Wolf Bruno

lagnanze da un  civilizzato

Sarebbe fin troppo facile giocare a capovolgere il titolo del pamphlet di Mario Vargas Llosa. Un ulteriore capovolgimento, tornando dunque al titolo originale, si renderebbe a conti fatti necessario – quantomeno ai miei occhi - e potrebbe persino affacciarsi uno spiraglio di luce, come se il percorso implicasse una nuova certezza. Purtroppo non sono interessato alle certezze – ma ne ho, beninteso - e se pure su questo genere di svago c’è chi ha costruito la propria fortuna, è fuori discussione che possa costruirci la mia. Nell’incertezza farò finta che La Civiltà dello Spettacolo (Einaudi, 2013) sia un libro che ha il suo titolo giusto, per quanto, a giusto titolo, mi senta pungolato a discutere quel che segue alla sua ineccepibilità. Quel che segue… Cosa segue di fatto? Non comincerò dall'inizio ma sarà lo stesso. Comincio dal "sessantotto", in fin dei conti il titolo "debordiano" mi autorizza a farlo. Del resto il risalto concesso per tanto tempo alla seconda metà degli anni sessanta si è trasformato strada facendo nella messa in discussione della portata eversiva del "sessantotto", visto a questo punto come l'espressione di una "modernizzazione" inseguita da una parte della classe dominante. Che dietro le quinte agissero anche stavolta gli Illuminati di Baviera non è mai stato affermato esplicitamente, ma che in atto ci fosse la manipolazione dei giovani attraverso ingannevoli sirene anti-autoritarie lo si è fatto capire. Solitamente i vari fenomeni rivoluzionari, benché rigettati nei loro eccessi, sono recuperati per quel poco o tanto di buono che la società è riuscita ad assimilare. Ciò non succede adesso - se mai è stato una rivoluzione - con il "sessantotto", colpevole del suo stesso assorbimento nei costumi, ingrediente che pure fino a poco fa contava su una diffusa approvazione. Tale ritrattazione è dovuta principalmente all'idea che una specie di corrotta democratizzazione del sapere abbia tolto prestigio alla cultura e ai suoi valori. Vargas Llosa pensa che in conseguenza di quegli anni vivaci si sia affermato il “postmodernismo” e discetta sugli inganni dovuti alle sfrenatezze intellettuali di Derrida, Baudrillard e compagnia cantante. Non dice cose campate in aria, tutt’altro, solo che il legame è in realtà labile e la buona sorte di quei tipi della “french Theory” viene più dal ritrarsi delle spinte ribellistiche che dalla loro espansione. Affermare che quel che accadde in quegli anni è dovuto agli “inconsapevoli discepoli” di Michel Foucault, come Vargas Llosa sostiene, è una baggianata bella e buona. Tutto si può connettere, disconnettere e riconnettere, ma se dei nomi proprio li si vuol fare, mi paiono più significativi, per quanto possano esser stati artificialmente diffusi allora, quelli di Herbert Marcuse e di Wilhelm Reich. Un po’ di Bertrand Russel, per giunta, non guasterebbe. La richiesta veramente basilare era quella della fica e, se questo caratterizzerebbe i fatti in maniera esclusivamente maschile, parlare di sessual-libertarismo è magari più equilibrato, ancorché in qualche modo temperi l’influenza che su una generazione ebbero le riviste “per soli uomini”. Per avanzare da qui all'erotismo non occorre immettersi sull'autostrada, il capitolo è quello sucessivo. Ciò dimostra, se ce ne fosse bisogno, che l'acume di Vargas Llosa non è inferiore al mio. Diverso è tuttavia il punto di vista. Per il nostro scrittore ognuna delle disgraziate circostanze che hanno fatto del paradiso civile un gramo spettacolo va ricondotta all'irresponsabile ignoranza del tempo per cui, come diremmo non senza ironia noi italiani, "si stava meglio quando si stava peggio". Le seghe non son più quelle di una volta, questa la sintesi, dal momento che nessuno si è più vergognato di confessarle e addirittura le donne hanno cominciato ad ammettere di masturbarsi. Già intorno al famigerato "sessantotto" si affacciava la preoccupazione che si potesse passare dal sesso negato a quello obbligato, ma il trascorrere del tempo ha dimostrato che le richieste dell'erotismo non son venute meno, anche se profondamente trasformate da nuove possibilità di corteggiamento (che in una certa misura hanno modificato l'onere del ruolo) e da una pornografia non più contumace. Non è d'altra parte nemmeno lo stesso il ruolo dei perbenisti, oggi travestiti da libertini che, come Vargas Llosa, rimpiangono, coinvolgendo arbitrariamente l'ignaro Bataille, il buon tempo andato della trasgressione, senza rendersi ben conto di cosa significhi la parola in termini di comportamenti attuali. Certo era meglio vivere nell'Inghilterra Vittoriana forzando le difficoltà esteriori, ricompensati dai brividi, nella veste di non convenzionali poligrafi e raffinati pornografi. Senza essere avvolti da sontuose biblioteche si contravveniva comunque facilmente la virtù ufficiale seguendo i resoconti di episodi sessualmente significativi, per quanto sfumati e raccontati con disapprovazione o camuffati da denuncia della prostituzione, forniti dalla popolare "Pall Mall Gazette". Risale del resto a quei tempi, e non ai nostri, il primo grande riguardo mediatico e spettacolare conferito a un criminale sessuale, l'impunito non meno che proverbiale "Jack the ripper". Nascevano anche riviste di letteratura erotica le quali, se non erano esattamente il prototipo di quelle pornografiche successive, avviavano comunque un ciclo, ed è quel ciclo che si è concluso, non l'erotismo, come vorrebbe Vargas Llosa. Lo scrittore è mai stato in una chat, li legge i messaggi di Twitter o i commenti su Facebook? L'avesse fatto si renderebbe conto che di culturalmente caratteristico c'è un'estesa capacità di formulare battute, di creare aforismi che farebbero invidia ai classici, di raccontare le proprie opinioni in modo più stringente degli opinionisti. E ci sono anche gi ammiccamenti sessuali, le difficoltà dell'amore, le tecniche più o meno fantasiose della seduzione. Ci sono anche vincitori e vinti, posizioni dominanti e posizioni subalterne, come ai bei tempi di una volta. Manca quella esclusività determinata dalle esigenze (o più precisamente: dai limiti) della vecchia editoria, da un sistema dell'industria culturale che permetteva a pochi di emergere come titolari di capolavori. È questo ciò che Vargas Llosa rimpiange, niente di più e niente di meno. Sforzarsi di capire come il vecchio si esprima nel nuovo è lontano dai suoi propositi e, forse, persino dalle sue capacità di comprensione. Eppure con poca fatica avrebbe potuto immaginare nella corrotta civiltà di oggi un ritorno in chiave massiva di quel secolo che in tema di salaci opinioni - e di erotismo, è bene chiarire - precede quello di Vittoria regina con una rete stupefacente di letterati detti "filosofi". Sono tuttavia pienamente con lui quando decide che gli artisti di oggi equivalgono a dei turlupinatori e condivido le sue linee descrittive della società artistica dominante. Sono ancora con lui - ed è un'argomentazione ampiamente condivisa e discussa - nel ritenere le élites politiche contemporanee del tutto e in tutto inferiori a quelle di mezzo secolo fa. Ma le affermazioni scandalizzate chiariscono poco o niente. Siamo sicuri che il modello di presenza occupato nella vita degli uomini dall'arte a partire dal Rinascimento soddisfi ancora i loro bisogni estetici e rituali? E non vale un pensiero l'eventualità che la politica non debba i suoi intoppi alla qualità delle élites ma a quelli che, affermando di voler rimuovere, essa stessa frappone - anche nella forma della democrazia - fra il singolo e la collettività? Sarà che anche un solo pensiero in queste direzioni cagionerebbe troppi problemi alla conferma della posizione sociale che si è acquisita? La risposta di Vargas Llosa a tutte queste questioni arriva solo nelle poche righe che concludono il suo saggio:

"Faccio fatica a immaginare che i tablet elettronici, identici, anodini, interscambiabili, funzionali a più non posso, riescano a risvegliare il piacere tattile impregnato di sensualità che i libri di carta risvegliano in alcuni lettori. Ma non è strano che un'epoca in grado di vantare tra le proprie prodezze quella di aver fatto piazza pulita dell'erotismo veda sfumare anche l'edonismo raffinato che arricchiva il piacere spirituale della lettura con quello fisico di toccare e accarezzare."

