Pierre
Loti fu uno dei più importanti scrittori di viaggio. Ufficiale di marina, fu
mandato in pensione per la sua denuncia delle crudeltà francesi in Indocina.
Ammirato da Proust e oggi considerato uno degli scrittori francesi più
originali, i suoi libri – non di rado pubblicati in preziose edizioni
illustrate – risultavano in qualche modo – come un po’ tutti gli orientalismi,
gli esotismi, le
turcologie – funzionali a delle seppur vaghe profilazioni
etnologiche (e per Loti ciò valse per un buon numero di regioni, dal Senegal al Giappone all’Isola di
Pasqua). Con Istanbul nel cuore, fu russofobo e antisemita. Tra i giornali più
virulenti contro gli ebrei (e Loti si ostinava a chiamare l’ebraismo col
termine peggiorativo “giudaismo”) c'era la “Nouvelle Revue” di Juliette Adam,
amica di Loti, nella quale, durante l'inverno 1894-95, Le Désert e La Galilée furono pubblicati a
puntate. Ma qui sul pregiudizio prevale la commozione per un mondo favoloso
e civile che oggi possiamo solo immaginare con la letteratura.
Pierre
Loti
Gaza
(da Le Désert,1895)
Domenica di Pasqua 25 marzo.
Gaza, una delle
più antiche città del mondo, citata già dalla Genesi nelle tenebrose epoche
anteriori ad Abramo (Genesi, X,19), Gaza fu presa e
ripresa, annientata e ricostruita da tutti i popoli antichi della terra; gli
egiziani se ne impossessarono venti volte; essa è appartenuta ai filistei, ai giganti
della stirpe di Enac (Giosué,
XI, 21,22), agli assiri, ai greci, ai romani, agli arabi e ai crociati. Il
terreno, ingombro di rovine, ricco d’ossa e tesori, è lavorato fin nel
sottosuolo. La collina di terra che la regge è una collina artificiale, costruita
dal di sotto in tempi remoti e imprecisati; i suoi dintorni sono scavati da
sotterranei di tutte le epoche, dagli uscite
sconosciute; le sue campagne sono crivellate di buchi senza fondo dove si
rintanano serpenti e lucertole.
A più riprese,
essa fu città splendida, soprattutto all’epoca del dio Marnas,
cui era dedicato un celebre tempio. Oggidì, le sabbie hanno colmato il suo
porto, nascosto i suoi marmi. Essa non è che un modesto mercato, alle porte del
deserto, dove si approvvigionano le carovane.
Il suo aspetto è
rimasto saraceno; al di sopra del cumulo scalcinato delle abitazioni,
s’innalzano moschee ed edicole funerarie dalle bianche cupole, si slanciano
svelte palme e grandi sicomori.
Paese di rovine e
polvere. Quartieri d’argilla, di fango secco, con incrostati, qui e là, i
materiali di recupero, un antico marmo saraceno, un blasone delle crociate, un
pezzo di colonna crollata, un santo o un Baal.
Frammenti di templi lastricano le strade; fregi di palazzi greci, per terra,
sulla soglia delle case.
Pochi passanti, e
beninteso, nessuna traccia di carrozze; solo dromedari, cavalli, asinelli.
Qualche turbante
immobile, bianco o verde, seduto sui gradini dei luoghi di devozione. Tutto il
movimento, nello scuro bazar, coperto da palme avvizzite, dove beduini delle
varie tribù del deserto comprano, con denaro ricavato dal saccheggio, finimenti
di cammelli, foderi di sciabola, orzo o datteri.
In una moschea
immensamente santa, la tomba di Nebi-el-Hachem, nonno
di Maometto e attuale patrono della città.
Al chiaro sole di
questo mattino di Pasqua facciamo il nostro ingresso. Dapprima ci si presenta
un ampio cortile, circondato da un bianco porticato. Alcuni uomini vi stanno a
pregare, ma soprattutto è percorso da bambini che giocano sotto il gran cielo azzurro.
In Oriente si usa così: i cortili delle moschee sono luoghi d’incontro dei più
piccoli; appaiono naturali e decorosi i loro ingenui passatempi, a fianco dei
vegliardi prosternati a pregare.
Qua, i più
piccoli, quelli che sanno appena correre, portano un braccialetto risonante
alla caviglia - perché le mamme sentano da lontano dove si trovano, proprio
come si mettono campanelli alle capre nei campi.
Attraverso alcune
ogive, chiuse da inferriate, il cortile comunica con tranquilli recinti
ombreggiati da palme, dove cresce una vegetazione primaverile alta e fiorita:
luogo dove, senza dubbio, dormono i morti.
