Rocco
Lomonaco
Sade sul serio
Eric Marty: POURQUOI LE XXe SIÈCLE A-T-IL PRIS SADE AU SERIEUX? Seuil, 2011
Mentre Erik Satie, mettendo ironicamente le mani avanti, avvisava i pronipoti e scriveva: “Non c'è una scuola Satie. Il satismo non esiste” il novecento pare essersi scrupolosamente applicato, nel bene e nel male, a verificare l'esistenza del sadismo. E se a farsene interpreti sono filosofi e professori, s'è dato spesso il caso che, in tanto prendere sul serio e problematizzare Sade, sragionando con lui, ci si sia atteggiati specularmente a chi ha sminuito la portata dell'opera sadiana riconducendola alla vita di uno sfigato marchese del secolo XVIII (costretto a trascorrere buona parte della sua esistenza al chiuso di prigioni e manicomi per crimini più immaginati che compiuti) prolisso catalogatore di ripetitive ammucchiate. Forse la strategia di chi lo eleva nell'edicola dei santi laici per allungare la folle ghirlanda che transitando per Hölderlin e Van Gogh arriva ad Artaud (altrettante figure di una sragione che resiste all'oggettivazione e semplificazione medico-scientifica) è servita, più che alla conoscenza, a puntellare discorsi su trasgressione, insurrezione, scrittura , fuori, Altro e, soprattutto, carriere nella french theory. Sospetto da cui gli italiani sono immuni dal momento che “Sade”, da noi, da Manzoni in avanti, è un dossier sottaciuto ed oggi quasi solo la lettera iniziale di una sigla (SM) buona per scaffali di eros-center, così che la ristampa recente (editore Odoya) del Sade degli anni cinquanta di Dante Serra fa tanto “ripescaggio raffinato”. Nella sua antologia sadiana per Longanesi di mezzo secolo fa, Zolla dovette risalire alle pagine spietate di un altro nobile, il conte Radicati osteggiato persino nella libera Inghilterra, per trovare qualcosa di altrettanto poco irenico da accostare al marchese.
Chez-soi, invece, dopo i 2 volumi di Michel Delon Les
vies de Sade (2007), tocca a Eric Marty, noto studioso di Barthes,
ripesarne acclimatazioni e rigetti: nel suo Pourquoi le XXe siècle a-t-il pris Sade au sérieux? intende
proprio tracciare e verificare, come a chiusura di un ciclo, l'interesse,
quando non la cotta, di tanti scrittori ed intellettuali francesi di
esportazione, per la vita e l'opera di Sade. Il secolo, perciò, è quello
francese, responsabile della sua scoperta e del suo, relativo, oblio odierno. E
Sade va preso sul serio perché è una vittima.
Prenderlo
sul serio ripercorrendo la storia della ricezione e degli usi talvolta
improvvidi cui venne piegato, significa innanzitutto depurarlo degli accenni
che ne fecero per tanti un precursore dei fascismi, ripetendo l'operazione
coeva tentata con Nietzsche. Negli stessi decenni i due furono “sacrificati” da
una cultura che, incapace di mantenersi all'altezza del loro pensiero,
provvedeva innanzitutto a censurarne le fonti, ovvero gli scritti e in generale
le edizioni a stampa.
Per il recluso di Charenton, l'assunzione tra le vittime sarebbe servito
alla strategia di mitizzazione per renderne accettabile, se non classico, il
pensiero nel secondo dopoguerra, facendolo colloquiare alla fine del ciclo e in
absentia anche con chi sembrò ignorarlo. Si scriveva e ripeteva : soltanto chi
vide pienamente il male, poteva capire (pensare) il bene.
Con il suo estendere il dominio della pena e della lotta ad ogni
rapporto fra gli umani, amore incluso, Sade non sperimentava soltanto un'estasi
ed un abbandono peculiari: rendendo negativa ogni cosa, cercava di vivere in
pace con la negatività, ma portando all'estremo questo movimento Sade ne
dimostrava l'impraticabilità e l'impazzimento. L'astuzia spinoziana che, dal
calcolo impassibile conduceva
all'autodominio, veniva innestata sul programma illuministico secondo cui
importano più la conformità che
lo scopo, più lo schema che il contenuto. Scommettendo sull'efficienza apatica
e la disponibilità a qualsiasi scopo, Sade mostrava l'altra faccia della
regressione settecentesca nella “natura”, portando a termine (anzitempo) il
canone dell'ordine totalitario basato sul pensiero calcolatore, secondo la nota
vulgata Adorno-Horkheimer. La ragione borghese illuminista e formale
convalidava il formalismo dei rapporti umani trascinando nel discredito tutto
quanto sapeva di umanesimo progressista. Le “piramidi di ginnasti delle orge
sadiche” anticipavano i meno geometrici ma altrettanto contabilizzati mucchi di
corpi accatastati nei campi di concentramento.