Che dire, capisco perfettamente queste apprensioni e chissà in quanti sono disposti a condividerle. Per quanto Mario Vargas Llosa sia uno scrittore seguito, certe opinioni trovano nelle sue parole solo la conferma di ciò che suppongo tanti lettori hanno pensato per i fatti propri. Vargas Llosa non è solo uno scrittore seguito, è un grande scrittore del quale ho apprezzato i romanzi e un grande intellettuale la cui presa di distanza tanti anni fa dall’iniziale castrismo e dalle politiche radicaloidi è risultata convincente prima ancora di essere clamorosa. Le posizioni che esprime in questo saggio non vanno tuttavia confuse con le ripicche fra “reazionari” e “progressisti”. Fosse così, mi troverei integralmente con lui dalla parte dei primi, tanto i secondi mi sembrano futili e senza senso. No, la sua è l’invocazione di una società letteraria che vive, perché l’ha vissuta con successo, come originaria. La civiltà dello spettacolo comincia con la breve analisi di certi libri ai quali l'autore, a parte alcune riserve, pensa di poterlo imparentare. Il primo è Appunti per una definizione della cultura (1948) di Thomas Stearn Eliot. In realtà non c'era bisogno di passare agli altri autori (Steiner, Debord, Lipovetsky e Serroy, Martel) perché tutto quello che Vargas Llosa aveva da dire era già tutto in Eliot, salvo forse una minore insistenza su un "ordine" immutabile - a meno che non si tratti della famosa Cultura - e una decisa estraneità a certi picchi di antisemitismo. Eliot risponde compiutamente alla domanda che serpeggia per tutto il saggio: "perché la cultura in cui ci muoviamo si è banalizzata sino a diventare, in molti casi, una pallida imitazione di ciò che i nostri genitori e nonni intendevano con questa parola?" Spicca, è vero, un elemento mitigante ("in molti casi") il quale se ha qualche importanza è per sottolineare la prudenza di Vargas Llosa. Nessuna prudenza tuttavia sulla televisione e sul web, i veri agenti corruttori: Chissà cosa avranno esautorato poi, forse qualche vecchio parruccone? Ne siamo così sicuri? A mio modo di vedere quella società letteraria tanto rimpianta è ancora – fortunatamente si dirà - viva e vegeta coi suoi studi, le sue beghe, gli organismi societari, gli appelli. Accanto, mettendola un po’ in ombra,  si ritrova tuttavia quelle nuove (ormai non così nuove) diavolerie… e giù a darle contro! Che un mondo senza il bene e il male sarebbe incolore, e in fondo privo di umanità, lo pensava anche un puritano come Milton, tanto da guardare con angoscia alla "virtù claustrale" dell'Eden prima del peccato di Adamo ed Eva. La sensazione che dopo gli anni sessanta non ci sia più niente di proibito ha spinto certi spiriti elevati - obbligati dalla convinzione di possedere un ruolo speciale e insostituibile - a buttarsi nella ricerca del Satana contemporaneo e lo hanno trovato, restituendo il normale assetto all'umanità, nella televisione e nei social network. Quando André Gide immaginava l'omicidio gratuito, e la televisione non c'era, faceva grande letteratura ma se Donato Bilancia passa un'estate a sparare agli sconosciuti cosa fa, televisione? Le guerre e il mai così eclatante terrorismo non sarebbero in fondo che le estreme conseguenze di un copione spettacolare? Preoccupante sarebbe casomai, a sentire certe campane, l'ordinaria popolazione che assiste a queste rappresentazioni con le pancia piena a rischio di obesità ma deprivata del proprio erotismo ridotto a una sessualità "da postribolo" (Vargas Llosa). Bei tempi quelli di Barbablù e della Contessa sanguinaria! Si legge di pedofilia, di donne sequestrate per anni in condizioni spaventose che si innamorano dei loro rapitori, di gente che muore soffocata masturbandosi nei modi più bizzarri, di bondage e di omicidi sessuali, cosa sarà mai, spettacolo o civiltà? Civiltà degenerata in spettacolo o normale spettacolo degli uomini degenerato in civiltà?