La tomba del santo
si trova in un angolo; la porta spessa, ornata da sculture antiche, è chiusa a
chiave; qualcuno, che lì pregava, va a cercare il prete guardiano, e noi ci
sediamo in attesa, all’ombra degli archetti bianchi, nell’avvolgente religiosa
pace.
Lentamente arriva,
il prete dalla barba bianca e col turbante verde; apre e noi entriamo. Sotto
una piccola cupola triste, traforata in alto, dipinta da arabeschi di cui
pioggia e umidità spengono i colori, s’erge il gran catafalco di drappo verde;
ai quattro angoli, sfere di rame sormontate da mezzelune e, su tutto, il
turbante del morto velato da una garza sciupata.
*
Lungo le stradine,
lungo i bazar la gente va e viene, occupata nelle faccende abituali; non è né
domenica, né Pasqua, qui, ma un giorno qualunque dell’egira – e niente ancora,
in questa prima città della Giudea, sveglia in noi il ricordo del Cristo.
Però, ecco
un’altra moschea, più grande, il cui ingresso gotico ci sembra un portale di
cattedrale, la cui soglia, dove lasciamo le babbucce, pare quella di una
chiesa. All’interno, una grande navata, a forma di croce latina, con colonne di
marmo grigio e, qua e là sui muri, ancora delle croci, che sono state grattate,
è vero, ma che persistono a disegnarsi sotto gli spessi strati di calce bianca.
Una chiesa, in effetti, edificata dalla fede ardente di quei crociati che un
tempo venivano a farsi uccidere in Terrasanta. Che potenza muoveva quegli
uomini e che prodigi erano in grado di compiere! Come era bella, la loro
chiesa, per esser stata innalzata in mezzo alle guerre, in un tal paese
d’esilio; e quanto è sorprendente incontrarla qui, sempre in piedi!…
Nel suo biancore
tranquillo, rischiarata da un riflesso del gran sole orientale che splende
all’esterno, d’un tratto, si ritrova ancora qualcosa di cristiano... I Franchi
che l’hanno costruita, sette secoli fa, avevano già ben offuscato tuttavia il
Gesù del Vangelo con leggende infantili – e adesso, per giunta, gli scuri
drappeggi verdi di Maometto occupano la navata spoglia, al posto delle immagini
messe là dai ferventi crociati; ma fa lo stesso, qualcosa del Redentore si
ritrova, qualcosa di quasi inafferrabile e d’infinitamente dolce – con, oggi,
una vaga impressione della festa domenicale, della festa di Pasqua…
Del resto, qui
hanno lasciato tracce dappertutto, i crociati, e si rischierebbe di smuoverne
le ossa se si scavasse questo antico suolo saturo di cocci e morti. La
cittadella turca, cominciata nel XIII secolo, modificata, cambiata in ogni
epoca, offre sui muri una mescolanza di raffinati intagli saraceni e di grevi
blasoni di cavalleria, dove ora crescono i licheni e le piantine dei ruderi.
*
Nei quartieri
alti, sostiamo in un punto da cui si scopre tutta la Gaza dalle case di terra,
i suoi sparsi minareti, le sue cupole bianche circondate da palme; poi, i resti
dei baluardi, di epoche imprecise, la cui pianta si fa indistinta e che si
perdono nei cimiteri. Un mondo, quei cimiteri dilaganti nella campagna; in uno
di essi, sotto un sicomoro, un gruppo di donne piange sonoramente qualche
defunto, seguendo i riti ufficiali, e i loro lamenti s’alzano fino a noi. Molti
bei giardini ombrosi, molti sentieri fiancheggiati da cactus, per cui risalgono
file d’asinelli che portano in città l’acqua negli otri. Infine, il mare
lontano, i campi vellutati d’orzo e le sabbie del deserto. Un grande panorama
malinconico cui è difficile assegnare una data nella serie delle epoche – e
laggiù, coperta da tombe, la collina isolata dove Sansone, lasciando nottetempo
una cortigiana, depose le porte divelte della Gaza dei Filistei (Giudici,
XVI, 2, 3).
*
Quando rientriamo
al campo, verso mezzanotte, i dintorni sono parecchio animati; degli ebrei,
mercanti d’oggetti antichi, ci attendono, seduti sulle tombe; dei cristiani
greci, vestiti a festa, alcuni perfino in abiti europei, stazionano per vederci
ritornare.
