo essere felici tutti e
due” dice vanamente Yvonne, e Geoffrey: “Ah ! chissa perché l’uomo si è visto
offrire l’amore ?” Conoscono il verdetto. E non ignorano dove si trovano: “Il
nome di questo paese è inferno” esclama il console. Sotto il Vulcano ! Non
senza ragione gli Antichi avevano posto il Tartaro sotto l’Etna, e all’interno,
il mostro Tifeo dalle cento teste, dagli occhi e dalla voce terribili.
Raramente un libro ha mostrato cuori più lacerati, più disperati. Mai fu
espressa in tal modo l’impossibilità della coppia.
No se puede vivir sin amar. Questa scritta si mostra su di un muro
di Quauhnahuac, la cittadina messicana descritta nel libro. Essere senza amore,
è dunque esser morto. E, davvero, il console e la sua donna non appartengono
più al mondo, il mondo non appartiene più a loro. Geoffrey, il cabalista,
comprende i motivi di un tal abbandono. Glielo spiega la concezione esoterica
della Totalità: essendo Dio maschio e l’universo femmina, il Tutto si compone
della loro unione, il caos e il nulla dalla loro disunione, e le creature
mortali perverranno alla Totalità o al caos, secondo la loro obbedienza
all’amore.
Yvonne non possiede tali
conoscenze. E’ d’istinto che interpreta la rovina del paradiso perduto. Sogna
di ristabilirlo altrove. In qualche lontana fattoria, potrebbe ritrovare la
fede, salvare Geoffroy dall’alcolismo. Salvare Geoffroy ? Salvare ? Questo ci porta più lontano. La mancanza verso la legge
si rivela improvvisamente più grave, non limitandosi allo scontro tra i due
protagonisti, si allarga alla stessa umanità.
Su Yvonne, su Geoffrey pesa
questa conseguenza della colpa: l’abbandono del prossimo. Geoffroy sa di
sottrarsi senza posa alla miseria del mondo, inventando pretesti per
sottrarvisi. Sono entrambi, Geoffroy e Yvonne, coscienti del proprio egoismo.
Ma c’è di più: un rimorso attanaglia il console: non ha potuto impedire,
durante la guerra, che dei prigionieri nemici fossero massacrati
dall’equipaggio della sua nave, e ci si chiede pure se sia innocente del
crimine…Comunque sia, un intero capitolo sviluppa il tema della responsabilità
verso gli altri. Un Indio agonizza al bordo della strada, assassinato da uno
dei suoi fratelli di razza. Yvonne si allontana dal moribondo, non può
“sopportare la vista del sangue”. Geoffroy invece chiede a Hugh, il
fratellastro, di non intervenire, aspettando l’arrivo della polizia. Non si vede
che quelle pagine si collegano alla parabola del Buon Samaritano ? Come si
chiamava, per l’appunto, la nave assassina comandata dal console ? Il Samaritano. Il discorso è chiaro. Il
tema della carità, non rispettata, corollario della mancanza verso l’amore,
diventa una delle ossessioni maggiori del libro.
La morte del console
ripeterà la morte dell’Indio. Anch’egli morirà, abbandonato sulla strada. Ma
non senza aver ricevuto un’ultima lezione. Un poveraccio, il vecchio suonatore
di violino, si chinerà su di lui e lo chiamerà compañero…A quest’ultima parola di compassione il console proverà
un’ultima gioia, “ciò lo rese felice”. E Malcolm Lowry aggiunge: “Adesso era il
morente sul ciglio della strada, dove non si fermava nessun samaritano”. Così
il ciclo si chiude. La legge è irremissibile.
Il soggetto deve tuttavia il
suo valore al contesto che lo veste, lo moltiplica, l’innalza. Il libro non si
svolge soltanto sui due piani del romanzo e della conoscenza, pone anche
problemi di linguaggio e di scrittura. Si assiste, leggendolo, ad un lavoro
prodigioso con i vocaboli, a colate verbali di ricordi, di citazioni, alle
irruzioni della memoria e della cultura. Le peripezie della scrittura
uguagliano quelle dell’intreccio. Si vorrebbe isolare i paragrafi, le pagine,
fissarli per il loro peculiare lirismo eppure sono tutti trascinati nel
movimento generale. Spesso i personaggi del libro alzano gli occhi al cielo
messicano, contemplano le mappe stellari, il dispiegarsi delle galassie,
l’infinita festa paesana in cui grandi ruote svolgono il loro giro nello
spazio. E’ a quest’ordine cosmico che il libro fa pensare, con i temi che
appaiono, scompaiono, riappaiono come astri. Il cervello umano sposa qui
l’immagine dell’universo. Esso volge intorno al sole centrale della conoscenza
e dell’amore. Effetto dell’alcool ? E sia ! In vino veritas. Ma questo vino è
quello dei mistici.
(trad. di JM)