Eppure qui si appiglia chi oggi, oltralpe, vuol leggere Sade con
Levinas, accomunandoli nella critica di un sommario umanesimo generatore di
mostri, il primo partendo dal male assoluto, il secondo da un opposto bene
totalmente altro. Sade scrive ed immagina i campi di sterminio come traccia
della negatività al lavoro nella storia, Levinas li pensa come spiraglio sul
fuori; in ogni caso è la violenza sistematica della normalità ad essere messa
in questione, la realtà come operazione del male o menzogna radicale. Molto più
succintamente, il nostro Savinio scriveva che, spogliato del sadismo, il
novecento si affloscia.
In Francia
Sade era entrato a vele spiegate nelle rispettate riviste culturali nel secondo
dopoguerra: nel giro di pochi anni si susseguirono studi di varia ampiezza di
Bataille, Blanchot, Klossowski, Camus, de Beauvoir, Paulhan fino al tormentato
Foucault (chi volesse approfondire la questione può partire da E. Chanover, De
Sade: A Bibliography ). Se all'inizio Sade era l'eccesso, lo scatenamento e
la verità non detta della ragione calcolante, monumento perenne di eroica
lucidità in cui violenza e coscienza vanno appaiate, alla fine anche Deleuze
(nel preferirgli l'humor masochista più efficace nel demolire il dominio) ne
stigmatizzava l'ingiunzione a godere, indice di un consumismo sfrenato ma
borghese, svelando sotto l'effervescenza della perversione la regola della
società di consumo. Sade come “sergente del sesso”. Il diritto al godimento
assoluto, parodia della morale kantiana (secondo le tesi di Lacan) sfociava nel
pre-potere di voler fondare l'agire sull'universalità della ragione e
nell'amministrazione del mondo come esito dell'annuncio illuministico. La
liberazione delle prime letture e scoperte novecentesche andava via via
incupendosi. Chi, sulla scorta dei surrealisti, leggeva nella profezia sadiana
un programma di liberazione ed emancipazione sottolinenadone i messaggi di
libertà, dovette ricredersi. Anche il mito sadiano era trapassato nella
decostruzione uscendone a pezzi.
Molti french
teorists alla fine ammetteranno che il potere più che vietare e censurare
obbliga, costringendo innanzitutto a parlare fino a confondere i discorsi: la
perversione sadiana, prima vista come contestazione e sovversione, risultava un
effetto di potere, un derivato della sorveglianza.
Qualcosa
comunque è andato storto perdendosi nel passaggio dal gioioso Sade adottato dai
surrealisti (sulla spinta di Apollinaire) allo scrittore tanatologico degli
anni 60/70 (di cui il Salò pasoliniano è una nota esemplificazione).
Tutto pareva essere cominciato sotto il segno della bizzarreria: fu il medico
mancato Maurice Heine (1884-1940), comunista-anarchico (“il potere non si
delega, si esercita”, “un compagno eletto è un compagno perso”), fresco di
espulsione dal PC francese, dopo aver messo mano alla fondazione del “soviet
del XIV arrondissement” ed avere organizzato una delle prime manifestazioni pro
Sacco e Vanzetti, ad impegnarsi nella riscoperta ed edizione del lascito
sadiano e in tale veste riconosciuto
come mediatore e massimo responsabile della torsione messianica assunta
dall'opera di Sade negli anni surrealisti. Heine fece da cuscinetto tra la lettura
“cautelosa”di Breton e quella più coinvolgente e pre-esistenzialista dei
congiurati (fra cui l'improbabile Heine già firmatario di vari appelli
surrealisti) raccolti intorno a Bataille. Fu questi che, dopo la rottura con
Breton alla fine degli anni venti, pesò il “valore d'uso” di Sade, per cui
l'immondo dialoga col sacro e il sublime dell'infame annuncia l'uomo integrale,
riuscendo comunque a sottrarlo alla santificazione verso cui spesso scivolò nei
testi di tanti suoi emuli.
Il Sade
cruciale degli anni trenta è quello, irriducibile e ribelle, che dalla prigione
scrive alla moglie: “Mai la sventura mi avvilirà. Messo ai ferri, il mio cuore
non si è fatto schiavo né mai, spero, lo diverrà, dovessero pure questi ferri
maledetti, sì, dovessero pure portarmi alla tomba – mi vedrete sempre identico,
ho la sventura d'aver ricevuto dal cielo un animo fermo che mai si è piegato e
mai si piegherà”. E quel Sade fu “affare” soprattutto di Heine, scopritore e
divulgatore di materiali su cui altri ricamarono: già redattore negli anni
algerini di La France islamique, nel primo dopoguerra, egli raccolse il
testimone da Apollinaire coltivando il suo oscuro estremismo fuori dalle pagine
de L'Humanité, nei piccoli inferni dei collezionisti e detentori di
manoscritti sadiani, collaborando con riviste mediche o letterarie in cui
dettagliava una puntigliosa attività erudita risultante nella scoperta e
pubblicazione di documenti relativi al secolo XVIII e a Sade, massime la
scrupolosa trascrizione del rotolo delle
120 giornate secondo il principio che “un testo del marchese de Sade
dovesse essere trattato con lo stesso rispetto dovuto ad un testo di
Pascal”(postuma, a dieci anni dalla morte, uscirà da Gallimard la raccolta dei
suoi interventi sul tema, prefata da Gilbert Lely che ne raccolse il
testimone). “Fogli di Via”, novembre 2011