Poi curiosi e
venditori si allontanano, stanchi, e rimaniamo soli. I nostri beduini, che
stasera ripartono verso il loro deserto, sonnecchiano distesi sul prato. Gaza,
silenziosa, si riposa dalle feste della notte. Un sole cocente dardeggia sulle
nostre tele bianche; le pietre intorno si coprono di camaleonti e lucertole.
*
Sereno e solitario
pomeriggio di Pasqua, trascorso là, seduti davanti alle nostre tende, in quei
cimiteri, osservando il va e vieni delle lucertole, che escono dal terreno in
numero via via crescente. Su tutte le lastre riscaldate che ricoprono i
defunti, esse s’inseguono e giocano. Sull’orlo di ogni cippo, a due o tre si
rizzano sulle zampe e ancheggiano in modo bizzarro.
L’aria va
appesantendosi; si rabbuia senza nuvole visibili; il sole, scialbo e giallo,
smette di rischiarare, pare morire; il suo disco si profila senza raggi, come
visto attraverso un vetro affumicato. E si direbbe prossima la fine dei tempi.
- È una raffica di khamsin che si fa sentire, sono le sabbie circostanti che ci
soffieranno contro…
In una botta
improvvisa, s’alza un gran vento, portando mulinelli di sabbia e polvere...Vedo
avanzare dal deserto, vedo avvicinarsi dalla terra spaventosa, come dei turbini
spinti dal vento, per annientare ogni cosa (Isaia, XXI, 1).
*
Verso sera la
tormenta arida s’acquieta e riappaiono i passanti. Riceviamo la visita del
governatore della città, il gentile principe curdo e di qualche dignitario
musulmano. In seguito, i cavalli da sella e i muli da carico, richiesti ieri a
Gerusalemme con telegramma, arrivano sfiniti per la tappa forzata e si stendono
sul fianco come stremati. Lungo i sentieri fiancheggiati da cactus, le greggi
risalgono dalla campagna verso la città e cade la notte.
Verso mezzanotte,
quando la luna sarà alta, i nostri beduini si metteranno in viaggio per Petra,
portandosi via l’ufficiale e i due soldati turchi che ci avevano accompagnato.
Nel crepuscolo, riuniscono i cammelli impastoiandoli; poi accendono grandi
fuochi per i festeggiamenti della partenza.
E noi
amichevolmente ci salutiamo. Con gli sceicchi Hassan
e Aït ci s’abbraccia, scambiando dei ricordini, Hassan mi dona il suo pugnale e io gli do il mio revolver.
*
Era parecchio
buia, la notte e, tra tutte quelle tombe, ci trovavamo in una sorta di caos
tenebroso dove non distinguevamo nulla.
Ma ecco giungere
il momento che la luna si leva. Dietro di noi, la città, prima indistinguibile,
comincia a profilarsi come sagoma nera su un informe incendio, di color
sanguigno, che sorge all’orizzonte; poi l’incendio si condensa in una massa
infuocata, sempre più tonda, in una sfera che sale, e che presto imbianca come
brace improvvisamente ravvivata e che sempre più rischiara. È un disco di fuoco
argentato, adesso, che s’alza radioso e leggero fino a colmare di luce il
cielo...E su tale sfondo luminoso, i minareti si slanciano, le palme disegnano
i loro pennacchi scuri; tutto quanto prima, per così dire, non esisteva, si
rivela nuovamente, mille volte più ammaliante che di giorno, trasfigurato in
una grande fantasmagoria orientale...Mentre di fronte i sovrastanti cimiteri a
terrazza gradualmente s’illuminano dall’alto verso il basso; un chiarore dolce,
un poco rosato, originatosi dalle tombe in cima, continua a crescere e
diffondersi mentre discende, come una lenta macchia dilagante, finendo col
gettarsi nel bassofondo che ci ospita: ammasso di nomadi, di genti e bestie,
intorno a fuochi che vanno spegnendosi...E allora, ci si vede magnificamente
con quella luna smagliante!…
*
La luna è alta. È
l’ora attesa dai beduini per partire.- Ed ecco
cominciare la sfilata silenziosa dei loro dromedari, sotto raggi d’argento rosato.
Da sopra le loro grandi bestie dondolanti gli sceicchi Hassan
e Aït,
mentre passano, ci
lanciano un ultimo segno amichevole; se ne tornano verso la terra spaventosa
dove sono nati e dove preferiscono vivere, - e la loro partenza pone
termine al nostro sogno di deserto.
Domani mattina, a
giorno fatto, saliremo verso Gerusalemme!...